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Autore: The Corpse Bride    05/05/2010    8 recensioni
Ichigo sta affondando ed Orihime affonda con lui.
Rukia se n'è andata con il cuore di Ichigo, trafitta dalla spada di Aizen, e l'unica cosa che Ichigo non può combattere è l'irreversibilità della sua morte.
POV di Ichigo.
(Fic parallela alla mia "Meant to Live", ma tranquillamente leggibile anche senza aver letto quest'ultima.)
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Inoue Orihime, Kuchiki Rukia, Kurosaki Ichigo
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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(Nda: un paio d’avvertimenti prima di cominciare :D.
Innanzitutto: questa fanfic è parallela alla mia “Meant to Live”; non è necessario averla letta per leggere questa. Per chi l’avesse già letta, la fanfic tratta essenzialmente la stessa storia dal punto di vista però di Ichigo, ed è anche questa quasi totalmente introspettiva. È lunghetta, vi avverto: a me come sempre sembra di aver sì e no introdotto la cosa, ma io ho problemi *_*’’ spero che non vi farò rimpiangere il tempo speso a leggerla ._.
Nei miei progetti questa sarebbe finita appunto come capitolo successivo di “Meant to Live”, ma poi questa è stata inserita tra le storie scelte dall’amministrazione e non ho ritenuto giusto appendervi un capitolo che non era stato valutato per questa scelta.
Poi: questa fanfic è scritta in prima persona. È impossibile scrivere un testo introspettivo che risulti espressivo e soprattutto di questa lunghezza usando l’esatta parlata di Ichigo; Ichigo parla quasi sempre nei dialoghi e raramente vediamo monologhi interiori, però, quando ci sono stati, mi sembrava di aver visto un Ichigo anche abbastanza poetico O.o’’. Comunque il succo è che vi prego di considerare i concetti più che la parlata XD quella ho cercato di riprodurla fedelmente nei dialoghi.
Infine: qualcuno nelle recensioni di “Meant to Live” ha trovato che Ichigo agisse in un modo non consono alla natura del personaggio. Non intendo contestare questo giudizio, ognuno ha le sue opinioni su quello che un tale personaggio farebbe o non farebbe in una data circostanza, ad ogni modo non ho ritenuto necessario segnalare negli avvertimenti l’OOC, perché il regolamento lo definisce così:
Quando nella fic il personaggio descritto ha un carattere totalmente diverso o addirittura opposto a quello dell'originale
Nelle parti di dialogo ho cercato di tener fede al “comportamento”, al “modo di fare” del personaggio, del tipo, mi premuro di evitare un Ichigo fluffoso o una Orihime che rutta e sputa per terra :D ma le “azioni” che potrebbero compiere o non compiere, specie in un contesto inesplorato, sono un discorso che ritengo totalmente soggettivo: per me non farebbe alcune cose, per altri non ne farebbe altre, questione di interpretazioni :/. Naturalmente ognuno è libero di avere le sue, solo che non sono questi i casi in cui ritengo di dover segnalare l’OOC.>
Quasi dimenticavo: grazie a Tori Amos per titolo.
E ora la pianto di blaterare e vi lascio alla fanfic XD.)










Guardavo gli alberi, in autunno, i rami che ricamavano il cielo.
Guardandoli pensavo alla vastità del mondo, alle stagioni, all’intensità di quell’aria fresca e pungente che mi toccava le guance mentre tornavo a casa da scuola.
E un pensiero mi fulminava, mi attraversava il corpo con una scarica di dolore come corrente elettrica: Rukia era sparita da tutto questo.
Eppure, inspiegabilmente, mi sembrava che ci fosse. Che ci fosse dentro quei rami che dondolavano dolcemente in lontananza, nell’azzurro di quel cielo che si stagliava davanti a me… la vedevo, no, la sentivo nelle gocce di rugiada, nelle case bianche e nei loro giardini; nei gradini della metropolitana, nei fiori sui bordi dei marciapiedi, nel diramarsi delle strade..
La vedevo dappertutto… perché era lì che la cercavo. In ogni singola cosa, in tutto quello che mi circondava, io cercavo lei. Perché non potevo cercarla da nessun’altra parte. Perché speravo che, se avessi guardato ovunque, prima o dopo forse l’avrei ritrovata.

Non ero mai stato capace di “accettare”.
Piuttosto avrei combattuto fino a perdere la vita mortale e anche quella immortale, ma arrendermi e subire la decisione di qualcun altro, no, quello non ero in grado di farlo.
Ma con lei sono sempre stato costretto ad arrendermi.
Ho dovuto “accettare” che piombasse nella mia vita con un balzo così come ho dovuto “accettare” che se ne andasse nello spazio di quell’istante nauseabondo, fisicamente doloroso anche nel ricordo. Capii subito che non c’era nulla che potessi gridare per combattere la sua morte. Avrei potuto trafiggere tutti con la mia zanpakuto, ed è in effetti ciò che feci, ma questo non servì a riportarmela, lo compresi anche allora.
Rukia era già morta quando l’avevo conosciuta; di lei era rimasta soltanto l’anima. Ma quell’anima, quell’unico filo che la legava al mondo, le fu portata via quel giorno dei miei sedici anni, e in quel momento io seppi che mai, in tutto lo spazio dell’eternità, avrei potuto rivederla, parlarle, correre con lei.

Che importa la morte, avevo sempre pensato, quando esiste la promessa che un giorno, nell’estendersi infinito dei secoli...

Nel passare degli anni avevo dimenticato qualcosa; qualcosa che mi aveva ferito, all’epoca in cui persi mia madre, forse più della morte stessa.
C’erano, certo, il dolore, l’impotenza, la solitudine, e mi avevano schiacciato faccia a terra in un modo che dopo sette anni ancora era capace di piegarmi in ginocchio. Ma sapevo, in fondo al cuore, che c’era qualcos’altro.
E che c’era una sola cosa al mondo da cui non era possibile tornare indietro.
La consapevolezza.
Sapere nel profondo del cuore che anche la perdita era possibile.

