I Fantasmi hanno la
Sindrome di Peter Pan
Madeleine
ha una collezione di maschere veneziane: alcune sono ovali, altre coprono la
metà superiore del viso, allungando due alette verso gli occhi, alcune sono di
un’eleganza antica e merlettata di rosa, beige e grigio perla, altre sono lacca
multicolore e luccicante come i dolci, rosso, oro, blu, giallo, arancio: frutti
mielati, accesi, spaventosi. Altre sono vagamente inquietanti: mostrano un
unico vezzoso ornamento colorato su un angolo degli occhi, o sulla fronte, o
sulla bocca, in mezzo a un asettico bianco liscio, che accenna in modo morbido
ma innaturale i tratti del volto. Maschere aliene.
Ha anche una collezione di pietre semipreziose, ma in realtà può contarne a
malapena quindici. Madeleine ha una collezione di folletti orrendi, con la
faccia marroncina, sorrisi aguzzi, abiti verdi. Uno è seduto su un’altalena,
quando Madeleine l’ha comprato non aveva che i due pezzi di spago: un’altalena
senza impalcatura, così l’ha legato al pomello dell’armadio e il folletto
rischia di scheggiarsi il cappuccio verde foglia ogni volta che lei chiude
l’anta. Ma il folletto sorride anche quando si scheggia. Madeleine fa una
collezione di tutto ciò che acquista e che attiri il suo interesse per almeno
una stagione, Madeleine ama parlare di “stagioni” quando si riferisce al tempo,
e mai di anni, o di strade. Per lei il tempo è un guazzabuglio di colori e
venti.
Madeleine
ha sessantacinque anni, vive in Francia e non è troppo turbata, mentre dietro
il fumo della sigaretta vede i suoi capelli grigi, appena mossi nello specchio.
Non sono davvero grigi, si dice, sono pioggia e ferro: non è terribile,
furibonda, gelida e pura luce la pioggia? Lo è certamente.
Madeleine
ama il suo corpo, odia quello di tutte le persone che superino i quindici anni.
Oh,
certamente non ha mai confuso le sue stranezze con la pedofilia, come qualche
ingenuo suo simile faceva. Il suo amore per la giovinezza era troppo intimo – o
forse narcisistico?- per nuocere ad altri e distrarsi da se stesso. In questo è
stata brava: non si è mai sposata, non ha avuto figli col mostruoso intento di
replicare la sua giovinezza: ha fatto l’insegnante di storia dell’arte fino
alla vecchiaia, senza curiosità per i suoi alunni. Erano adolescenti ancor
prima di arrivare ai tredici anni.
Quando
era piccola sua madre aveva notato che era piuttosto brava a cantare e avrebbe
voluto vederla diventare famosa da grande, così “La tua carne si riscalderà sotto la luce dei riflettori, le gocce di
sudore sembreranno diamanti di tutti i colori e se ti tingerai i capelli di
biondo, Maddy, tu sarai una dea” ma la sua voce era cambiata con la
crescita e la sua carne non si sarebbe mai scaldata sotto i riflettori, ma il
suo sudore poteva ricordare diamanti di tutti i colori durante l’ora di
ginnastica a scuola, su quelle gambette dure e lisce come legnetti.
Aveva
avuto un’amica del cuore allora: Cécile. In realtà non era la sua amica del
cuore ma Madeleine l’aveva deciso segretamente, perché Cécile aveva detto una
cosa strana che l’aveva condizionata per la vita, una volta: “I fantasmi hanno
la sindrome di Peter Pan, per questo tornano”. Suo padre era uno psichiatra,
quindi era probabile che Cécile avesse associato quella parola strana alla sua
paura infantile dei fantasmi.
A
Madeleine vennero gli incubi dopo quella frase: si fece raccontare Peter Pan e
gli incubi aumentarono, le venne la febbre. I bambini sperduti erano tutti
fantasmi e per una bambina quella lettura un po’ troppo convincente della
favola, era come aver trovato la prova dell’esistenza dei mostri.
Dopo
la febbre Madeleine era cambiata. La giovinezza, riteneva ora, o meglio, il
desiderio della giovinezza non era terrore della morte, desiderio di bellezza,
nostalgia o cose del genere: era questione di linfa. Era assaggiare l’esistenza
e sentire sapore di menta amaro con punte zuccherine fino alle lacrime: era
vedere delle ginocchia infantili e lisce e accostare il pallore della carne a
una sfumatura azzurrognola.
