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Autore: My Pride    19/04/2010    12 recensioni
If the sky that we look upon should tumble and fall and the mountains should crumble to the sea,
I won't cry, I won't cry, no I won't shed a tear, just as long as you stand, stand by me.

«Dodici rose rosse e un giglio bianco», fece, carezzando i petali distrattamente. «Proprio come piacciono a lui, eh?»
Fui quasi certo che, anche se non lo dava a vedere, dentro di sé Oto-san stesse piangendo.
[ Jason Mustang POV ]
[ Partecipante alla challenge «Contest of Passions» indetta da ellacowgirl ]
[ Quarta classificata e vincitrice del Premio Miglior Fandom al «Birthday's Contest» indetto da Himechan84 ]
Genere: Angst, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Edward Elric, Nuovo personaggio, Roy Mustang | Coppie: Roy/Ed
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Incompiuta
- Questa storia fa parte della serie 'Shattered Skies ~ Stand by Me'
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Stand by me
[ Quarta classificata e vincitrice del Premio Miglior Fandom
al «Birthday's Contest» indetto da Himechan84 ]

Titolo: Stand By Me
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist
Tipologia: One-shot  [ 3231 parole ]

Genere: Generale, Malinconico, Sentimentale
Characters:
Jason Mustang, Edward Elric, Roy Mustang
Pairing: Roy/Ed
Avvertimenti: Shounen ai, What if?
Rating: Arancione 

Prompt: 13° Argomento: Fasi della vita › Morte



FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All Rights Reserved.



Se il cielo che guardiamo dovesse crollare e cadere
e le montagne dovessero sbriciolarsi nel mare,
non piangerò, non piangerò, non verserò una lacrima
finché tu sarai, sarai con me.
- Stand by me, Ben Edward King -