E allora scendevo al fiume, nel parco dove mi spiegava come combattere gli Hollow, ma non era abbastanza. Allora me ne andavo al mare. L’attrattiva del mare, per me, era quella di regalarmi un ultimo orizzonte.
Ma non solo.
C’era un motivo se vagavo vicino al fiume, se prendevo il treno per il mare, se alzavo sempre lo sguardo verso il cielo. Io cercavo altri posti, altri luoghi. Volevo andarmene; andarmene da Karakura, dove stava definitivamente mettendo radici un me stesso tetro, distrutto, quasi robotico, e trovare un posto dove una nuova linfa mi ristorasse, un nuovo sole mi bagnasse, nuova rugiada mi scivolasse addosso. Un posto dove potessi rinascere. Dove Ichigo fosse qualcosa di diverso da quello che ero diventato; non importava cosa sarebbe diventato, purché fosse diverso.
Ero pronto ad andarmene per sempre; la consapevolezza mi premeva addosso, ricordandomi che non potevo lasciare i miei ricordi chiusi nell’armadio assieme alle vecchie magliette, che li avrei avuti aggrappati alle spalle per tutta la vita; ma decisi che avevo “accettato” fin troppo per le mie capacità, e che quindi volevo essere totalmente inconsapevole.
Il vuoto dell’inconsapevolezza mi suonava come una benedizione, come se le campane suonassero a festa per un nuovo battesimo.

Ma poi vidi gli occhi pieni di lacrime di Yuzu, e vidi quelli asciutti di Karin, arrabbiati, sempre arrabbiati; dietro a quelle due paia d’occhi si nascondeva una tristezza gemella, un rifiuto contro il mondo e contro quello che nel mondo accadeva.
E poi gli occhi profondi di mio padre, dietro i quali ora scorgevo una distesa lontanissima di paesaggio deserto, simile alle sabbie di Las Noches.
Rukia se n’era andata e io avevo deciso di fuggire, ma se io me ne fossi andato, poi dove se ne sarebbero andati loro? Che diritto avevo io di togliere loro un figlio e un fratello, di portarlo lontano e non restituirglielo mai più?
Possibile che anche stavolta non riuscissi a far qualcosa per le persone che amavo?

Perciò rimasi.
Rimasi, per non dover vivere con il pensiero che Karin mi cercasse nei rami degli alberi, Yuzu nel cielo azzurro, mio padre nelle case e nei giardini.
Ma la vita è un gioco di perdite e sostituzioni, e lo sarebbe rimasta anche se io avevo deciso di restare. Rukia aveva sostituito Kaiendono, io dovevo sostituire Rukia, la mia famiglia doveva ora sostituire me, che, benché vivessi nella loro stessa casa, in fin dei conti era come se me ne fossi andato.
Sì; era un gioco di perdite e sostituzioni, senza interruzioni della catena. Il primo anello è il più importante perché ha l’enorme vantaggio di non dover scacciare il ricordo di nessuno.

Perdonami per averti resa l’ennesimo anello di questa catena infinita di dolore.
Che, esattamente come quella del fato, nel momento in cui viene recisa libera tutto l’odio e il rimpianto e la disperazione.
Perdonami per non aver avuto il coraggio di interromperla.

Ma come sette anni prima non riuscivo a far altro che vagare, scendere al fiume e chiedere a me stesso, a mia madre, agli alti fili d’erba perché non fossi riuscito a proteggerla.
“Mi ha dato un potere proprio perché riuscissi a proteggere stringevo i denti “e invece proprio lei… proprio lei, io…”
Non sapevo rispondermi. Mia madre taceva e sorrideva tra le nuvole bianche e luminose. I fili d’erba frusciavano alla carezza del vento, alzando un profumo di natura e qualche petalo di margherita, ma non mi dissero mai cosa non andava in me.
Lo chiedevo quindi al fiume, sperando che l’intersecarsi lieve delle onde scrivesse una risposta. Ma il fiume scorreva. La mia vita stessa continuava a scorrere, ma la risposta non arrivava.
“Perché non sono riuscito a proteggerla?”
Ma ancora dovevo alzarmi tutte le mattine per andare a scuola, ancora dovevo studiare per non dover ascoltare ramanzine in presidenza – come se, giunti a quel punto, me ne fosse importato qualcosa – e ancora dovevo fare colazione e pranzare e cenare con la mia famiglia, cercando di parlare, di dire qualcosa – ma cosa? La mia bocca sembrava essersi inaridita. Non c’era nulla nella mia testa, e quello che c’era non mi sembrava abbastanza valido da essere detto ad alta voce.
In realtà, nella mia mente risuonava sempre la stessa domanda.
Non mi dava pace, mi tormentava giorno e notte. Non c’era minuto che potessi passare libero da quella domanda. Puntualmente, come una scossa, il pensiero della sua morte mi percuoteva da capo a piedi e mi costringeva a tornare al mio dolore, e io ero felice di tornarci perché ero sicuro che fosse mio dovere concentrarmi su quel dolore, gettarmi tutto intero in pasto ad esso.
Lasciavo che mi divorasse, quasi sperando di trovare una redenzione in quel mio abbandono alla sofferenza.: se mi fossi lasciato distruggere, allora forse poi avrei potuto perdonarmi. Solo allora avrei pagato davvero per quello che avevo fatto – per quello che non avevo fatto.
Due donne: due sole donne ho amato in vita mia.
Non l’ho mai avuto quel coraggio che tutti vedevano in me, mai. L’ho chiesto in prestito ad altri; e due volte gli dei hanno mandato al mio fianco qualcuno che immergesse le sue mani candide nel mio petto per cercarlo, e poi posarlo delicatamente sulle mie mani spalancate.
Io, che coraggioso non ero mai stato, ho avuto a fianco a me le due donne più coraggiose che abbia mai incontrato.
O forse no. Rukia era una codarda come me, in fondo. Forse proprio per questo sapeva quanto avessi bisogno di qualcuno che mi dicesse che invece potevo vincere, potevo diventare forte, potevo, potevo, potevo.
Avevo passato anni grigi, colorati solo dalle risse con i senpai, dalle discussioni con i docenti, dalla confusione di amici e familiari che faticavo a sopportare come se avessi avuto timpani troppo sensibili, che amplificavano i sussurri in urla assordanti.
Coloravano un poco la mia vita, sì, ma di colori scuri. Blu profondo, nero opaco, rosso purpureo.
E dopo quei sei lunghi anni grigi, ecco che arrivava un raggio di luce: qualcuno che si era preso il disturbo di guardare dentro di me e di cercarvi il vero coraggio, non la spacconeria che a quindici anni ostentavo nei litigi con i teppisti del quartiere. Quello non era coraggio: era la corazza che m’ero costruito attorno a furia di botte, uno strato di callo infrangibile che serviva a dare a me l’illusione di non venire ferito, e ai miei avversari quella di non poter ferirmi.
Ma la verità è che mi ferivano ogni volta, e ogni volta indurivo di più la corazza per convincermi che toccarmi non era possibile. Per convincere anche gli altri. Molti ci hanno creduto; ci hai creduto anche tu, Inoue, purtroppo. Perciò non ho mai potuto darti ciò che da me cercavi.
Due sole donne ho amato in vita mia: e le ho amate perché sono state le uniche che abbiano guardato quel bambino che piangeva spinto a terra da qualcuno di più forte.
Fino a che non è comparsa Rukia nella mia vita mi sono sempre sembrati tutti infinitamente più forti. Come ho detto una volta a Ichimaru, ogni lotta era guidata dalla disperazione che avevo dentro: era una scommessa contro un destino che mi sembrava sempre avverso a me.
E c’era Chado al mio fianco, ma era appunto al mio fianco, un compagno guerriero. Davanti a me non c’era mai una schiena che si stagliasse a proteggermi; c’erano solo i nemici, e un amico che come me cercava di affrontarli con i pochi mezzi che aveva.
Due donne, due sole donne ho avuto il coraggio di amare.
Due soltanto. Ed entrambe le volte me le hanno portate via.

