Grace chiuse silenziosamente la porta della sala interrogatori, non voleva disturbare il dolore di Jane.

I suoi silenziosi singhiozzi gli stavano straziando il cuore.

Si sentiva tremendamente in colpa per le parole dure che gli aveva rivolto quello stesso pomeriggio: “…Se satasera la tua famiglia si presentasse tu non la sentiresti perché non ci credi!” gli aveva gridato tra i denti.

L’espressione addolorata dei suoi occhi l’aveva lasciata senza fiato. Lui le aveva risposto con la voce sottile:

“Sarebbe molto triste.”

E lei era corsa via dicendiogli che le dispiaceva, ed era così lei odiava ferire le persone più di qualsiasi altra cosa. Ma a volte Jane riusciva a tirare fuori il peggio da chi gli stava intorno.

Andò alla sua scrivania e spense il computer, sarebbe tornata a casa senza fermarsi al solito bar con le amiche, non aveva voglia di vedere gente.

Jane raggiunse il bullpen dopo pochi minuti, i capelli e il viso umidi segno che era passato dalla toilette.

Si distese silenziosamente sul suo divano e chiuse gli occhi.

“Spero che non dirai a nessuno quello che hai visto Grace, so di potermi fidare di te.” Disse con la voce roca il consulente.

Lei trattenne il respiro per un secondo. Come aveva fatto ad accorgersi della sua presenza?

“Jane…”cominciò lei con la voce tremante.

“Va tutto bene Grace, solo prometti.” Aprì un attimo i suoi luccicanti occhi azzurro verdi per guardarla, non c’era traccia della solita ironia in quegli occhi, solo stanchezza.

Lei annuì: “Te lo prometto Patrick.”

Lui fece un cenno con la testa e tronò a rilassarsi.

Grace uscì dal bullpen, ma dopo pochi passi tornò indietro: “A domani Jane.” Lo salutò.

Lui ondeggiò una mano in risposta, non si fidava della sua voce, avrebbe tradito la sua immensa angoscia.

Grace uscì dal CBI e respirò l’aria frizzante della sera californiana, dopo tutto forse era meglio che andasse a bere qualcosa con le amiche, non poteva permettere al suo senso di colpa di ridurla come Jane: sola e disperata.