    Mi ero perso nell’osservare distrattamente il cielo dalla finestra del mio ufficio, pensoso.
    Avevo abbandonato la stilografica di cui mi ero munito sul plico di fogli che adombravano la mia scrivania, lasciando perdere il lavoro: in realtà non avevo firmato nemmeno un documento, ignorando deliberatamente anche la mezza strigliata che mi aveva fatto uno dei miei sott’ufficiali.
    Non avrei voluto nemmeno mettere piede in ufficio, se dovevo essere onesto con me stesso. Era stato lo stesso Oto-san a spronarmi ad andare a lavoro, sebbene avessi insistito più volte di voler restare a casa con lui per fargli compagnia. Erano passati nove mesi da quand’era successo, ma nessuno dei due riusciva ancora a capacitarsene. Sembrava troppo inverosimile, sia da pensare che da affrontare. Nei primi periodi, quando andavo da Oto-san - da solo o con le mie gemelle -, l’avevo spesso trovato chiuso in se stesso e con il vuoto negli occhi, ma i momenti peggiori si presentavano quando andavamo a trovare Oka-san: gli vedevo dipinta in viso un’espressione così triste e incredula che non riuscivo mai a guardarlo più di qualche secondo.
    Dal canto mio, cercavo di dimostrarmi forte anche per lui, pur sapendo che non fosse per nulla facile. Mi sentivo solo peggio, dato che mi tornavano alla mente troppe cose: i loro battibecchi, le volte in cui sgridavano me o si sgridavano a vicenda, i momenti belli e quelli brutti, persino gli avvenimenti degli anni passati e la guerra che avevamo combattuto.
    A quei pensieri, distolsi lo sguardo dalla finestra e mi portai una mano a sfiorare la cicatrice sul sopracciglio, carezzando distrattamente anche un braccio al di sopra della stoffa della divisa che indossavo. Quant’ero stupido a ritrovarmi a pensare a quelle cose proprio quel giorno. Provai quindi a concentrarmi inutilmente sulle mie scartoffie, venendo preso d’assalto ancora una volta dai ricordi: non mi avrebbero dato pace nemmeno per un attimo, anche se provai a non dar loro peso. Firmai giusto un paio di documenti prima di scuotere la testa e abbandonare nuovamente la stilografica sui fogli, lasciandomi andare contro il morbido schienale della poltrona con lo sguardo al soffitto.
    Distrattamente, afferrai l’orologio d’argento che portavo nel taschino della divisa, aprendo il coperchietto con uno scatto per controllare l’ora. Scossi il capo nel constatare che mancava ancora un bel po’ alla fine del mio turno, ma mi alzai comunque per aggirare svelto la scrivania e raggiungere altrettanto velocemente la porta del mio ufficio: restare qualche minuto di più mi avrebbe solo fatto star male.
    Non mi curai dei richiami del mio Tenente quando mi vide correre nei corridoi, scendendo fino alla Hall ed uscendo velocemente per raggiungere la mia auto. Aprii la portiera e presi le chiavi, infilandole nel quadro d’accensione: quel giorno volevo lasciarmi alle spalle il Quartier Generale e mandare al diavolo il lavoro. Mi sentii un po’ meglio solo quando mi ritrovai in strada, anche se quel peso opprimente che sentivo nel cuore non mi aveva abbandonato, esattamente come i giorni passati. Avanzai spedito per un bel paio di isolati o, almeno, finché qualcosa non attirò la mia attenzione: con la coda dell’occhio vidi un negozio di fiori, e fu automaticamente che accostai sul ciglio della strada, poco distante da esso.
    Sorrisi nel vedere la fioraia indaffarata fra quella miriade di specie diverse, allegra e vivace mentre serviva anche chi si presentava. Ciò che mi aveva fatto fermare, comunque, era stato il grosso vaso in cui facevano bella mostra delle splendide rose rosse, accostate da quelle nere
e bianche. Mi ricordarono i momenti in cui Oka-san si presentava a casa con un bouquet composto proprio da quelle, scatenando le repliche quasi divertite di Oto-san: odiava essere trattato da donna, e non mancava mai di far notare che non era lui la mamma.