C’eri anche tu, quel giorno, dietro di me. Come sempre, dietro di me. Non te ne faccio una colpa; so che se avessi potuto saresti stata al mio fianco anche tu.
Ma lei non si accontentò di stare al mio fianco e si lanciò contro di lui. Non amava farsi difendere. Lo ricordi, no? Quanto scalciò e gridò e pianse, tempo prima, perché me ne tornassi indietro, perché la lasciassi morire nel Seireitei, Ricordi quando mi dicesti che non importava vincere, purché non mi lasciassi massacrare da Grimmjow?
Anche lei mi disse che non importava, che lei poteva anche morire, purché non mi lasciassi fare a pezzi da Senbonzakura.
Ha sempre avuto quella sciocca convinzione che la sua vita non valesse la pena di combattere contro chi voleva porvi fine. Come se gliel’avessero data per caso e lei l’avesse portata avanti senza troppa convinzione, in attesa che qualcosa finalmente la interrompesse. E avrebbe fatto di tutto pur di non dover affidare ad altri il peso di quella sua esistenza, già troppo pesante anche per lei.
Vedi; io ero pronto a prendermene cura al posto suo, di quel peso. La vita le era odiosa? D’accordo, allora l’avrei fatta fiorire e cantare e risplendere, qualunque cosa mi dovesse costare.
Ci contavo, capisci? Pensavo che un giorno anch’io sarei salito lassù in cielo, e poi un giorno mi avrebbero fatto ridiscendere qui, e io magari sarei stato un uomo un po’ più forte, meno indebolito dall’amore e della nostalgia, e lei sarebbe stata una donna più serena, senza le tracce di quel dolore identico al mio; il rimpianto, la colpa, la vergogna di essere sopravvissuti.
O forse, sepolto nel mausoleo delle nostre anime avremmo conservato il lontano ricordo di quelle ferite, e proprio grazie a questo filo invisibile ci saremmo ritrovati; i nostri identici vuoti sarebbero tornati a incastrarsi l’uno nell’altro, come lo ying e lo yang, e noi avremmo saputo che c’eravamo già incontrati. Che c’era tra noi un legame che superava e travolgeva i limiti dello spazio e del tempo. Avrei riconosciuto il suo profilo nella città affollata tra venti, cinquanta, cent’anni, e un lampo mi avrebbe attraversato la visuale e io avrei capito che era lei, lei, l’unica che il destino avesse voluto affiancarmi.
Un giorno, forse, potrò ritrovare mia madre: e so che sarà lei quando vedrò un dolce sorriso e una mano tesa verso di me, pronta a rialzarmi. So che tornerà. So che può tornare.
Ma lei, lei non tornerà mai e quel giorno la sua anima è svanita tra le mie braccia come polvere argentata; è morta allo stesso modo silenzioso di Ulquiorra, con la classe di una nobile fino all’ultimo istante.
Cos’è, l’anima? Cosa rimane di noi, una volta sepolte le nostre spoglie mortali?
Ricordi, gioie, dolori, angosce, aspettative, delusioni, speranze, ferite, successi. Tutto ciò che era rinchiuso in Rukia si è dissolto nel nulla dell’eterno, senza che potessi fare niente per fermare tutto questo.
Ancora una volta.
Di nuovo davanti ai miei occhi.
Mi è sempre sembrato che il mio destino fosse quello di perdere qualcosa d’importante.

