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Autore: Moonshade    28/04/2010    0 recensioni
Questa è una storia che fa veramente ribrezzo, almeno per me XD Parla di una ragazza tedesca che partecipa e scappa dalla Seconda Guerra Mondiale per andare ad abitare in America. Lì avviene un incontro inaspettato... è molto scontata come storia ed è corta tra l'altro... ma spero che possa piacere comunque... ^^
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Milioni e milioni di corpi morti…
È l’unica immagine che mi è rimasta di quella brutale esperienza: la Seconda Guerra Mondiale.
In quel periodo, abitavo in una piccola casa che apparteneva alla mia famiglia da diverse generazioni.
Purtroppo, le tensioni tipiche dell’inizio di una guerra si sentivano già da qualche tempo ma nessuno aveva il coraggio di parlarne. Poi, all’improvviso, tutto iniziò: era il 1939 e la guerra era cominciata. Tutti si sentivano sollevati per via di questa enorme tensione levata dalle spalle.
Allora ero solo una ragazzina di dodici anni ma ero già abbastanza matura da rendermi conto della gravità delle cose e prevedevo che quella guerra, iniziata solo per orgoglio, si sarebbe presto trasformata in una catastrofe senza freni. Ma una ragazza che si era appena affacciata alla vita, cosa poteva fare allora? Mi limitavo semplicemente a parlarne con alcuni miei amici di scuola con un senso di ingiustizia che mi corrodeva sempre di più.
Ero davvero strana: sarei stata una bella ragazza dai capelli biondi e gli occhi azzurri come il mare ma, a causa dei miei tratti, assomigliavo a un ragazzo… e questo piccolo difetto mi permise di salvare la vita a un mio familiare. La cosa andò così: una sera, mia mamma mi disse che mio fratello maggiore, Hansel, sarebbe stato arruolato nel esercito e la mattina seguente sarebbe partito. Tutti erano contenti e fieri di questa cosa tranne me. Mio fratello, si deve sapere, era gravemente malato di cuore e di sicuro una guerra non l’avrebbe giovato. Anzi avrebbe peggiorato solamente le cose. Come poteva permettere la mia famiglia che un figlio gravemente malato partisse per la guerra? Non si accorgevano della sua debolezza fisica? Non vedevo la motivazione della gioia dei miei familiari così pregai mio fratello di rinunciare all’incarico a lui affidato.
Ariel – mi chiamava con tono spazientito ma, allo stesso tempo, dolce.
Non c’è niente di cui tu ti debba preoccupare. La mia malattia resisterà alla guerra. Sono forte -.
In quel momento non capii più niente. Corsi in camera mia e spinsi la porta talmente forte che le pareti dell’intera casa tremarono dimostrando la piccola grande ira di una ragazza che vedeva l’ignara inconsapevolezza di suo fratello. La cosa che mi faceva più innervosire era quel tono e quelle parole usate da mio fratello come se stesse parlando a una bambina, quando dal mio punto di vista, il bambino insistente e ingenuo era lui. Passai tutto il pomeriggio a pensare a come dissuadere Hansel a rimanere a casa. Mi guardai allo specchio e allora mi venne un’idea. L’unica soluzione ero semplicemente io, bastava che mi vestissi e che mi facessi scambiare per mio fratello per imbarcarmi in quella stupida vicenda ma c’era un problema: come avrei fatto a sgattaiolare fuori di casa senza che nessuno mi vedesse? Dopo svariati tentativi di fuga pomeridiana e serale, decisi di agire di notte.
Appena fui sicura che tutti fossero andati a dormire, mi alzai e cominciai a vestirmi con foga per non essere scoperta, corsi a prendere una sacca con dentro qualche abito e poi andai via verso l’avventura. Quando feci tutto ciò, credevo che la guerra fosse stata di combattimento corpo a corpo ma, con mia grande sorpresa, mi attribuirono l’incarico di andare a controllare i campi di concentramento dove rinchiudevano milioni di persone che non ritenevano degne di vivere poiché non erano di razza ariana. Tutti erano ebrei o almeno avevano parte della famiglia ebrea e tutti venivano da luoghi diversi. Chi si conosceva già, chi faceva conoscenza… tutti erano accomunati dallo stesso problema e, quando s’incontrarono nel campo, un senso di fratellanza li avvolgeva e li portava a sostenersi a vicenda.
In quella situazione, sembravo l’unica a provare pena per quegli uomini, tutti gli altri li fissavano freddamente e li trattavano peggio delle bestie. Forse facevano finta di non provare compassione o forse no, fatto sta che, se avessimo mostrato simpatia nei confronti dei poveri prigionieri, saremmo stati puniti ma nessuno ha mai dimostrato i propri sentimenti o le proprie idee. Paura? Possibile.
In quel campo eravamo solo dei combattenti che avevano il compito di controllare quel campo. A nessuno importava delle nostre idee o delle nostre impressioni e per chiunque eravamo come degli automi senza cuore.