    Sorrisi ancor di più a quel pensiero, ritrovandomi ad aprire la portiera per scendere dalla macchina. Avrei comprato lo stesso bouquet di ‘Ka-san, regalandolo proprio a lui. Era il suo compleanno, sarebbe stato felice.  Mi affrettai quindi a raggiungere la fioraia e a comprare un bel mazzo di rose, pagando e salutandola poi con un cenno prima di ritornare alla macchina; posai il bouquet sul sedile del passeggero e, una volta rimesso in moto, riattraversai le strade di Central per giungere in periferia. Quando arrivai dinnanzi alla porta di casa feci per bussare, esitante, ma poi ci ripensai e infilai la mano libera in tasca, alla ricerca del doppione delle chiavi che avevo. Una volta trovate, infilai quello che mi serviva nella toppa, aprendo silenziosamente prima di gettare uno sguardo all’interno: l’ingresso era avvolto nella penombra come al solito, e tutto ciò che si sentiva era il suono del nulla.
    Avanzai cauto e senza far rumore, stringendo delicatamente il bouquet che avevo comprato. Sbucando in soggiorno, trovai anche quella parte della casa priva di luce, e faticai non poco ad accorgermi della figura appollaiata su uno dei divani. A prima vista sembrava che Oto-san stesse leggendo, anche se non mi sfuggì qualche sua piccola parolina sussurrata al vuoto.  
    Sentii il cuore stringersi in una morsa, facendo giusto qualche passo all’interno con la stessa andatura felpata di poco prima. «Oto-san?» lo chiamai, vedendolo alzare di poco la testa prima di passarsi distrattamente una mano sul viso e voltarsi verso di me. Aveva inforcato gli occhiali e se li era rimessi, come se stesse cercando di dare alla sua espressione quella solita aria composta che l’aveva sempre caratterizzato. Mi rivolse persino un mezzo sorriso sebbene sapessi che, in realtà, non esprimeva nulla.
    «Ti aspettavo per le cinque», mi disse nell'alzarsi, e a quelle sue parole non potei evitarmi di abbassare lo sguardo come un bambino beccato a fare una marachella. Avevo cinquant’anni tanto per dire.
    «Non ce l’ho fatta a stare in ufficio», risposi mogio, accennando poi ai fiori che reggevo. «Sono andato a comprare questi».
    Fu in quel momento che li notò, dando vita ad un nuovo sorriso quando s’avvicinò e glieli porsi. «Dodici rose rosse e un giglio bianco», fece, carezzando i petali distrattamente. «Proprio come piacciono a lui, eh?»
    Fui quasi certo che, anche se non lo dava a vedere, dentro di sé Oto-san stesse piangendo. Anche provare ad alleggerire la situazione, quindi, non sarebbe valso a molto; ma ci provai lo stesso, sforzandomi di sorridere anch’io ed annuire. «Già, quest’accostamento gli piace molto», convenni, non riuscendo ad aggiungere altro. Sentivo che sarei stato io quello a scoppiare in lacrime, se l’avessi fatto, ma fu proprio Oto-san ad interrompere quel momento, facendosi forza prima di darmi un’amorevole pacca sulla spalla.
    «Andiamo, coraggio», mi esortò, stringendo subito dopo a sé quel mazzo di rose. «Lo sai che ad Oka-san non piace aspettare».
    Mi sfuggì una risatina tremula. «Se non è lui a far aspettare gli altri», precisai, con un nuovo groppo in gola. Mi affrettai a fare un colpo di tosse e a deglutire per liberarmene, seguendo Oto-san fuori dal soggiorno e lungo il corridoio. Nuovamente nell’ingresso, poi, stavolta l’occhio mi cadde distrattamente sulle poche foto riposte sul mobiletto lì presente. Mi ritrovai a sorridere come un idiota nel notare quella che ritraeva me alla Cerimonia di fine Accademia, con accanto, poco distante, una in cui Oto-san e Oka-san si trovavano insieme e si sfioravano dolcemente le labbra.
    Fu proprio il richiamo di Oto-san a farmi distogliere l’attenzione da quei ricordi, e mi affrettai a raggiungerlo sulla porta e fuori casa per lasciarli temporaneamente alle spalle: non sarei riuscito a guidare se mi fossi lasciato sopraffare da quelli. Arrivati alla macchina, ci accomodammo entrambi ai nostri posti e, una volta messo in moto, ci avviammo a destinazione.