L’attimo della morte è breve.
È così breve, in effetti, che non ero ben certo che fosse davvero accaduto. La morte, devo aver pensato, è troppo immensa perché tutto accada in uno spazio tanto piccolo, così tanto piccolo che se non stai attento quasi non lo vedi. Così pensavo. Quella volta, benché i miei occhi avessero visto quell’istante, non ci avevo creduto.
Ma poi i giorni passarono. E ho ricordato che la morte non è breve: la morte è lenta, logorante, stremante; e una volta lasciato indietro il trapasso i giorni si accavallano con una lentezza lacerante.
Lo fanno ancora. Il dolore è forse meno martellante, meno cocente; ma le ore senza di lei saranno sempre interminabili, come se avessi bevuto il veleno del capitano Kurotsuchi. Tra cent’anni pregherò che quella lama si sbrighi a trapassarmi il cuore. Mi andrà bene anche la morte, pur di fermare questo veleno che mi attraversa le vene e mi impedisce di respirare, parlare e vivere.
Perdonami se taccio sempre davanti a te, ma ho paura che se aprissi la bocca le lacrime inizierebbero a sgorgare. Dubito di essere in grado di fermarle.

E tu che hai perso tutto, nella tua vita, dovresti capire.
Focalizza la scena: a casa cercavo in tutte le stanze, speranzoso, ma non c’era.
Cercavo una seconda volta, giravo tutta la casa, mi convincevo che fosse dietro le mie spalle e che mi stesse facendo uno scherzo, nascondendosi da una camera all’altra; prima o poi, mi dicevo, salterà fuori e mi darà dello stolto, e io le darò della stupida e tutto tornerà come una volta. Tendevo le orecchie, in ascolto dei suoi passi impercettibili.
Ma non appariva mai.
Uscivo, giravo tutta Karakura, arrivavo anche fuori città. Mi fermavo nei parchi, controllavo i cespugli con la coda dell’occhio, pensando che fosse lì dietro e che non volesse farsi vedere da me; fingevo di non cercarla, di non vederla. Magari allora sarebbe uscita dal suo nascondiglio, sicura di non essere vista. E io mi sarei voltato a braccia aperte e l’avrei sorpresa esclamando “bentornata!”.
Ma non tornava.
Fissavo insistentemente il cielo azzurro di giorno e quello blu acceso di notte; speravo che sarebbe precipitata dall’alto o che l’avrei scorta mentre balzava agile da un tetto all’altro.
Ma non c’era. Le notti erano vuote e i giorni inquietanti.
I giorni, soprattutto, erano tetri e densi. Plastica rigida. L’aria era pesante e irrespirabile, a volte l’angoscia mi levava il fiato e mi artigliavo il petto convinto che da un momento all’altro sarei morto, che a sedici anni sarei morto di “perdita”.
Avevo la costante sensazione che una catastrofe stesse per accadere. Rukia se n’era andata: il mondo, per quanto mi riguardava, era sul punto di finire.
E così ero io.

In quei momenti, nei quali guardavo a tutto come fossi stato in coma vigile, tu spingevi per entrare nella mia vita e alla fine hai abbattuto il muro di cinta; non avendo le forze per resistere alla pressione, dopo una breve resistenza ti ho lasciata entrare.
Prima o poi, ho pensato, avrei dovuto lasciar entrare qualcuno: se doveva essere qualcuno, allora tra tutti preferivo che fossi tu. E chi altro poteva essere? Eri l’unica con cui potessi condividere. L’unica che sapesse, almeno in parte, l’unica che forse capiva
Mi chiedesti di andare al centro commerciale. E ti dissi di sì, perché, dopo una breve meditazione, non avevo visto reali motivi per dirti di no. Dovevo forse negarmi tutto? Era compreso nel processo della redenzione? O forse potevo provare a staccarmi per un paio d’ore da quel dolore che mi trascinava verso il basso, occhi, spalle, cuore, più forte della gravità?
Ho avuto una colpa: quella di non saper accantonare. Avrei dovuto risponderti: “No, Inoue, non posso. Finirei per farti del male. Mio padre mi ha messo al mondo così: stupido, e incapace di dimenticare.”
Non l’ho fatto.
E adesso mi manca perfino il coraggio per chiederti perdono.

Ma te l’ho detto, no? Te l’ho detto che ho sempre avuto bisogno di una fonte da cui attingerlo, il coraggio.
Il motivo per cui non ho saputo ricambiarti è proprio che quella fonte avresti dovuto essere tu.
Ma tu sei fragile.
Lo vedo. Sei fragile come una ragnatela. Invisibile e leggera, basta un gesto distratto per rovinare il lavoro incessante di una vita intera; ti passano attraverso senza vederti, tirandoti fino a spezzarti. Quel delicato ricamo di fili lucenti si scioglie senza emettere un suono, si lascia morire con una pacata rassegnazione.
E ogni volta l’aracnide paziente la ricostruisce, stringendo i fili tra i denti e camminando passetto alla volta, ma alla fine, se non viene disturbata o interrotta, costruisce una tela meravigliosa di nodi d’argento, grande cento, mille volte la sua statura.
Così sei tu.
Ma una ragnatela non è in grado di sostenere il peso di una vita che affonda come un’ancora di ferro gettata in un fondale. Come potresti? Chiedertelo sarebbe crudele.
E Tatsuki non mi perdona per essere debole, e io le do ragione, cento volte ragione; mi odia dal profondo del suo cuore per non essere in grado di proteggere quella sottile ragnatela, e io mi odio assieme a lei. Adesso sono io a bucarla ogni volta, a staccarla dalla parete a cui è debolmente aggrappata. E tutto quello che mi ritrovo addosso sono fili luminosi che brillano per un attimo, per ricordarmi che ci sei, e poi svaniscono nel nulla ricordandomi che ti sto uccidendo.
Non ho il coraggio di chiederti perdono perché non esistono nemmeno le parole. Per dire ciò che ho in fondo al cuore. Per dire ciò che c’è nel tuo.
Non esistono parole di scusa per tutto questo.

