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Autore: cartacciabianca    09/05/2010    5 recensioni
[ SOSPESA ]
In una New York devastata dalla Guerra tra sani e portatori, sono emersi un gruppo di patriottici eroi. Uomini e donne sottoposti a crudeli esperimenti allo scopo di sopprimere definitivamente il Virus e ogni suo esponente. Sono gli Angeli, nati dalle ricerche fatte sul precedente campione Zeus e protettori della specie umana. La battaglia per il dominio sul pianeta volge al termine dopo due anni di scontri sulla frontiera della scienza e della tecnologia meccanica. Due anni di sangue e vittime innocenti capitate nelle mani dei predatori più spietati.
"Mi sentii puntare sulla schiena qualcosa di estremamente freddo, sottile e affilato più di un rasoio.
Ingoiai a fatica, trattenendo il fiato e sollevandomi sulle punte degli stivali. Dalla mia bocca schiusa venne solo un flebile sospiro quando Alex affondò la lama tra le mie scapole traversandomi orizzontalmente da un capo all’altro. Un fiume di sangue mi bagnò la divisa, raccogliendosi poi sul terreno impolverato tra i miei piedi. Quel rosso vivo e accecante mi finì anche negli occhi, mentre il dolore risucchiava nel suo vortice la sensibilità del mio corpo.
Inclinai la testa da un lato scoprendo una parte di collo, sul quale Mercer posò appena le labbra.
-Sai… ora capisco cosa ci trovava quel Turner di tanto interessante in te- mi sussurrò all’orecchio dopo aver risalito il mio profilo di piccoli baci, minuziosi come graffi. –Quando sanguini così sei davvero eccitante- rise."

[Alex Mercer x nuovo personaggio + altri nuovi personaggi]
Genere: Azione, Horror, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lemon, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 34° - Orgoglio e pregiudizio





GIORNO DELL’INFEZIONE: 501°
POPOLAZIONE MONDIALE INFETTA: - 44%





Non vedevo la pioggia da molto tempo.