    Durante il tragitto non spiccicammo una parola, solo di tanto in tanto ci sfuggiva giusto una constatazione o ci lanciavamo appena delle rapide occhiate. Non ci misi più di una decina di minuti ad attraversare la città e a fermare poi la macchina, voltando lo sguardo verso i lontani cancelli della nostra meta. In quei mesi non ero andato molte volte, lì, quand’ero solo: un po’ a causa del lavoro, un po’ perché, spesso, non ce la facevo. Mi aggregavo ad Oto-san - proprio come quel giorno - o, quando capitava, portavo con me i miei figli per non restare solo.
    A quei pensieri, aprii la portiera con un sospiro, accorgendomi solo in un secondo momento che Oto-san era già sceso e mi aspettava poco distante con il mazzo di rose fra le braccia. Mi diedi una mossa e andai da lui, sentendo già quell’umido odore di terra e fiori giungermi prepotentemente alle narici. Il silenzio ci avvolse poi come in una bolla, venendo di tanto in tanto infranto dai sussurri delle altre persone lì presenti e che vedevo incamminarsi con lentezza.
    Camminavamo piano, senza parlare, ognuno immerso nei propri pensieri e rispettoso del luogo in cui ci trovavamo; sorpassammo un paio di persone che conoscevamo di sfuggita, rivolgendo loro appena un cenno del capo a mo’ di salutoprima di dirigersi verso il terreno erboso a poca distanza da lì.
    Ancora una volta sentii quella terribile stretta al cuore, una sorta di senso d’abbandono che mi oppresse il petto. E non scomparve nemmeno quando giungemmo a destinazione, anzi, aumentò vertiginosamente. Guardando quella lapida bianca su cui era inciso il nome di mia madre, ancora stentavo a credere che fosse successo davvero.
    Poco più di cinque anni addietro stava benissimo, avrei persino osato dire che sembrava in forma come non lo era mai stato. Nonostante l’età, difatti, in quel periodo insisteva ancora con il voler mantenere la sua postazione di lavoro: anche se gli dicevo d’andarsene in pensione, non faceva altro che ripetermi in continuazione di voler portare avanti quel suo folle sogno fino alla fine. E così era stato. Ci era stato strappato via così, all’improvviso. Si era coricato più spossato del solito, quella lontana sera, e il mattino dopo non aveva più aperto gli occhi.
    Ero tornato a Central di corsa, quando l’avevo saputo. Avevo cercato stupidamente di convincere me stesso che fosse tutto uno scherzo, che sia Oto-san che Oka-san volessero solo prendermi in giro, ma ben sapevo che non era affatto così. Il tempo aveva fatto il suo corso. Durante il funerale non avevo sentito nemmeno una parola della funzione, guardando solo quella bara che veniva adagiata nella fossa e ricoperta poi di terra. E poi, vuoto come se fossi stato privato di una parte importante del mio stesso essere, ero rimasto lì con Oto-san su quel terreno smosso. Aveva mantenuto un aspetto decoroso per tutto il tempo, come se fosse rimasto estraneo a tutto ciò che gli era capitato intorno, ma quando l’avevo accompagnato a casa non avevo avuto il coraggio di lasciarlo solo, anche perché non ci sarei comunque riuscito vista la situazione: era scoppiato a piangere come non l’avevo mai visto fare in vita mia, nemmeno quando eravamo rientrati dalla guerra. Quella, difatti, era una cosa che non poteva essere comparata a nulla, un dolore che non sarebbe stato mai possibile confondere con altri. E quella sera ci eravamo lasciati andare alle lacrime, stretti l’uno nell’abbraccio dell’altro fin quando alla fine, spossati e scossi, c’eravamo addormentati entrambi sul divano in salotto. Ricordarlo ed osservare la tomba ebbero un effetto devastante, tanto che mi affrettai ad abbassare lo sguardo per passarmi distrattamente il dorso d’una mano sugli occhi.
    «Ti abbiamo portato le tue preferite, Roy», sentii dire poi da Oto-san, rivolto alla lapide muta con voce flebile mentre posava in terra il bouquet. «Jason le ha comprate apposta per te».