-Ah… ah! Ku-Kurosakikun… uh… nh…! Kuro… Kurosakikun…
Anche in questo frangente, continui a chiamarmi. Continui a chiamare il mio nome, sempre, come per richiamarmi a te; come a chiedermi di rimanere da te, col cuore, con lo spirito, kokoro.
La mia anima va in frantumi ogni volta che realizzo quanta è la tua paura che io me ne vada lontano da te; che in quei momenti io sialontano da te, in una trance trasognata che insegue ancora braccia esili.
Va in frantumi ogni volta che, come succede sempre nel risveglio, realizzo che anche questa volta stavo sognando.

Nei sogni, le dico tutto ciò che avevo chiuso dentro di me quando mi era accanto.
Non tacere mai ciò che il cuore ti supplica di comunicare. Se ami qualcuno, gridalo.
Fa’ sì che la tua voce lo raggiunga, urla, corri, combatti. Ma diglielo. Diglielo prima che se ne vada per sempre. Il tempo che ci è concesso è un battere di ciglia.

Mio padre, un giorno, mi disse che il mio nome designava il destino di qualcuno che è destinato a proteggere. Eppure, benché tu sia quella che più di tutti sembra destinata ad essere protetta da me, non riesco a pensarlo quando ti sto toccando.
Sei troppo per le mie braccia.
Sei bellissima, lo so. Ma sei alta, robusta di costituzione. Il tuo fisico è abbondanza e fecondità; i tuoi capelli sono lunghi, lunghissimi, e brillanti; sfavillanti, quasi accecanti.
E sei bellissima.
Ma non sei lei.
Allargo le braccia per stringerti, tendo i muscoli per sollevare il tuo peso; non riuscirò mai a nascondere il tuo corpo dietro al mio. Non sento di poter coprirti. Non sento di poterti accogliere nel mio petto come un uccellino nel nido.
È soltanto una sensazione fisica, è solo corpo, carne e sangue, ma perché anche il mio corpo mi urla che la rivuole indietro?
Ho sedici anni e tu sei bellissima. Sei l’unica donna che possa avvicinarsi alla mia anima senza rimbalzarci sopra e schiantarsi a terra, ferita. E per un attimo ho pensato che forse con te ce l’avrei fatta; che mi avresti fatto sorridere, che mi avresti donato un po’ di quella tua allegria.
E l’ho pensato per giorni, settimane, mesi, ma la tua allegria non si trasmetteva a me assieme ai nostri fluidi corporali. Le nostre tristezze anzi si fondevano e si mescolavano l’una nell’altra; ora come ora, le nostre anime sono avvelenate fino al midollo, nel sangue ci scorre implacabile l’annientamento.
Io cerco ancora qualcuno che mi prenda a calci e mi dica cos’ho dentro, dato che io non lo so, che mi dica cosa devo fare e chi sono veramente, perché, ripeto, io non lo so.
Come posso chiederti che fare? Come posso, quando tu ti affidi a me, quando sono io la tua ancora di salvezza?<
Eppure tacendo sto forse facendo un lavoro migliore…?

