Questo
è un testo che ho sottoposto al giudizio di una persona con cui sto svolgendo
un progetto scolastico. Tuttavia, mi piaceva troppo per lasciarlo a languire
nel pc, così ho deciso di pubblicarlo. Commentate, anche le critiche
costruttive verranno accettate!
Buona
lettura,
ed
un ringraziamento speciale a S. Maretti, il quale ha gentilmente accettato di
spendere un po’ del suo tempo per leggere questa storia!
La
follia del mondo.
Il
vuoto, sotto di me, pare quasi chiamarmi con voce sottile e cantilenante.
Tante
volte, nella mia vita, ho scelto di non darle ascolto, di precludere dalla mia
mente questa litania sensuale e ammaliante che mi martellava in continuazione,
soprattutto nelle notti più silenziose, quelle in cui potevo avvertire
distintamente l’arrancare del mio cuore; ma ora non trovo più il motivo di
farlo. Perché scegliere di non sentire? Perché rinnegarsi una volta ancora?
Mi
trovo su questa terrazza, il vento danza stancamente con i miei capelli,
lambisce la mia pelle in una carezza che sa di dolore e sofferenza.
Il
paesaggio davanti a me si stende regale e bellissimo, forse leggermente
inquietante; tuttavia sono sempre stato convinto che il buio e il niente
portassero in seno un fascino particolare, un’attrattiva speciale, una dolcezza
di miele.
Rabbrividisco.
Posso avvertire mani che corrono, viscide, sulle mie braccia, quasi spingendomi
verso questo dirupo dall’aria così tristemente confortante.
I
miei occhi, persi in un punto imprecisato del lontano orizzonte, vedono tutto e
non osservano niente: sono gli occhi di un cieco. Sono gli occhi di un morto.
Perché
se sei un fantasma, nessuno crede in te; perché se nessuno crede in te, nessuno
ti vede. E se nessuno ti vede, tu non esisti.
Tante
volte ho desiderato piangere: mai mi sono sciolto in un consolante pianto.
Tante
volte ho desiderato urlare: mai un grido liberatorio è scivolato dalle mie
labbra fredde.
Forse
hanno ragione tutti loro. Forse sono davvero malato come dicono.
Piego
impercettibilmente il capo: cosa c’è di perverso nell’amore? Quale Dio
sprezzante decide qual è l’affetto più consono? Chi si arroga il diritto di
discriminare il “giusto” dallo “sbagliato”?
Mi
piacerebbe riuscire a formulare questi pensieri con la rabbia che, fino a
qualche anno fa, mi contraddistingueva: significherebbe che sono vivo, che ho
ancora la forza di reagire, di combattere. Ma queste riflessioni, le ultime, si
manifestano come un debole sussurro ai limiti della mia coscienza troppo stanca
per infiammarsi a causa di ideali che sento ormai lontani, remoti, estranei.
Nelle
lunghe notti di solitudine ho pregato tanto quel Dio a cui ormai non credo più,
l’ho implorato di portarmi via, l’ho supplicato di far rinsavire il mondo.
Nessuno
è mai giunto. Nessun angelo, impietosito, mi ha salvato.
Solo
il buio ha continuato ad essermi abituale compagno di vita, silenzioso
spettatore del mio lento avvizzimento.
E
adesso, adesso che tutto mi si sta chiudendo addosso, schiacciandomi col suo
peso immane, tutto ciò che mi rimane sono i ricordi, forse i principali
colpevoli di questa mia progressiva follia. Occupato a consumarmi nella
dolcezza di un passato che non tornerà, ho perso il ritmo del tempo, ho mancato
il treno del futuro.
Chiudo
appena gli occhi e immediatamente visualizzo il tuo volto: non ho mai scordato
i tuoi tratti, benché le nostre vite si siano incrociate per un tempo troppo
breve, per un istante troppo fuggente, così effimero da impedirmi di coglierlo
davvero. Anche il suono della tua voce mi riecheggia nelle orecchie,
torturandomi in un modo così dolce che la mia anima sembra quasi addormentarsi,
cullata da questo dolore così familiare.