    Ebbi quasi la sensazione di sentire Oka-san rispondere con una delle sue battutine, detta con quel tono sarcastico e divertito che spesso lo caratterizzava. Vedendo Oto-san accovacciarsi sull’erba, poi, decisi di fare lo stesso, venendo colto da un bizzarro senso di dejavù: l’ultima volta che ci eravamo ritrovati così, seduti ad osservare una tomba, era stato un giorno dei miei lontani quindici anni, a Reesembool. Un litigio fra Oto-san e Oka-san - forse il peggiore a cui avessi mai assistito - e via, sul primo treno diretto al paese natale di Oto-san, dove avevamo fatto visita alla tomba di sua madre.
    Com’era strano che, proprio quel giorno, mi ritrovassi a pensare a tutti quei ricordi legati al passato. Forse perché in cuor mio ancora non accettavo la realtà, ancora speravo che, tornando a casa, avremmo trovato Oka-san ai fornelli, e che ci avrebbe accolti con un divertito: «Alla buon’ora, pensavo che avreste lasciato che preparassi da solo la torta per il mio compleanno!» Il suo compleanno, già. Non ci era stato concesso nemmeno di festeggiare, almeno per l’ultima volta, il giorno in cui era venuto al mondo.
    A quei pensieri mi ritrovai ad abbassare lo sguardo, allungando una mano verso il terreno e cominciando a giocherellare con i fili d’erba come se fossi un bambino, catturandoli fra le dita mentre sentivo, simile ad una dolce e bassa nenia, la voce di Oto-san rivolgersi a quella muta tomba. Non proferii parola per lunghi minuti che mi parvero interminabili, ma mi ritrovai ad alzare appena lo sguardo verso di lui quando sentii un suo sospiro. Gli occhi erano atoni, sebbene avessi quasi l’impressione che stesse accarezzando quella bianca lapide di marmo con il suo sguardo ambrato.
    «È strano», commentò poi d’un tratto, sforzandosi di rendere la voce sarcastica. «S’è beccato pallottole ed è rimasto ferito per tutti questi anni senza mai crepare, e poi ci fa lo scherzetto d’andarsene senza ragione», vidi il suo labbro inferiore tremare, scosso probabilmente dal dolore e da un qualcosa di simile alla rabbia. «Non mi ha nemmeno baciato, questo bastardo. Non mi ha nemmeno dato un ultimo e fottutissimo bacio, quella sera».
    Non sapendo cosa dire per consolarlo mi limitai a farmi più vicino, cingendogli le spalle con un braccio come se volessi provare, almeno per quanto concessomi, a confortarlo con la mia presenza; mi lanciò un’occhiata, sollevando poi le labbra in un piccolo sorriso che, in quel momento, per me sembrò non esprimere assolutamente nulla.
    Senza parlare, mi fece allontanare il braccio e mi diede poi una pacca sulla schiena, tornando a guardare la tomba come se fosse unicamente quella il suo punto d’appiglio per combattere quella folle tristezza che ci stava attanagliando le viscere. Riprese poi a sussurrare, rivolto a quel suo invisibile interlocutore che era Oka-san, non curandosi più di me se non per qualche breve attimo.
    Dal canto mio io lo lasciai fare, ben comprendendo il suo dolore.  Aveva perso un uomo che per lui, in principio, era stato un padre e, in seguito, ben più d’un semplice superiore. Era diventato il suo compagno, l’uomo con cui aveva deciso di passare il resto della sua vita, e anche per me era stato più d’una semplice figura genitoriale. Era con lui che mi ero sempre confidato e aperto maggiormente, era con lui che avevo passato dodici anni della mia vita prima di tornare a Central per raggiungere nuovamente Oto-san, ed era sempre con lui che, per paura dello stesso Oto-san, cercavo di trovare una qualche soluzione credibile quando mi ritrovavo a prendere dei brutti voti o combinavo guai con le ragazze.
