Fanfic su artisti musicali > Guns N'Roses
Ricorda la storia  |      
Autore: Happazza    25/04/2010    10 recensioni
Axl Rose si concede un'intervista con una giornalista dopo l'uscita dell'ultimo cd dei Guns N'Roses, "Chinese Democracy".
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Intervista con la rockstar

 

 

 

Un’intervista. Una semplice fottutissima intervista.

Axl William Rose era seduto su quella comoda poltroncina, rigirandosi una sigaretta tra le mani, indeciso se fumarla o no. Guardò la donna di fronte e lui e le fece un rapido esame.

Era brutta, anzi, di più: orrenda. Il viso squadrato, il naso spropositatamente grosso e gli occhi leggermente storti la facevano assomigliare ad un topo intrappolato in una lavatrice. Se poi, si aggiungevano i capelli crespi ed informi e i grossi occhiali dotati di una sgargiante montatura arancione, la donna diventava più un robot, che un essere umano. Indugiò sul corpo e preferì guardare a terra, disgustato.

Ma questi giornalisti potevano essere così assorbiti dal loro lavoro da dimenticarsi di essere vivi?

Lui aveva sempre creato un perfetto connubio tra il lavoro e la vita.

Sex, drug and rock n’roll. Vita, divertimento e lavoro.

“Allora, signor Rose” disse lei con una voce squillante aprendo un grosso taccuino con un’assurda copertina verde acido “cosa ne pensa del successo dell’ultimo album dei Guns N’Roses, Chinese Democracy?”

Ed Axl, storcendo il naso per la banalità della domanda, iniziò a rispondere con le solite frasi, che aveva già ripetuto all’infinito: avevano fatto un buon lavoro, i musicisti erano in forma e bla bla bla.

“Cristo” pensò “ma non sono mai stufi di sentir dire le stesse cose?”

L’intervista andò ancora avanti con le solite domande, annoiando Rose come non mai.

Trascorsero, così, molti minuti in cui Axl non si addormentò solo per buona creanza.

“Un tempo non ti sarebbe importato del galateo. Ti sei rincoglionito?” sorrise alla domanda strana della sua coscienza. Continuò a rispondere con le solite frasi dette e ridette.

“Signor Rose, non sogna mai di tornare indietro nel tempo con la vecchia line-up? Non sente mai la mancanza di quel periodo?”

Ed Axl non resistette: partì per un lungo viaggio mentale.

Sogni.

Sognava spesso ultimamente e si ritrovava nel cuore della notte completamente sudato, rigirandosi nel grosso letto vuoto. Il sogno era sempre lo stesso e poteva dire di essere uscito dal video di November Rain. Solo che non sognava affatto una sua vecchia storia d’amore con la sua donna, ma la storia d’amore con la sua band.

Cazzo, aveva veramente amato i Guns N’Roses. Quelli veri.

Sognava gli anni d’oro, in cui aveva tutto, meno che il denaro.

Erano cinque ragazzi finiti per un segno del destino nella vecchia giungla, a Los Angeles.

Egli stesso era fuggito da uno zoo, da una famiglia che odiava. Poi, scoprì che quel cazzone di prete che non faceva altro che predicare il bene (ovviamente razzolando male), non era neanche il suo vero padre. Suo padre era peggio: l’aveva sodomizzato a soli due anni ed era fuggito senza mai curarsi di lui.

Sua madre, poi… quella vecchia troia. Si sedeva in poltrona a guardare, quando Bailey (il suo patrigno) gliele dava di santa ragione, senza fare altro, senza fare capire a quello stupido provinciale ottocentesco che il rock non fosse musica da frocetti, da hippie o da drogato ,che oltre alla religione c’era altro. Se era fuggito di casa per farsi abbracciare dalla droga, dal sesso e dall’alcolismo era tutta colpa sua.

Quell’animale di Steven Adler era quello che lo faceva più divertire. Se lui stesso era un drogato, Steven era il dio di Mr Brownstone. E pensare che si erano incontrati in casa di una puttana che si sbattevano entrambi per venti dollari… aveva un bel ricordo di Steve. Sempre sorridente, stava sempre a rullare quelle bacchette come un coglione. Era bravo, però. Molto bravo.

“Steven ha bisogno di essere lasciato in pace con il cervello, perché quando era piccolo è andato in ospedale gliene hanno portato via un pezzo: quello migliore” aveva detto una volta. Perché lo prendevano in giro Pop-corn, poi?

Neanche lo ricordava più.

Restava comunque il fatto che Steve avesse la mente di un bambino. A volte rimaneva a guardarlo e quasi si aspettava di vederlo fuggire per farsi un giro su un’altalena.

Slash, al secolo Sul Hudson, era la vera anima del gruppo. E pensare che la prima volta che lo sentirono suonare gli sbatterono la porta in faccia, definendolo “troppo blues e troppo bravo”…

“Sono inglese” aveva confessato quando, per la prima volta avevano parlato da amici. E gli altri, Axl compreso, si erano fatti una risata.

“E bevi anche il tè?” aveva detto Steve con una canna in mano.