Dopo qualche tempo passato a fare la guardia durante la notte, mi spostarono d’incarico e mi misero alle camere a gas. Ancora non sapevo di cosa si trattasse ma non sospettavo che il mio lavoro fosse così crudele.
La prima volta, che chiusi il portone della camera, sentii urli, strepitii, lamenti, tante persone che si spingevano verso la porta per disperazione cercando di aprirla ma, dopo alcuni minuti di quel frastuono, ci fu un susseguirsi di tonfi e poi il silenzio della morte invase completamente la stanza immergendola nel terrore assoluto. Un po’ spaventata, chiedevo con ingenuità cosa fosse successo e tutti mi rispondevano con una sola parola che ancora mi risuona in testa con un senso di orrore e nausea:
-Kaput! -
Ridevano divertiti quei piccoli uomini insensibili tanto da farmi sentire a disagio giacché non trovavo né il motivo né la forza di ridere.
Avevo il compito di aprire la porta e quello che vidi allora mi resterà in mente per tutta la vita: mille e forse anche più corpi morti sdraiati per terra, nessun segno di vita. Allora, corsi fuori dall’edificio, mi diressi verso un angolo buio e, dopo essermi assicurata che nessuno mi vedesse, scoppiai in un pianto dirotto, quasi bambinesco. Ero davvero scioccata e volevo tornare a casa. L’unica consolazione che mi restò fu quella di aver risparmiato quell’immagine agghiacciante a mio fratello che di sicuro non avrebbe retto il colpo.

Era il 1945, rimasi lì per quattro lunghissimi anni finché non riuscii a scappare da quella prigione piena di orrore e miseria.
In quell’anno gli americani fermarono quel massacro senza precedenti salvando una minima percentuale dei perseguitati.
Intanto mi ero stabilita nella città di New York con l’aiuto di un soldato americano a cui avevo raccontato tutta la mia storia. Avevo una buona conoscenza del inglese quindi riuscì a capirmi senza problemi. Si era preoccupato per me tanto da aiutarmi a cercare un alloggio dove stare e un lavoro per guadagnare lo stretto indispensabile. Dopo un anno, trovai un lavoro in una rivista. Tranquillità. Ecco cosa mi ci volle per continuare ad andare avanti. Ed il mio impiego giornalistico, trovato a diciotto anni, era abbastanza tranquillo se non fosse stato per le mie origini germaniche che venivano disprezzate da tutti.
I miei colleghi erano delle serpi che cercavano in qualcuno un difetto o un motivo di licenziamento. Io, infatti, ero la più mirata dai viscidi rettili di quella cerchia che sembrava aver fatto alleanza contro di me. Alcune volte pensavo davvero che l’unico a volermi veramente bene fosse il muro della parete alle mie spalle. Spesso cadevo in crisi, tanto che non riuscivo più a lavorare e i miei articoli ne risentivano ma poi pensavo “sono circondata da una banda d’idioti!” e, con quel minimo d’incoraggiamento, ricominciavo a lavorare ritrovando un pizzico di forza in più.
Ormai il mio aspetto aveva subito dei forti cambiamenti: i miei capelli biondi ormai erano diventati lunghi fino alle mie spalle, la mia corporatura era segnata dalle curve dei fianchi e la mia voce ormai si era alzata di qualche tonalità.
Sebbene l’avessi combattuta, ricordavo poco o niente della Seconda Guerra Mondiale. L’unico ricordo, che mi era rimasto di quel massacro, era un ciondolo a forma di stella ebraica con al centro un piccolo smeraldo. La stella me l’aveva regalata un ragazzo ebraico con cui feci amicizia durante una ronda notturna. Quella sera stava cercando di scappare. Lo rincorsi fino alle ringhiere che portavano alla fine del campo di concentramento. Poi lui si accorse di me e cercò di dileguarsi, ma dopo averlo rassicurato, lo afferrai per un braccio e lo accompagnai all’unica uscita che non era controllata e che non era piena di mine. Per ringraziarmi mi donò quel gioiello che mi rivelò, essere un cimelio di famiglia che si tramandavano da generazioni. Conservavo gelosamente quella collana, anche se la mettevo bene in mostra poiché ci tenevo a dimostrare di non essere una tedesca qualsiasi ma, il mio gesto di solidarietà, era scambiato spesso per la sfacciataggine di averlo rubato a un ebreo morto in seguito a quella guerra.
Ogni volta che mi capitava di toccarlo o comunque guardarlo, mi ricordava quel ragazzo che aiutai a scappare. “Chissà se è ancora vivo…” pensavo dopo aver fissato il gioiello. Vivevo nell’illusione di poter rincontrare quel ragazzo ma, ogni volta che rimettevo i piedi a terra, sorridevo e scuotevo la testa tornando alla realtà. Non credevo seriamente di poterlo rincontrare ma a volte il destino è davvero strano…
  
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