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Autore: Chamelion_    18/04/2010    0 recensioni
Una metafisica conversazione con un irriverente "Brucaliffo" interiore.
Genere: Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La ragazza prese fra due dita la sigaretta, la allontanò dalle labbra e fece cadere una montagnola di cenere sopra un fazzoletto di carta che aveva appoggiato sul tavolo appositamente per quello scopo; senza guardare il ragazzo di fronte a sé, soffiò fuori il fumo da un angolo della bocca e disse: – Gioca.
Lui si accigliò, messo a disagio da quell’ordine, e riportò la propria attenzione sul mazzo di carte che teneva tra le mani con tanta tensione da piegarne la carta. Tentò di concentrare i propri pensieri sulla mossa da fare, sperando che una qualche tattica di gioco, seppur sbiadita e poco pretenziosa, gli si affacciasse alla mente; ma la nevrosi gli impediva di ragionare lucidamente, così che si limitava ad artigliare quelle carte e a fissarle senza davvero pensare a niente.
Lei richiamò, non tanto discretamente, la sua attenzione: – Ehi?
In un primo momento lui fraintese la provenienza di quella voce e sobbalzò, improvvisamente agitato, e prese a guardarsi intorno freneticamente per scorgere la presenza della dottoressa. Eppure, gli sembrava che fossero soltanto loro due in quella stanza perfettamente quadrata, dalle pareti di un bianco un po’ sporco e dall’aspetto ruvido e inospitale, arredata in modo estremamente sobrio: non più che un letto dalle lenzuola sempre fresche di bucato e un tavolo con due sedie, dove ora sedeva lui insieme alla sua compagna di gioco. La luce artificiale emessa dalle lampade al neon era abbastanza forte da illuminare tutta la stanza in modo perfino eccessivo, eppure lui non vide la dottoressa da nessuna parte, né dietro di sé, né nascosta in un angolo o sotto il letto.
– No, non è lei – disse la ragazza, visibilmente seccata dall’ansia di lui. – Abbiamo ancora un po’ di tempo. Ti ho chiamato io: tocca a te.
Il ragazzo, realizzando che veramente erano ancora soltanto loro due, tornò a guardare le carte che continuava a tenere in mano, a fissarle con sguardo vacuo.
– Martino? – lo richiamò nuovamente la ragazza. Questa volta, lui alzò di scatto la testa dal proprio mazzo di carte e trasalì come se si fosse seduto sopra un oggetto appuntito.
– Ti ho detto di non chiamarmi per nome! – la rimbrottò con tono isterico.
Lei rimase impassibile: lasciò cadere ancora un po’ di cenere sul tovagliolo e guardò il ragazzo in faccia senza fare una piega. – No, non me l’hai detto. – Sì che te l’ho detto! – ribatté lui.
– Non me l’hai detto.
– Ti giuro di sì!
Lei fece un brutto versaccio e lui, più agitato che mai, piantò meccanicamente gli occhi sul mazzo di carte che teneva in mano, continuando a non fare la propria mossa poiché non aveva idea di che cosa potesse fare.
– Vuoi giocare o devo accendermi una sigaretta mentre decidi?
– Martina, stai già fumando.
– Allora? – insistette lei.
– Che cosa vuoi che giochi? Non ho niente in mano! – esclamò lui, colmo di frustrazione.
– È un motivo per non giocare?
Il ragazzo indugiò con sguardo perso sull’espressione irremovibile di lei, sulla sigaretta ormai ridotta a un mozzicone stretta ad un angolo della sua bocca e, smesso di torturare le carte, le lasciò cadere sul tavolo.
– Martina, sono stufo – disse avvilito. – Non ci sono tagliato, non sono capace. Alla fine, vinci sempre tu.
– È un motivo per non giocare? – ripeté lei.
– Be’, sì!
– Bravo. Allora torna nel tuo angoletto preferito. Accucciati lì e succhiati il pollice da bravo svitato. Poi ci pensa la dottoressa, a sculacciarti come si deve.