“No” aveva risposto Slash, togliendosi una ciocca di capelli davanti agli occhi “non lo bevo: lo fumo ed è una figata. Sa di carciofi”

La chioma ricciuta e scura di Slash era divenuta proverbiale in poco tempo. Ricordò che nelle prime interviste gli avessero chiesto se Slash nascondesse il volto perché avesse qualche cicatrice e lui avesse risposto scherzosamente che dovesse celare due zanne di cinghiale. Slash lo aveva mandato a quel paese senza troppe riserve.

Il furto di quel cilindro era stata la cosa migliore che avesse mai fatto: era diventato un’icona. E pensare che non si nascondesse per fare spettacolo: Slash aveva bisogno di isolarsi per poter dare il meglio di sé. Metteva una distanza tra lui e il pubblico che lo innalzava come un Dio su tutti loro. Axl lo capiva: era in cura da uno strizzacervelli, si, ma non era affatto stupido. Era un chitarrista eccezionale e spesso si ritrovava a pensare che la sua Gibson Les Paul fosse solamente un prolungamento delle sue braccia.

“Non è un normale essere umano, lui è mezzo uomo, mezzo animale e piscerà lontano!” aveva detto su di lui durante quel fantastico concerto al Ritz nell’88.

Due cose erano importanti per Slash: la musica e i suoi vizi. Anche Slash faceva parte di quel triste girone dell’inferno che accoglieva i drogati. Slash si era lasciato andare troppo facilmente e, anche se aveva fatto in modo da uscirne di propria scelta, si era poi dato all’alcol, facendo il bagno in un oceano di Jack Daniel’s, o zio Jack, come lo aveva battezzato.

Ma anche da ubriaco, da strafatto, Slash riusciva sempre a dare il meglio di sé sul palco.

Izzy Stradlin proveniva dalla sua stessa città dell’Indiana e, come lui, vi aveva trovato del marcio a tal punto da andarsene. Lui e Izzy erano affini, perché i loro occhi avevano visto le stesse cose, erano cresciuti nella stessa merda. Avevano entrambi due caratteri forti, autoritari, e, per questo, quando vi erano discussioni all’interno del gruppo, le più aspre vedevano come protagonisti proprio loro due. Ma era un buon diavolo, il vecchio Izzy.

Anche lui, come Slash e Steve era assorbito a tal punto dai suoi eccessi, da dover partire per una clinica per potersi disintossicare. Quando lo osservava, aveva l’impressione di un ragazzo antipatico, chiuso e, invece, il caro Jeff –perché questo era il suo vero nome- era tutt’altro. Era un affamato di sesso peggio di lui e Slash messi insieme e, ricordò, qualche volta erano incappati in diverse risse, perché Izzy finiva per puntare prede pericolose.

Axl aveva promesso di uccidere quella checca di Vince Neil, il leader di quei dementi dei Mötley Crüe perché Izzy ci aveva provato con la sua donna, finendo per essere malamente respinto. Ma l’uomo non l’aveva presa tanto bene: le aveva dato una spinta, mandando Neil su tutte le furie. Izzy aveva lo stesso contegno della donna più vanitosa che ci fosse.

Era l’unico del gruppo che avesse i capelli corti e a volte lo trovava come una nota stonante, ma Izzy era Izzy e, quando entrava in scena con la sua coppola, gli occhiali scuri e i pantaloni di cotone dei colori più sgargianti che vi fossero, entrava in scena da rockstar.

Era proprio vero: per fare rock n’roll non c’erano bisogno pantaloni di lattice, né capelli cotonati, né stivali da motociclista.

Izzy, a differenza degli altri membri dei Guns N’Roses, non era nulla di tutto questo, eppure era una rockstar.

Poi c’era Michael Andrew McKagan. Dio come s’incazzava quando lo si chiamava così. Duff adorava il suo soprannome. Alto, biondo ossigenato e perennemente ubriaco, sembrava essere uscito da un fumetto. Ricordava perfettamente quando, la prima sera che si ritrovarono tutti e cinque insieme come un gruppo, avesse raccontato del suo esempio ricevuto. Il padre di Duff, infatti, quando quest’ultimo aveva solo otto anni, aveva chiamato a sé il bambino e, messagli davanti una bottiglia di whisky, riempiendogliene un bicchiere, gli disse:

“Bevi questo e di’ il tuo nome”

Dopo poche sorsate il piccolo Duff non riusciva a dire più il suo nome perché era completamente ubriaco. Questa scena era stata il preludio di un’importante carriera nell’alcolismo. Duff era il miglior bassista con cui Axl avesse mai avuto a che fare, doveva ammetterlo: era bravo, soprattutto perché aveva avuto una formazione punk, quindi era molto veloce. Anche dal punto di vista della creatività, Duff tirava fuori dei pezzi niente male, proprio come Izzy. Duff non aveva mai dato eccessivi problemi al gruppo: non era stato coinvolto in scandali sessuali, scopando in pubblico, né aveva problemi gravi con la droga. Si faceva, si, ma non era un tossicodipendente.