Madeleine
soffia il fumo della sigaretta contro lo specchio, si vede sparire e
ricomparire dietro quella finta nebbia. È vecchia, ma la sua bocca non è forse
ancora bella e lucida di saliva?
La
sindrome di Peter Pan alla fine era toccata a lei e non ai fantasmi. L’amore
per ciò che si perde, che scorre e che si stringe eroicamente a se, aveva una
luce e una sale speciali, talmente speciali che Madeleine non aveva amato altro
in vita sua che la sua ossessione per quel corpo che si rovinava ma fremeva
ancora di gioia, linfa, sfumature azzurre, impeto da folletto verde, amore per
la sua mente che saltava e rideva di una risata ancora gorgogliante. Amore per
i suoi occhi brillanti, per le sue guance che si chiazzavano di volgari
sfumature rosse quando rideva forte – e le capitava spesso.
Esce
dal bagno per spegnere la sigaretta nel posacenere, le sue dita sono dure, le
ricorda la carne soda che aveva avuto da bambina. Vede le rane in casa sua e
qualche volta le parlano. Sa benissimo di essere schizofrenica, di essere
malata ed è innamorata della sua malattia, è innamorata del suo mondo veloce
che le saltella intorno. Certe volte sono rane, certe volte farfalle, altre
ancora lucciole e sempre, sempre, sembrano di vetro. Ha scelto consapevolmente
di non curarsi: niente medici del
cervello per lei, perché lei ci sguazza felicemente nel suo problema. Il
mondo sensato, quello delle donne che si sposano, fanno bambini e soldi,
fingono amicizie e muoiono di paura una volta alla settimana sempre per un
motivo diverso, lei non lo vuole e non lo crede preferibile, né meno vero del
suo. Il suo di mondo è la cristallizzazione della sua preadolescenza informe,
in bilico in senso fisico, in senso ormonale e mentale. Il bilico, il mezzo, altro
non erano che la contesa di un corpo tra due emisferi, una contesa che rende
quel corpo incantevole e fresco e l’anima vivace e attenta. Da adolescente,
poi, aveva tinto i capelli di rosso, come un folletto, aveva un corpo affusolato
da francesina, che avrebbe conservato anche in vecchiaia e prima di fare
l’insegnate, era stata la modella di un fotografo abbastanza mediocre ed era diventata
oggetto di attenzione, coi suoi capelli mossi e il taglio felino dei suoi
lineamenti. Ma lei era innamorata di troppe cose, per finire tra le braccia di
qualcuno: provava amore per i libri per l’infanzia, per le maschere colorate,
per i vecchi maglioni, le sigle delle trasmissioni, per le corse affannate
dietro al nulla, per i piccoli denti da latte.
Madeleine
sbircia il tavolo di legno sporco di cenere, vicino al piattino dove ha spento
la sigaretta, sa bene che non pulirà prima dell’ora di cena, perché è distratta
da altri pensieri e la sua mente è troppo eccitata per guidare i suoi gesti.
Una parte di lei dispera, protesta contro l’intero corso della sua vita,
l’altra parte sorride e sospira. Sì è vero ha recitato, ha recitato molto per
non sostituire la disperazione più cieca alla sua felicità infantile, però i
suoi anni sono stati buoni: ha fatto la bambina tutta la vita, ha creato un
mondo tutto per se e la sua immaginazione si è fatta così potente da rendere la
realtà molto più confusa del sogno. E la realtà era stata poi così scontata? Ah
no! Il mondo le assomigliava: se gli uomini, ad esempio, avevano creduto in
quella che per Madeleine era la favola delle religioni, fino a spingersi nei
suoi più grandi crimini e più alti livelli di dignità, allora non c’era realtà
più fantasiosa e più creativa di quella. E lei aveva cercato comunque una terza strada. Non avrebbe potuto essere
più felice di così, Madeleine, quando cominciò a girare su se stessa, per
gioco. Come la danza dei Sufi, così forse avrebbe compreso meglio il modo in
cui quei mondi – quello dentro di lei e quello fuori – si toccavano. Poteva
vedere le punte delle sue dita, poteva vedere i suoi capelli grigi come un’aureola
e il lampadario sopra la sua testa sembrava una trottola, può immaginare che si
stacchi dal soffitto e cominci a girarle attorno, vicino ai piedi. Non poteva
essere più felice.
“Puoi volare?”
“Posso”
“Puoi volare?”
“Sì!”