Ricordo
ancora il giorno in cui ti ho conosciuto: era un’estate troppo calda anche per
noi isolani, abituati a temperature che spesso superano i trenta gradi. Mi
sembrava che la mia pelle si stesse sciogliendo in quel bacio di fuoco col
Sole. Camminavo placidamente lungo strade che conoscevo come le mie tasche, per
vie che mi avevano quasi svezzato, cullando i miei giochi di bambino e
accarezzando la mia anima di tormentato adolescente.
La
mia vita era così spensierata che ancora adesso mi chiedo se ciò che successe
dopo non sia stato solo il prezzo da pagare per aver vissuto quello stralcio di
vita troppo dolce. Non lo saprò mai.
Mentre
riposavo sotto un uliveto che aveva tante volte raccolto i miei pianti
angosciati, osservavo con tranquillità il paesaggio intorno a me: la stradina
polverosa pareva sorridermi, gli alberi che mi circondavano mi abbracciavano
con i loro rami in una stretta protettiva e familiare.
Improvvisamente
sentii un rumore assordante provenire da un luogo imprecisato vicino a me.
Allarmato, scattai in piedi, ancora più spaventato dal silenzio di morte succeduto
al tonfo sordo. Chiamai a gran voce, ma nessuno mi rispose. Sempre più
preoccupato, continuai ad aggirarmi nella campagna, fino a che, davanti a me,
vidi la sagoma di una bicicletta. Mi avvicinai in fretta e notai, poco
distante, un corpo incosciente. Sbarrai appena gli occhi quindi corsi a vedere
se si trattava di qualcosa di grave. Ti presi il polso e, con mio enorme
sollievo, constatai che batteva ancora regolarmente. Ti sollevai in braccio e
tornai sui miei passi.
Quando
la sagoma della mia casa si stagliò all’orizzonte, mi venne subito incontro mia
madre, una prosperosa donna dalla carnagione olivastra e dei crespi riccioli
neri.
-
Sasà, ma che hai fatto? – fece, spaventata, non appena vide il mio carico.
- E’
caduto, mà, e ha sbattuto contro un ulivo vicino a me. E’ solo svenuto, sta
bene –
Mia
madre si avvicinò, guardando a occhi stretti il tuo nordico viso pallido – Non
è di qua, questo. Non l’ho mai visto in paese. I forestieri portano guai, Sasà
–
- E
che dovevo fare? Lasciarlo là? – replicai, leggermente infastidito.
Lei
scelse di non rispondermi, agitando una mano come a dirmi di lasciar perdere –
Portalo di là e stendilo sul divano –
Eseguii,
quindi attesi con calma che ti risvegliassi. Mentre il tuo respiro regolare
riempiva il silenzio della stanza, ti osservai attentamente: effettivamente,
non ci voleva molto a capire che non eri del posto. La tua pelle era troppo
chiara per essere quella di qualcuno che ha costantemente vissuto sotto i raggi
di un sole inclemente come il nostro.
Due
ore dopo, quando riapristi gli occhi, ebbi un’ulteriore conferma della tua
estraneità alla calda Sicilia: le iridi erano di un profondo verde chiarissimo,
occhi che avevo avuto il piacere di rimirare un numero di volte che si poteva
contare sulle dita di una mano.
Sbattesti
velocemente le palpebre, confuso, quindi paresti mettermi a fuoco
definitivamente. Ti rivolsi un caldo sorriso.
-
Sta bene, signore? – chiesi, dandoti del Lei nonostante avessi constatato
dovessi avere all’incirca la mia età.
- Ma
dove sono? – farfugliasti con voce stentata.
- E’
a casa mia. Ha avuto un brutto incidente con la sua bicicletta – non potei fare
a meno di ridere nonostante mi rendessi conto che forse non era il massimo
dell’educazione, soprattutto viste le condizioni in cui versavi – Si è
praticamente piantato in mezzo ad un ulivo. Menomale che l’ho sentita,
altrimenti rischiava di morire asfissiato da questo caldo –
Anche
tu sorridesti – Sono proprio un impiastro – ti fermasti un attimo, quindi mi
tendesti la mano – Ma non darmi del Lei: io sono Gabriele. E tu? –
-
Salvatore, ma chiamami pure Sasà –
E’
così che è iniziato tutto: con un banale incidente dovuto alla tua poca
dimestichezza con la bicicletta. Più tardi mi rivelasti di trovarti in Sicilia
per un soggiorno e io mi scoprii stranamente contento di sapere che saresti
rimasto ancora per un po’.