    Nel ripensare allo scapestrato diciottenne che ero stato, mi ritrovai a sollevare appena un angolo della bocca in un sorriso, spostando lo sguardo dalla grande distesa verde del cimitero a quel marmo perlaceo per rivolgere, unicamente nella mia mente, un augurio ad Oka-san. Era stupido augurargli buon compleanno, lo sapevo. Non avevo mai creduto in nessun Dio e in nessuna vita dopo la morte proprio come i miei tutori ma, in quel momento, in cuor mio sperai che quelle mie poche e mute parole arrivassero ad Oka-san, ovunque si trovasse.
    Passò ancora una buona mezz’ora prima che vedessi Oto-san alzarsi nuovamente in piedi. Portai lo sguardo su di lui, vedendolo baciarsi appena due dita prima di carezzare, in un gesto che mi parve lento e delicato, la tomba che avevamo dinnanzi; si voltò verso di me, facendomi giusto un cenno prima di cominciare ad avviarsi all’entrata del cimitero senza aspettarmi. Lo seguii con gli occhi, alzandomi poi a mia volta e avvicinandomi alla lapide per imitare il mio biondo tutore. Rivolsi persino un piccolo sorriso al nome di Oka-san, affrettandomi poi ad affiancarmi ad Oto-san e a tornare con lui alla macchina.
    Non proferimmo una parola quando la raggiungemmo, esattamente come all’andata, limitandoci solo ad accomodarci ai nostri rispettivi posti. Misi in moto e mi lasciai il cimitero alle spalle, diretto nuovamente alla nostra vecchia abitazione. D’un tratto un profumo che conoscevo fin troppo bene e che, fino a quel momento, non avevo minimamente sentito, mi giunse alle narici, richiamando la mia attenzione.  Era quasi irreale, a dire il vero.  Per un attimo il mio pensiero era persino volato ad una presenza che non avrebbe potuto essere lì, prima che la mia razionalità convincesse il mio cuore che non poteva essere così.
    «Oto-san?» lo chiamai quindi, volendo avere una conferma. Con la coda dell’occhio, lo vidi voltarsi verso di me con un’espressione triste e spenta. «Che cosa c’è?» mi domandò con voce stanca. «Per caso hai... hai messo il profumo di Oka-san?» gli chiesi in risposta, aspettandomi una qualunque reazione a quel mio quesito.
    Ci fu un attimo di silenzio che mi parve durare in eterno, prima che traesse un profondo sospiro e lo vedessi di sfuggita poggiare il capo contro il sediolino dell’auto. «Aye... ho messo la sua acqua di colonia», mormorò, abbassando di poco le palpebre. «È stupido, vero?» soggiunse, quasi si fosse reso conto di chissà cosa.
    Scossi di poco il capo, sincero. «Nay, non è stupido», volli quasi rassicurarlo, azzardandomi a distogliere di poco gli occhi dalla strada per adocchiarlo, tornando ben presto a guardare dinnanzi a me. «È solo che... per un attimo ho pensato che fosse qui, in macchina con noi», aggiunsi di getto, sentendomi io lo stupido nell’esprimere a parole quella constatazione. Avevo sentito dire che l’olfatto fosse il senso che più richiamava alla memoria i ricordi. Era maledettamente vero, a quanto sembrava.
    Fu a quel punto che sentii la risata di Oto-san, una risata assolutamente priva d’entusiasmo o di quella solita sfumatura ilare che, spesso, l’aveva sempre caratterizzato. «Siamo proprio in vena di sentimentalismi, a quanto sembra», commentò, sebbene sembrasse più rivolto a se stesso che a me. «Se ci sentisse Oka-san se la riderebbe bella grossa, per questo nostro comportamento».
    Svoltai a destra, lasciandomi andare a mia volta ad un piccolo sbuffo ilare nonostante il nuovo groppo che mi si era formato in gola. «Ci prenderebbe in giro fino allo sfinimento, è vero».
    «E la smetterebbe solo dopo avergli negato il sesso», soggiunse lui, e a quelle sue stesse parole si zittì, poggiandosi le mani sulle cosce per carezzare, al di sopra della stoffa del pantalone, il suo ginocchio d’acciaio. Non ribattei e non aggiunsi nulla alle sue parole, limitandomi ad annuire appena e tenendo gli occhi fissi sulla strada anche se, di tanto in tanto, mi voltavo ancora di lato per scorgere l’espressione che aveva assunto il volto di Oto-san.
    Nel silenzio dell’abitacolo, i pensieri cominciarono a vagare da soli, senza freno alcuno, lasciando che mi perdessi nei ricordi d’un passato ormai lontano.