“Kurosaki, ti ringrazio di cuore per questa giornata assieme! Mi sono divertita tantissimo: spero che potremo uscire di nuovo assieme, qualche volta!”>
Mi guardavi come se dalle mie parole dipendesse la tua vita intera.
“C-cioè, se ti va, Kurosaki, è chiaro! Non voglio assolutamente obbligarti a fare nulla! Eh eh, sentiti libero di dire no, non preoccuparti per me, anzi, dimentica quello che ho detto, ok? Io…”
“Yo, Inoue. Non agitarti. Possiamo andare ancora al centro commerciale, se vuoi.”
“Eeeh? Da… davvero ti andrebbe ti uscire ancora con me? Wow! Cioè, sarebbe carino. Grazie dell’invito, Kurosaki.”
E io cercavo di sorridere, perché volevo sorridere di fronte alla tua vivacità, alla tua gentilezza; ma non ci riuscivo.
Le labbra non si piegavano. Gli occhi mi bruciavano.
Da quel giorno, non avevo mai trovato qualcosa di così straordinario da strapparmi allo stato catatonico in cui versavo.
E invece tu… tu sei esplosa in un sorriso così dolce e gioioso che, se non avessi avuto un buco nella parte in cui un tempo c’era il cuore, proprio come un uomo che tu conosci bene, ti avrei preso il viso tra le mani e ti avrei baciata, e ti avrei resa felice come meritavi e meriti di essere.
Ma in quei giorni, come adesso, mi sembrava che qualcuno mi avesse traforato il petto con un braccio, portando via il cuore e gettandolo a terra dietro la mia schiena, sanguinante e pulsante.
“Mmh… beh, Kurosakikun, allora… ti andrebbe se ti offrissi un the? Prima di tornare a casa?”
Eri strana; strofinavi a terra la punta di un piede, tenevi le mani dietro la schiena e il capo chino; rossa in viso, sembravi imbarazzata.
“Beh, sì, non sarebbe male. Sicura che non ti disturbo?”
“Certo che no! Mai! Ehm… cioè, entra pure, Kurosaki. Scusami, la mia casa è un po’ in disordine…”
Non c’era alcun disordine; in realtà, in quel monolocale non c’era quasi niente. C’erano un po’ di pentole nel lavello e l’uniforme appoggiata alla sedia, ma null’altro. Era proprio la casa di chi era arrivato da poco e non contava di restare.
È l’atteggiamento che hai sempre avuto con tutti: ti comporti come se fossi l’ultima arrivata e sembri sicura che molto presto qualcuno ti caccerà lontano.
“Permesso.”
“Oh… prego!”
Mi guardavo intorno, incredulo che una ragazza di quindici anni possedesse così poco. La foto del fratello, i fermagli con le margherite e l’uniforme di scuola. Ecco tutto ciò che Orihime Inoue aveva al mondo.
“Siediti pure, Kurosaki. Che the preferisci? Darjeeling, Earl Grey, magari un the alla frutta inglese, o… oh, no!”
“Che succede?”
“Scusami tanto, Kurosakikun! Mi sono dimenticata che io non bevo mai il the; lo bevo sempre in caffetteria assieme a Tatsuki, e quindi in casa non ne ho. M-mi dispiace tanto!”
“Beh, non è un problema. Fa niente. Hai una Coca?”
“S-sì…”
Camminavi a sguardo basso, contrita; quasi ingobbita. Sembravi così triste che mi sono sorpreso.
“Yo; è per non avermi offerto un the che fai quella faccia desolata?”
“Oh… no, Kurosakikun; è solo che… vedi… io… non vorrei che tu pensassi che è stata tutta una scusa per farti venire qui!”>
“Eh? Una scusa…?”>
“Sì… per farti entrare in casa mia.”
“Bah; non ci ho pensato neanche per un attimo. Se vuoi offrirmi una coca, per me sta bene. Altrimenti, andiamo in caffetteria e prendiamoci un the.”>
“Kurosaki” mi sorridevi commossa come se mi amassi davvero “grazie”.
So che quelle parole significavano “ti amo”. Lo sapevo anche allora. Non sapevo soltanto una cosa: come si potesse evitare di rispondere a una frase come questa.
E per non sbagliare ho fatto finta di non averla sentita, benché urlasse a squarciagola dietro alle tue parole.
“Allora… se… se ti andasse bene anche una Coca… ti andrebbe bene lo stesso se rimanessimo a casa?”
Sei arrossita e io, mentre ascoltavo la tua voce farsi un pigolio, devo aver fatto una faccia abbastanza sorpresa, perché tu subito ti sei imbarazzata.
“Aaahh! K-Kurosakikun, i-io… oh, mi vergogno! Adesso penserai davvero che volevo farti rimanere qui con l’inganno!”
“Beh, no, Inoue, non l’ho pensato, ma effettivamente dato che continui a ripeterlo inizio a pensare che forse tu vuoi che io rimanga qui.”
“N-no! Assolutamente no! Cioè – ! Sarei felicissima che tu rimanessi qui! Sarei… sarei la ragazza più felice della terra! Volevo dire, sarei soltanto ‘felice’, ma non ‘esageratamente felice’. Sarei solo…”
“Inoue.”
“… sì…?”
“Non c’è niente di male a non voler rimanere soli.”
Abbassasti lo sguardo. Non era quello, lo sapevo.
“Non è quello, Kurosaki.”
“Lo so.”
“Io… vorrei che rimanessi tu. Cerco di non volerlo, ma… è quello che desidero dal profondo del cuore.” I tuoi occhi si fecero lucidi. “Perdonami, Kurosaki.”
“Tsk.” Abbassai gli occhi al pavimento. “Non c’è niente di cui devi farti perdonare.”
“Kurosakikun…”
Quante volte te l’ho sentito dire. Il mio nome. Sempre con quel tono: preoccupato, accalorato, come se ogni volta mi stessi chiedendo come sarebbe andata a finire.
Non lo sapevo. Ti giuro che non sapevo che sarebbe finita a quel modo.
L’avessi saputo, non mi sarei mai alzato per toccarti una spalla, anche se era solo per cercare di confortarti un po’.
“Oh…!” le tue reazioni sono sempre state così genuine e candide “io… non volevo essere patetica. Kurosakikun, dimentica queste lacrime, ti prego!”
“Impossibile” scossi la testa.
“Io non voglio che tu mi veda così.”
“Ti ho vista così milioni di volte. Non mi farei tanti problemi.”>
“Perdonami, perdonami, Kurosakikun…”
Ti gettasti tra le mie braccia e io, pur accusando il contraccolpo, ti strinsi in qualche modo, goffo e rigido, come se fossi stata fatta di ghiaccio doloroso al tatto.
Piangevi e io chinai il capo sul tuo, appoggiando la punta del naso e le labbra sui tuoi capelli. Provavo empatia per te. Ed ero sinceramente addolorato dalle tue lacrime, e commosso dal tuo amore disperato. Il fatto che il tuo amore disperato fosse per me, il fatto che non potessi ricambiarti, in quel momento fuori dal comune non mi sembrò un particolare tanto importante.
Ma capii ben presto che lo era.
Così come tu, ben presto, capisti per cosa mi chiedevi perdono. Mi chiedevi perdono per avermi attirato a casa tua ed esserti gettata tra le mie braccia, supplicandomi di salvarti. Sapendo che non potevo. Sapendo che avevo bisogno per primo di essere salvato, e sapendo da chi.

Le nostre teste hanno gli stessi colori: i colori del fuoco, del tramonto, dell’autunno. Quei colori caldi e malinconici che attirano gli sguardi, perché rappresentano l’ultima scintilla di qualcosa di vivo che sta morendo.

“K… Kurosaki…”
La tua voce s’era fatta un sussurro mentre alzavi il volto dal mio petto, fissando gli occhi nei miei. Sulle tue iridi ballavano riflessi incerti, instabili quanto i nostri intenti.
“Kuro… sakikun…”
Mi chiamavi ancora.
“Io…”
E chiamavi anche te stessa, per essere sicura di non fuggire da te stessa anche stavolta.
E poi, un millimetro alla volta, mentre io ti fissavo in attesa – non mi sembrava che stesse accadendo davvero; osservavo gli avvenimenti con approccio quasi scientifico – hai avvicinato le labbra alle mie, e quando le hai toccate, e hai visto che non mi scostavo, hai avuto un sussulto.
Un sussulto tenero, splendido in una ragazza di quindici anni che ha vissuto su di sé la perversione.
Ma io ho sbattuto le palpebre e ho registrato quanto era appena successo nella mia mente. Non mi sembrava nulla di speciale. Forse perché non era stato con Lei.
Tu quella prima volta, e a seguire tutte le altre, fingesti di non vedere ciò che c’era nei miei occhi. Posasti le labbra sulle mie con molto più trasporto, gli occhi serrati, come a dire: tutto ciò che c’è dentro ai tuoi occhi, adesso io non voglio vederlo.
Non guardammo mai più in fondo ai nostri occhi.
Non guardiamo ancora adesso.
Mi chiedo sempre più spesso se guarderemo mai.