Lui scattò, voltandosi automaticamente a perlustrare la stanza come aveva fatto prima.
– No, non è qui – si esasperò la ragazza. – Manca ancora qualche minuto! Dai, ché finiamo la partita – aggiunse poi, con un tono che sembrava richiedere più che pretendere.
Il ragazzo si calmò e tornò a guardare il tavolo; fece per riprendere in mano le carte, meccanicamente, invece spezzò quel gesto a metà limitandosi a sfiorarle dubbioso, quasi non le riconoscesse.
– Non la finiamo mai, la partita – mormorò.
– Appunto – spiegò lei.
– Poi, dovrai a un certo punto spiegarmi come faccio a giocare con delle carte vuote – si lamentò, indicando la superficie delle carte con cui stavano giocando: era intonsa, perfettamente bianca.
– Ancora? – si spazientì la ragazza. – Ma te l’ho già spiegato mille volte: continuiamo a giocare finché non vedi le figure delle carte. Hai anche l’Alzheimer, Martino?
– Ti ho detto di non chiamarmi per nome!
– Ecco, anche questa fissa deve finire. Per forza poi dicono che sei fuori di testa! – A questo punto lei prese a guardarlo come un’adulta nei confronti di un bambino, e adeguò il tono a quella nuova, diversa condizione. – Che cosa ne dice la dottoressa?
Lui fece altalenare lo sguardo tra le carte vuote e il pavimento, torturandosi le mani distrattamente.
– Dice che ho paura di me stesso – mormorò con una voce piccola piccola. – E che mi odio.
– Be’, questo potrei dirtelo anche io senza aver bisogno di una laura in psichiatria – commentò acidamente lei.
– Ma che cosa stai dicendo? Tu n-non sei nemmeno qui! – esclamò improvvisamente il ragazzo, come attraversato da una scossa elettrica. – Sto parlando da solo, magari non sto neanche parlando…
Lei sbuffò, visibilmente tediata. – Oh, diventi insopportabile quando ripeti come un pappagallo quello che ti dice la dottoressa. OK, hai sentito quello che ha detto: sei stato bravo – concesse. – Ma ci credi?
Lui la guardò timoroso, come uno studente indeciso se confessare o meno all’insegnante di non aver aperto libro per l’interrogazione. Infine, imbarazzato, scosse la testa ammettendo che no, non ne era realmente convinto.
– Ecco – concluse lei con il sorriso di chi osserva un piano perfettamente lineare e logico. – È per questo che noi qui giochiamo.
L’improvviso, lontano clang di un chiavistello che veniva sbloccato richiamò l’attenzione di entrambi. I due giocatori sentirono dei passi dal ritmo e dal peso controllati percorrere un corridoio che conduceva dritto in quella stanza, e mentre lui deglutì irrequieto cominciando ad impallidire, lei sospirò, raccogliendo nel tovagliolo i rimasugli del mozzicone annerito e riunendo tutte le carte fino a formare un unico mazzo.
– Be’, tempo scaduto – disse infilandosi il mazzo in tasca. Quindi, si alzò dalla sedia. – Ci vediamo più tardi.
– …Aspetta! – scattò lui, impaurito, tendendo una mano implorante verso di lei. Poi, però, le parole gli vennero meno, e lasciò la sua preghiera così, sospesa, come la sua mano. La ragazza gli si avvicinò e gli abbracciò la testa rassicurante.
– Dai, sta’ tranquillo. È un attimo, ricordi?, senti solo un pizzicorino. E dopo, mi raccomando, ascolta tutto quello che ti dice la dottoressa. Lo so, dice sempre le stesse cose, ma tu ascoltala lo stesso, e se non capisci quello che ti vuole dire, fattelo rispiegare.
Lui si lasciò abbracciare il capo, inerte. – Tu torni presto?
Lei allontanò la sua testa dal suo abbraccio, gli passò una mano fra i capelli e gli diede un buffetto materno. – Certo. Dobbiamo ancora finire la partita, no?


  
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