Da
lì, secondo gli altri, tutto è precipitato.
Da
lì, secondo noi, tutto è cominciato.
Te
lo ricordi il nostro primo bacio? Io perfettamente.
Eravamo
entrambi spaventati, perché sono gli anni ’50 e anche solo la parola
“omosessualità” fa terribilmente paura.
Quante
volte abbiamo respinto i nostri sentimenti, convinti che fosse tutto un
gigantesco errore? Quante volte abbiamo provato a non cercarci più, impauriti
da qualcosa che non riuscivamo a comprendere esattamente?
Lo
sento ancora dentro, il terrore di essere diversi; avverto sulla pelle gli
sguardi indagatori che ci lanciavano; custodisco dentro il cuore il tremito
delle tue mani la notte in cui il nostro amore è scoppiato, violento e
improvviso, stanco di sottostare a restrizioni sociali che ci facevano morire
lentamente, ma che non riuscivamo a lasciarci alle spalle.
E
ricordo anche le tue urla disperate quando ti hanno strappato via da me, le tue
lacrime mentre ti picchiavano a sangue, il tonfo che sanciva la fine.
La
mia anima evoca fin troppo perfettamente l’angoscia enorme e il disperato senso
di impotenza che mi hanno sommerso nel vederli massacrarti senza riuscire a
difenderti, la viscosità del tuo sangue sotto le dita quando mi hanno infine
lasciato, sputandomi addosso offese impronunciabili mentre le loro labbra si
tendevano in risate soddisfatte.
Strizzo
gli occhi: non voglio ricordare, ma la mia mente si è ormai spalancata e so che
non posso fare più nulla per fermarla, non adesso che il meccanismo si è
avviato.
E
dopotutto, trovo giusto rimembrare ogni cosa, un attimo prima della fine.
Quando
sono venuti a prendermi per rinchiudermi in questo manicomio, in cui vivo da
dieci anni ormai, mi hanno trovato accasciato su di te, gli occhi vacui, le
labbra esangui. Non ho opposto alcuna resistenza, ero troppo sconvolto, troppo
distrutto per poter fare qualcosa.
Da
quando sono qui, il mondo lì fuori è diventato un riflesso sfocato: non sono
nemmeno più certo che esista davvero, un universo al di là di queste mura.
E’
qui dentro che sono davvero impazzito. Lentamente ma inesorabilmente, un pezzo
del mio cuore si sgretola ogni giorno.
La
luce che passa attraverso le finestre piccole e sporche della mia stanza è
pallida, fredda, niente a che vedere con quella delle estati dei miei ricordi.
Non
me lo ricordo neanche più, il tocco del sole sulla pelle: anche adesso il cielo
è grigio, plumbeo. Non avrò redenzione fino alla fine: questo pare urlarmi.
Un
solo respiro stentato passa tra le mie labbra.
Mi
sembra una cosa straordinaria anche solo riuscire a pensare dopo tutto questo
tempo, questi anni in cui mi sembra di essere stato in apnea, costretto sotto
metri cubi di acqua gelata che mi hanno paralizzato il cuore e l’anima.
Faticosamente,
mi arrampico sulla ringhiera arrugginita e cigolante; non so come ho fatto a
sfuggire alle guardie che controllano sempre questa piccola terrazza sullo
strapiombo, ma nemmeno questo distratto pensiero riesce più ad accendere la mia
coscienza, violata troppe volte da gente troppo rude.
Guardo
per un ultima volta il dirupo che si allarga, confortante, sotto di me.
Non
ti dirò di aspettarmi. Non credo ci rincontreremo mai; non credo nemmeno che tu
possa sentirmi, mentre ti dedico questi miei ultimi pensieri.
Sono
convinto che ogni persona, quando muore, semplicemente scompaia, ritorni
polvere.
Non
è con la speranza di ritrovarti che adesso sto saltando nel vuoto.
Abbraccio
di slancio la Morte con il desiderio di perdermi in quella stessa via in cui mi
sei scivolato dalle dita.