Quando si metteva quel lucchetto al collo sembrava un cane e Axl lo prendeva in giro chiamandolo “barboncino”, ben sapendo che il biondo avesse un’avversione per i cani di piccola taglia. Che cazzone quel Duff…

Ricordò quando fecero il loro primo concerto.

Che fiasco terribile! Avevano fatto migliaia di chilometri in autostop ed arano arrivati in quella città soltanto poche ore prima del concerto: non c’era stato il tempo di riposarsi e l’esibizione ne aveva risentito a tal punto che il padrone del locale non volle neanche pagarli.

Ma Axl sapeva-sentiva- che fossero destinati ad essere delle leggende perché non potevano essersi incontrati per nulla.

Non si erano mai schierati dietro ad una bandiera, leccando il culo ad alcuno, perché non avevano alcuna intenzione di dare un esempio.

Sapevano perfettamente di essere troppo infernali per fare della loro vita una filosofia. Non incitavano i loro fans a drogarsi, a vivere come bohemien: le loro canzoni erano semplicemente l’espressione della loro essenza, anche se legata agli eccessi più devastanti.

Ripensò a quel garage in Gardiner Street.

Accidenti, quello si che era un paradiso: era un unico stanzone, in cui provavano, mangiavano, dormivano, scopavano.

Le feste più divertenti di Los Angeles avevano luogo proprio lì, con sommo disappunto della polizia e della gente perbene.

Niente e nessuno si era mai messo tra di loro: neanche le donne.

Certo, ammise a se stesso, per loro le donne non erano altro che un passatempo: la musica era più importante. Per questo spesso si passavano le ragazze, facevano orge e ammucchiate senza alcun pudore. Il sesso era basilare.

L’amore c’era, ma era destinato solo alla musica.

Ma poi era arrivata la Geffen.

Avevano firmato con quella casa discografica e avevano avuto un successo senza pari: avevano venduto dieci milioni di album in pochissimo tempo, avevano fatto dei videoclip musicali ed erano in testa a qualsiasi chart.

Era arrivato il momento della loro riscossa, del successo.

E poi, come un bel sogno, era tutto finito.

Prima Steven per la droga, poi Izzy per l’atteggiamento del leader, poi Slash ed infine anche Duff. Insomma, i veri Guns N’Roses erano naufragati.

La colpa di chi era?

Axl sapeva che la causa derivasse dal suo orgoglio malato, dal fatto che avesse cominciato a sentirsi troppo importante rispetto ad altri e che tiranneggiasse in modo duro e dispotico.

Ma era davvero così che era? Era questo che voleva?

I Guns N’Roses sono io. Degli altri non me ne fotte un cazzo” aveva detto spesso, suscitando il disappunto degli altri ex membri. Ma la verità era che Axl avesse paura.

Non aveva mai chiesto scusa a nessuno in vita sua e farlo sarebbe stato troppo doloroso. Credeva che, sebbene fossero rimasti in cattivi rapporti, prima o poi, gli altri si sarebbero resi conto del fatto che si erano lasciati scappare l’occasione migliore della loro vita e che, chi in un modo, chi in un altro, avrebbero fatto ritorno all’ovile.

Ma gli altri avevano avuto successo e, anche senza di lui, senza i Guns, facevano soldi a palate ed erano riconosciuti e fermati per strada dai fans per gli autografi.

Axl si sentiva fottuto. Sparlava dei loro dischi, delle loro situazione perché gli pesava il fatto che si fosse sbagliato sui loro conti.

Dopotutto, non erano stati i Guns N’Roses per nulla.

Era dura ammetterlo a se stesso, ma non poteva ignorare che desiderasse profondamente tornare indietro ed essere ciò che era sempre stato: un vagabondo che, oltre alla sua band non possedeva altro.

“Insomma, signor Rose” ripetè la donna, iniziando ad irritarsi “Desidererebbe o no tornare alla vecchia formazione dei Guns?”

I Guns N’Roses sono io. Degli altri non me ne fotte un cazzo”disse, per l’ennesima volta, mentendo a quella donna e a se stesso.

L’intervista era ormai conclusa e uscì in strada, dove una grossa limousine scura l’attendeva. Tornò a casa, nella villa di Malibu, dove si rifugiò nella sua stanza, evitando le chiacchiere dei suoi fratellastri che vivevano con lui.

Aveva una montagna di soldi.

Aveva il successo.

Aveva una casa.

Ma non aveva più un’anima.

Si stese sul grosso e freddo letto e chiuse gli occhi, pregando quel Dio che per colpa del suo patrigno aveva rinnegato di farlo svegliare su un materasso fatiscente in quel garage di Gardener Street.

“Si” disse, rispondendo con sincerità all’ultima domanda di quella schifosa giornalista prima di sprofondare nel mondo dei sogni “sarebbe il mio più grande desiderio”.

 

 

Ringrazio tutti coloro che leggono.

A presto,

Happo



  
Leggi le 10 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Guns N'Roses / Vai alla pagina dell'autore: Happazza