E perdonami se me ne vado ogni volta. Perdonami, perdonami se me ne vado.
Ma quando riapro gli occhi, mi risveglio nel tuo letto, e l’aria è pesante e tra noi c’è il silenzio, ogni volta realizzo che non posso lasciarti sola con uno come me. Un idiota senza la forza di fermare tutto questo; un imbecille incapace di vivere, incapace di essere un sostegno per chicchessia.
E se mi odio io, figuriamoci quanto puoi odiarmi tu.
Se incrociassi la spada con me stesso, adesso, cosa vedrei? Cosa sentirei? Cosa mi direbbe Zangetsu del mio cuore…?
Tu non mi cacci mai via, anche se so che lo meriterei. Probabilmente, quand’è tutto finito, esattamente come me vorrai che me ne vada, per non ricordare a te stessa quello che stiamo facendo. Quello che ti sto facendo. Quello che ti stai facendo.
Perché me lo lasci fare, Inoue…? È questo il livello in cui desideri la mia presenza vicino a te? È questo…?
E perché io me lo lascio fare…?
Un tempo ero capace di darmi un limite, di dar vita a una risoluzione. Una volta non avrei fatto il codardo. Mi sarei detto che stavo facendo una cazzata, e l’avrei smessa una volta per tutte; forse, non l’avrei nemmeno cominciata. Una volta avevo questa forza. Lei se l’è portata via con sé…?
Forse è soltanto che per me era facile essere risoluto in battaglia, poiché nella battaglia ho sempre vissuto; ma non ho mai saputo come trattare chi non mi attaccava, chi non aveva spada né per attaccare né per difendersi.
Aveva ragione Kenpachi. Sono un animale tale e quale a lui.
Sto diventando un hollow senza maschera, vuoto ancora prima di morire.

Torna, le dico ogni giorno. Torna, la supplico. Non lasciarmi qui da solo. Non lasciarmi in mezzo a tutto questo. Senza di te, non posso farcela. Senza di te non riesco a combinare niente che non sia un completo disastro, una disfatta e un disonore.
Voglio accarezzare il tuo visino, guardare i tuoi occhioni spalancarsi e seguire il riflesso di quei capelli neri. Voglio stringerti tra le braccia, incastonarti nel mio petto.
Glielo chiedo ogni giorno.
Torna. Torna. Torna.
Se solo potessi fare qualcosa, qualunque cosa perché tornasse, la farei. Non importa davvero cosa sia; la farei. Quando i tuoi cari sono in vita non capisci che cosa sia l’impotenza di non poter far nulla per cambiare lo stato di cose, non capisci come ci si sente quando lo stato di cose è ‘non potrai mai più vedere il volto della persona che ami’. Ora lo capisco. E se potessi scegliere qualsiasi altro dolore al posto di questo, lo sopporterei. Sopporterei tutto. Diventerei forte. Non fallirei in niente. Tutto, per riaverla qui.
E invece tutto quello che posso fare è cercarla nelle strade del mondo, sperando che non sia vero che la morte è irreversibile come ci hanno sempre raccontato; sperando che fosse una bugia, sperando di avere ancora un’ultima possibilità – non la sprecherò, prometto ogni volta, giuro che se mi ridate Rukia non farò mai più un solo errore.
E quando mi accorgo che queste mie invocazioni non ricevono risposta, affermo: non è vero. Non è successo davvero. Ogni volta credo che domani mi sveglierò e lei salterà giù dall’armadio; alle volte lo penso così intensamente che me ne convinco, perché se non me ne convincessi il solo fatto di alzarmi la mattina e dover alzarmi in piedi e respirare sarebbe insostenibile.
Orribile come quei momenti in cui la lucidità prende il comando e mi accorgo che invece è tutto vero. E che il tempo non torna indietro. Non lo farà nemmeno per ridarmi Rukia; scorre impietoso incurante del pianto incessante nel mio cuore.
E tutto il resto a paragone mi sembra così infimo che non posso fare a meno di guardare tutto con aria indifferente.
Ma non voglio, assolutamente non voglio guardare così anche te. Dimmi che non è così che ti guardo. Non tu, che sei buona e mi sei sempre stata accanto; non tu, che sei tra i pochissimi che non voglio ferire.
Dimmi che il mio sguardo non ti attraversa, così come attraversa il resto del mondo come se fossero tutti ectoplasmi. Nient’altro che spiriti destinati a scomparire.

È che vedi, ho paura di dimenticarla. Se non vive nel mio ricordo, allora dove? Perciò cerco di conservare quel dolore nel mio cuore, perché è lì che lei esiste; non può continuare a esistere in nessun’altra parte del mondo o del cielo.
Rinunciare a questo tormentarsi significherebbe che anch’io l’ho lasciata andare.
Perdonami se non posso. Perdonami se non posso vivere distante dal suo ricordo.
Lo vedi; lo vedi come sono fatto. Identico a mio padre. Non riesco a rinunciare nemmeno ai vuoti.

Un giorno diventerò come lei? Un contenitore pieno di rimpianti?
Lo diventerai anche tu?
Un giorno questa tua paura di rimanere sola ti ucciderà; credo che tu ormai l'abbia capito.
Ti ucciderà da dentro, perché ti maciullerà lo spirito e disintegrerà qualsiasi tuo accenno di forza d’animo: quando si dipende dagli altri e non da sé stessi, sia la solitudine sia la compagnia possono diventare condizioni letali.
Ma ti ucciderà anche da fuori, perché tu permetti al mondo di farti del male. Intendi lasciar avvicinare chiunque, anche se ti ferisce, pur di non dover ascoltare il silenzio…?
Guardati. Guardaci. Guarda il filmato di quel giorno, guardali, quei due corpi di sedicenni che hanno incastonato sul volto lo sguardo di chi ha vissuto cent’anni, proprio come Toshiro. Guarda cosa stanno facendo.
Forse, come me, ti ritroverai a pensare che vorresti allungare una mano e fermarli; presto, prima che imbocchino quella strada che piegherà la fronte a terra a entrambi, come se fossero stati colpiti mille volte da Wabisuke.

