La Finestra sul Cielo
Guardate che bella la finestra sul
cielo!
Guardatela bene!
Sapete che io l’ho raggiunta?
Ma oltre non c’era una bella donna con cui fare
l’amore, non
c’era un Dio con cui parlare o lamentarsi.
C’erano tanti tulipani che mi toccavano le ginocchia e
c’era
un gigante brutto, tutto nero, che li strappava.
Piangevo, gli gridavo di non strappare quella bellezza.
I fiori strappati sono così tristi, eppure rimangono belli.
La bellezza la trovo nella disperazione, anche nella
semplicità.
La bellezza se guardi bene, amico mio, è ovunque!
So che sei ansioso di sapere cosa ho fatto a quel gigante,
ora te lo dirò, abbi pazienza.
Almeno tu, abbila!
Non fare come me che ho rotto tele di quadri venuti male, in
cui vi scorgevo colori
troppo simili
a me. Non fare come me che ho buttato il pennello contro il
muro e mi son
messo nell’angolo a tremare. Non fare come me! Io che ho
distrutto quei disegni
spaventosi che ritraevano il caos
che avevo dentro. Ho dato vita a una mostruosa bellezza, che mi faceva
piangere
e tremare e arrabbiare. Chi sei tu per guardarmi dentro? Chi sei? Vattene via!
E la carta cadeva al suolo, il legno del cavalletto faceva
un rumore infernale. Mia madre veniva in camera e mi picchiava. Avevo
urlato
troppo. Avevo macchiato il muro. Avevo attirato l’attenzione
dei vicini.
Papà dove sei? Papà ho le mani che sono magiche!
Sono
strumenti del Diavolo, papà!
Le mie mani realizzano capolavori struggenti, ritraggono la
mia tragedia.
Papà perché piangi mentre parlo?
Papà dov’è mio fratello? Mi avevi detto
che era andato a
portare la pistola ai soldati nemici in guerra perché non ne
avevano e perché
lui era buono. Perché non torna da tre anni?
Senza di lui sono solo.
Perché mi trattate male?
Signori voi insistete che io vi chiami dottori.
Quel posto era buio. Non mi ricordavo nemmeno come ci ero
arrivato e non sapevo il perché.
Pensavo che mamma e papà mi avessero portato nella gelateria
che mi piaceva tanto.
Ma entrato capii che non c’era la folla, non c’era
la scelta
dei gusti colorati. Capii che non ci sarebbero più stati.
Era diverso quel posto. E che brutto nome “M
a n i c o m i o”. E’ troppo lungo ed
è strano. E’ un nome fuori
dal comune.
Io vi voglio bene, signori, perché voi mi fate piangere?
Ho pianto troppo.
No, signore, non sono ubriaco.
Io sono me stesso.
Io sono libero e penso e vedo tante cose che voi nemmeno
riuscite a scorgere!
Signori voi insistete che vi chiami dottori. E’ vero che ho
solo trent'anni e devo portare rispetto, ma voi non trovate la cura
alla mia
mente di bambino depositata molto lontano e mai ritirata, data via all’elegante follia ubriaca e vestita
d’arcobaleno. Volevo solo farle un regalo.
E’ lei che mi ha creato.
Mi diedero una stanza tutta mia. Era uno spazio piccolo
all’apparenza e mi apparteneva completamente: intorno a me
c’era un mondo
gigante! Non ruotava, ma stava fermo per me, che gli ero nel mezzo.
Eppure mi sentivo in prigione. Ero bravo coi presentimenti e
non me ne accorgevo.
Signori, perché mi legate?
Perché non mi ascoltate?
Non posso parlare? Io non sono un disco rotto, io canto bene
le parole.
E’ un gioco nuovo, signori?
Non mi piace.
Io capisco che questo non è bello, non è
piacevole.
Signori, io sento il dolore! Non sono un pupazzo!
Io ho una coscienza!
Cosa? Dite che l’ho persa
tanto tempo fa?
Io me ne vado, io ho quella finestra tra le nuvole che mi
aspetta tutte le ore.
Voi non siete dottori, nemmeno signori. Siete solo bestie.
Alla
fine vi entrai, in quella finestra, come vi dissi
all’inizio di questo insensato racconto. E’ un
po’ come il mondo, non trovate?
O come la vita. Entrambi non hanno senso… se lo avessero non
ci sarebbe gusto
di fare scoperte e porsi domande.
Ok, ora continuo con il mio giardino oltre la finestra nel
cielo – che non è tenuta da un filo, ve lo giuro!
E’ magica. Ah, la state
guardando, che sciocco che sono, quasi me ne dimenticavo.
Dunque: mi resi conto di stare a stringere la mano del
gigante in realtà. {c’è
qualcosa di reale
in tutto questo?}
Era morbida e grande.
E quei tulipani… ero felice! Ero felice
che stessero morendo,
che erano stati strappati.
Quei tulipani sembravano le facce di quei signori che si
facevano chiamare medici ed erano vestiti di bianco. Non erano angeli.
Non
avevano le ali e non erano buoni.
Poi scappai via. La mia mano si staccò da quella del
gigante,
come un bambino che lascia andare il suo aquilone.
Il gigante sembrava un vecchio quadro, vissuto e visto troppe
volte.
Mi teneva le mani, ma io non gliele avrei date. Non anche
questa volta, non ancora, mai più.
Vattene via anche tu!
Andate via tutti!
Io mi tengo compagnia con la solitudine. Io voglio accanto a
me qualcuno che non esiste.
I sogni impossibili vengono definiti irraggiungibili. La
gente dice “Tu sei pazzo!”.
E poi
ride.
Matti siete voi che ridete. E lo sono anche io. Ma io sono
un matto “normale”, a differenza vostra. Voi siete
solo ibridi.
Adesso ne sono fuori, perciò abbassate gli occhi, baciate il
suolo.
Sto correndo nella terra in cui l’erba alta e chiara mi
solletica le gambe.
C’è un buco nero laggiù! Non lo vedo
solo io, non lo vedete
solo voi, ma anche tanta gente!
Quella gente, però, lo evita,
come ha evitato me.
Quel pozzo mi somiglia. Forse anche lui si sente solo.
Lì sotto non ci sono donne, non c’è il
Diavolo. Ora ho
imparato.
Ma ci sono tulipani? Ci sono giganti?
Voglio tuffarmi in quell’abisso nero e fondermi con lui.
Mi avvicino e tutti quanti intorno a me urlano e mi
scacciano. Perché non volete che io sia felice?
E sorrido e salto. Alla
faccia vostra.
Sì, sono matto. Io non vi do retta. Io sono fuori dalle
righe… aspettate, io non ho righe, né quadretti!
Io sono un foglio
scarabocchiato.
Sono la tela
nata dalle mie mani pasticciate e maledette.
Qui c’è tenebra e silenzio. Qui cado e non tocco
terra. Qui
ho paura. Qui fa freddo. Qui il cuore batte forte e la luce del sole
sopra di
me viene oscurata dalle teste dei bambini e le loro mamme.
L’hanno già detta, quindi non sarà
l’ultima. Ormai le voci
sono lontane, sento grida e una sola spiegazione: “E’ pazzo”.
Poi sotto di me qualcosa di duro.
Fu come se qualcuno mi avesse strappato e
poi accartocciato.