“Il mondo è dei pazzi e dei sognatori”.
Non mi dicesti proprio questo una volta, Oka-san?





STAND BY ME. FINE








_Note conclusive (E inconcludenti) dell'autrice
La storia che avete appena finito di leggere è stata scritta per il contest indetto da Himechan84, “Birthday Contest”, ma è tutto fuorché una storia che possa realmente adattarsi ad un compleanno. Si è classificata quarta con il premio Miglior Fandom e non mi lamento.
Per quanto mi riguarda, scriverla è stato straziante; ho più volte pensato di abbandonare la stesura e di lasciar perdere, poiché per me questa è una storia abbastanza autobiografica ed era opprimente scrivere parola dopo parola. Non ho quasi nemmeno avuto il coraggio di rileggerla, perché mi sono immedesimata un po' troppo in Jason e in Edward per la morte di una persona altrettanto cara.
Mi reputo comunque abbastanza soddisfatta della posizione e persino del premio ottenuto. Ammetto poi che questa storia avrebbe dovuto indicare il mio abbandono del fandom, vista la piega che sta ormai prendendo, ma posterò prima i capitoli delle altre storie che ho già pronti prima di dire definitivamente addio a tutti voi che mi avete seguita in questi anni.
Ora vi lascio alla lettura del commento del giudice. ♥




QUARTA CLASSIFICATA

GIUDIZIO
Grammatica e sintassi: 10/10
Originalità: 8,5/10
Caratterizzazione dei personaggi: 10/10
Stile: 10/10
Gradimento personale: 5/5
Totale: 43,5/45

Sentimenti a caldo dopo aver letto questa storia: profonda malinconia, nostalgia, rimpianto, tristezza sconfinata, ma anche un amore grande, una devozione commovente, e proprio per questo ancora più forte e indissolubile. Tutta la storia è pervasa da un alone di abbandono nei ricordi che mi hanno emozionato molto, e ho trovato l’espediente del compleanno per rievocare il passato gioioso della famiglia, un motivo davvero struggente, ma allo stesso tempo molto dolce. In particolare mi è piaciuta fortemente sia la parte finale, dolcemente commossa nella sua semplicità, in cui Jason (che è un original character veramente straordinario), annusa ancora nell’aria il profumo di Roy, in una sorta di rievocazione sincera e anche per questo ancora più toccante, e sia il conforto che Jaz e Ed hanno l’uno per l’altro, perché entrambi, nonostante la pesante e ingombrante assenza di Oka-san, cercano di sostenersi a vicenda, provando probabilmente un minimo di conforto l’uno nell’altro.
Forse, ed è una mia interpretazione personalissima, è che tutti e due vedono una parte di Roy nell’altro, e al contempo la parte mancante di se stessi, rivissuta nei gesti, negli odori e nelle parole di entrambi. E tutto ciò è profondamente evocativo, appassionante, coinvolgente, incredibilmente metaforico. Ho trovato inoltre l’idea di andare a trovare Roy, proprio nel giorno del suo compleanno, e di sdrammatizzare con una deliziosa battuta, immaginata per sollievo da chi gli vuole bene, un motivo per esorcizzare il concetto inaccettabile della morte e della mancanza terrena di un affetto: Foscolo l’avrebbe chiamata una celeste corrispondenza d’amorosi sensi; non voglio fare paragoni azzardati, ma questa tua storia così introspettiva mi ha evocato le stesse sensazioni del poeta de I Sepolcri, che io amo profondamente. Questo probabilmente è l’ulteriore aspetto che mi ha colpito e coinvolto di più di tutta la storia, scritta davvero in maniera impeccabile ed elegante, senza alcun errore grammaticale né di battitura. E’ una storia scritta con il cuore, e si sente in ogni parola, in ogni lettera, in ogni singola virgola. La lettura poi avvenuta con la canzone di E. King mi ha letteralmente distrutta: davvero, le parole che hai inserito come citazione sono vere, e rispecchiano perfettamente tutto l’animo di questa storia veramente stupenda, bella, intensa, triste e commovente.
Complimenti Pride, bravissima!


Post scriptum: Ora posso dirlo, ho letto silenziosamente anche altre cose scritte da te, e il tuo stile mi piace tantissimo, è davvero coinvolgente e interessante, e poi devo ringraziarti ulteriormente per avermi fatto immensamente appassionare a un fandom splendido come FMA.


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