“Oh, io… Kurosakikun..”
Stupore nei tuoi occhi. Probabilmente, ce n’era molto anche nei miei.
Ma continuavo a tenerti le braccia attorno ai fianchi, e tu non ti sei ritratta.
Potevo darti quella possibilità di fuggire.
Non l’ho fatto.
Vorrei tanto allungare quella mano.
“Noi…”
Abbassasti la testa; l’abbassai anch’io. I nostri volti erano vicini; quando la rialzasti le nostre labbra s’incontrarono ancora, e stavolta fu più morbido, più lento. Ti assaggiavo come si fa con un piatto nuovo e sconosciuto; tu mi divoravi come se fossi stato il tuo piatto preferito che ti negavi da tempo, e che finalmente ti eri concessa.
Le tue mani salirono sulla mia schiena e le tue dita mi strinsero; l’istinto mi pressò contro di te e, seppure il bollore delle mie guance stesse raggiungendo livelli di guardia, strinsi le braccia attorno a te.
Furono istinto e solitudine a guidare tutti e due verso quel letto, piroettando avvinghiati, a occhi chiusi e beatamente inconsapevoli.
Ah, l’inconsapevolezza, il gettarsi con incoscienza: quanto avevo cercato tutto questo.
Istinto e solitudine; e nel tuo caso a scortarti c’era anche quel bastardo dell’amore.
Ti spogliai un pezzo alla volta, rivelando le curve che premevano per uscire dalla trappola dei vestiti; osservai la pienezza dei tuoi seni lasciati liberi, la curva decisa dei tuoi fianchi morbidi. Le tue dita lunghe mi percorrevano ovunque, ma la mia reazione a quel tocco sembrava più fisiologica, scientifica che emotiva: le risposte del mio corpo non tardarono ad arrivare, ma furono più una questione di causa/effetto che di dominio dei sensi. Però continuai. E tu, ebbra di gioia, lasciasti che finalmente ti toccassi, ti guardassi, ti scoprissi interamente per come avresti sempre voluto mostrarti a me.
Io ero restio a lasciarmi guardare; non l’avevo mai permesso a nessuno. Mi ci abituai presto, perché l’incoscienza ti fa dimenticare anche questo, e io ad essa mi ero affidato e abbandonato a peso morto.
Fu solo quando, soddisfatto, e soddisfatta anche te, uscii dal tuo corpo, sporcandoti le cosce di un liquido appiccicoso, che mi sentii morire.
Era stata la mia prima volta, ma quando abbassai lo sguardo vidi qualcuno che non era Lei.
Non riuscivo a guardarti negli occhi. Ma non era un problema, perché tu facesti il possibile per evitare di guardare nei miei.
Coltivammo le nostre tristezze distanti, sdraiati uno a fianco all’altra, il calore residuo dei corpi ancora palpabile; ma le nostre menti non erano libere, non erano più adagiate sul soffice prato dell’incoscienza. Finiti quei momenti, la pienezza quasi straripante che avevamo appena vissuto non ci era già più concessa.
Perciò abbiamo fatto in modo di aumentare quei momenti, di viverli sempre più spesso; perciò ci vediamo quasi ogni giorno dopo la scuola.>
Perciò dopo me ne vado. Perché dopo siamo lontani tanto quanto prima siamo stati vicini.

So che non basta per ricevere la tua assoluzione; nemmeno io mi concederei la grazia, se fossi al posto tuo e dovessi decidere che farne di Ichigo Kurosaki: un relitto, un reietto, un moccioso vigliacco che annaspa in mezzo al fango.
Passi non saper stare al mondo, ma far degli altri le vittime della propria stupidità?
Fossi il vecchio me stesso, avrei preso a calci un simile idiota fino a che non fosse più in grado di rialzarsi. L’avrei fatto annegare in quel fango, spingendo col piede sulla sua testa finché non fosse sparito dalla mia vista infuriata.
Mi manca, quel vecchio Ichigo che sono stato. E suppongo che anche a te manchi la vecchia Inoue.
Eppure lo sappiamo, vero?
Non esistono né un vecchio Ichigo né una vecchia Inoue. Siamo sempre noi stessi, i nostri stupidi, imbranati noi stessi. Non siamo mai cambiati. Ci hanno solo dato un’occasione di sfoggiare il nostro peggio, e noi, incapaci di cavarcela da soli, l’abbiamo colta quasi con sollievo.
Spesso penso che Uraharasan ora mi direbbe che avrei ragione a cercare una scusa per andare a morire.
Tu, invece, mi diresti che non merito affatto di morire. Mi diresti che vuoi che viva. Lo so bene, ti conosco, Inoue, se io non sono capace di dimenticare allora tu non sei capace di ricordare; non è nel tuo essere il serbare rancore. Tu mi assolveresti.
Perché sia la vecchia te stessa sia quella che mi guarda con quegli occhi tristi oggi è una donna che non è capace di allontanare.
E io rimarrò sempre un uomo codardo, incapace di trattenere.
Sai anche questo, vero? Anche tu lo percepisci, che queste due vie sono…
… non, meglio non parlare. Tacciamo anche oggi di fronte alla verità. Di fronte all’immutabilità di ciò che il cielo ci ha inflitto, non vedo perché non possiamo conservare immutabili anche le nostre insignificanti esistenze umane.

Ha ancora senso chiedere la grazia?
Forse non c'è grazia per quelli come noi.
Una volta maledetti non esiste una redenzione.

La maschera bianca d’ossa mi brucia sottopelle come fuoco.

  
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