Su Manhattan non piove da molto tempo.
La foga del temporale si abbatteva sui grattacieli distrutti e allargava le pozzanghere per le strade. L’asfalto in polvere si mescolava al fango della terra nei punti in cui le crepe s’insinuavano sotto il livello calpestabile. I resti delle macchine arrugginivano, la maggior parte dei lampioni erano spenti, mal funzionanti o distrutti, ridotti a brandelli dove le battaglie tra gli Angeli e i portatori malati avevano fatto danni. Era una rigida notte senza stelle e l’oscurità inghiottiva ogni cosa. Il rombo dei tuoni viaggiava per chilometri, preceduto dal bagliore giallastro che di tanto in tanto illuminava le nuvole, facendole apparire ancor più minacciose e possenti.
Attraverso la vetrata che ricopre un’intera parete della mia stanza, assistevo a quello spettacolo grandioso: madre natura aveva trovato la forza di ribellarsi e con le armi a sua disposizione stava spegnendo anche gli ultimi focolari di guerra troppo allungo rimasti accesi.
Se c’è una cosa che infastidisce parecchio sia gli infetti sia i cacciatori, è l’acqua piovana. Be’, per noi che l’abbiamo scoperto quasi per caso giusto poche settimane fa, non è affatto stupido o scontato come traguardo. Quelle che dovevano essere normali piogge autunnali, sono cominciate stranamente in anticipo solo quando il tetto di nuvole rosse, cariche di virus e infezioni, si è spostato via da New York sospinto dalla calda Corrente del Golfo del Messico che, improvvisamente e con grande stupore dei meteorologi, ha cambiato traiettoria diramandosi in queste zone. Da allora non ha fatto altro che piovere, giorno e notte.
Sedevo a gambe incrociate sul materasso del letto, spaziando con lo sguardo oltre il vasto spiraglio che le tende davanti alla vetrata mi concedevano.
Ero vestita con abiti che riuscivo a stento a riconoscere per il materiale di cui erano fatti: jeans fino alle caviglie, un maglioncino con collo a “V” sopra ad una t-shirt a doppie maniche. Scarpe comode, braccialetti, coda alta.
Sono i vestiti coi quali ero uscita di casa quella sera che avevo tenuto William per mano, diretti al nostro appuntamento al People con Susan. La notte che aveva scritto il mio destino, la notte della mia vita.
Ricordavo ogni particolare, persino il modo in cui erano vestiti Emmett, Lucy, Margaret, Harry e Phil, ma soprattutto le parole precise con le quali Lewis Martin ci aveva iniziati alla nostra missione. Ricordavo le urla, gli spari, e se mi sforzassi un po’, sarei capace di descrivere i volti di tutte le persone che, assieme a William e Susan, sono state ammazzate.
Dopo di allora si erano susseguiti giorni l’uno più agitato del precedente. C’erano state le cacce agli infetti, le mie fughe segrete dalla base per accattare qualche bonus, le sfuriate con Emmett, le missioni notturne nelle fogne per mangiarci a colazione qualche cacciatore. E così via fino al primo incontro ufficiale con Zeus. Dai nostri duelli, alle nostre strette di mano. La ricomparsa di mio padre e la verità scoperta tra lui e Lewis Martin: un legame di sangue che, pur di giovare ai loro scopi benefattori, mi avevano tenuto nascosto.
Seduta sul mio letto, con indosso quegli abiti e nella mente quelle immagini, ripensavo a molte altre cose, tutte quante finalmente concluse.
Come quella serata al People, ricordavo nei dettagli solamente un'altra notte della mia vita.
L’attacco alla Base Phoenix si era concluso con un’unica grande vittoria: annientare Alex Mercer.
Dopo il mio risveglio erano cambiate molte cose. Lewis e Mark mi avevano parlato a “sei occhi” spiegandomi la situazione, partendo dal principio. La loro giustificazione, ovvero l’unica delle altre 30 bugie che mi inculcarono, era stata di aver agito per il bene comune, di essersi guadagnati la mia fiducia e la mia alleanza per i loro scopi. Avevano ammesso di aver perseguito il successo con mezzi spregevoli, negli occhi di entrambi avevo trovato scritta la sincerità, ma nonostante fossi sembrata apparentemente convinta delle loro parole, mi ero alzata e allontanata dallo studio senza aggiungere altro. Avevo esplicitamente chiesto del tempo per pensare. Del tempo per maturare delle nuove opportunità, stabilire dei nuovi ideali, dei nuovi obbiettivi.
Erano trascorse così diverse settimane, durante le quali avevo preferito starmene per conto mio nella mia stanza vedendo una persona ogni tanto.
E questa persona era Cole Turner.
-Emily- il Capitano aveva sussurrato il mio nome entrando nella camera, una notte. Turner era rimasto allungo immobile nell’oscurità, attendendo un qualsivoglia gesto che gli desse il permesso di avvicinarsi ancora alla mia figura, che aveva scelto di stare rannicchiata sul letto, con le spalle al muro e le ginocchia strette al petto.
In quel momento non avrei voluto vedere nessuno, nemmeno me stessa, ma sapevo bene che sarebbe stato pressoché impossibile, a meno che, oltre allo specchio, non avessi deciso di rompere anche la finestra a vetri, che nei momenti più inopportuni si burlava di me, riflettendo la mia immagine.
Mi ero voltata lentamente verso di lui, pregandolo con lo sguardo di risparmiarsi le parole già ascoltate da mio padre o il motivo per il quale lui e Andrius Walker sembravano conoscersi affondo, ben oltre un rapporto generale-cadetto che ero stata tenuta a credere. Ormai avevo la testa talmente piena di menzogne, che avevo imparato a fare a meno della verità, ed ero perciò capace di continuare a vivere senza. Piuttosto avevo allargato le braccia e gli avevo fatto capire di avere ancora bisogno di lui, nonostante tutto ciò a cui non volevo credere, a partire dal fatto che fosse vivo.
Cole mi aveva sorriso in modo terribilmente dolce e aveva acconsentito ad abbracciarmi, stringendomi con estrema delicatezza, quasi avesse paura di rompermi come un delicato bicchiere di vetro. Io, al contrario, mi ero artigliata al suo corpo piantando le unghie sulla sua schiena e nascondendo una parte del viso nell’incavo della sua spalla. Il suo cuore, che batteva lento e regolare, si scontrava col mio che, nonostante le apparenze, mi correva forsennato nel petto.
Quando l’avevo visto morire davanti ai miei occhi nell’avamposto a Manhattan, circa un mese prima, ero stata sicura che non avrei mai più potuto bearmi in quel modo del suo calore, della sua presenza. Avevo faticato a ricordare il sapore delle sue labbra, i brividi che mi davano le sue carezze. Ora tutto questo era di nuovo a mia portata di mano, mi sarebbe bastato schioccare le dita e come per magia sarei tornata ad essere una persona capace di amare, e non solo desiderosa di ottenere vendetta.
Ma c’era ancora qualcosa che mi fermava… qualcosa che insisteva col tenermi lontana da lui. Anche quando il Capitano mi aveva baciata accompagnandomi distesa sul materasso, ero rimasta ferma, in attesa, frenata da quel qualcosa che premeva insistentemente nella mia anima.
Era la consapevolezza di non aver ascoltato, visto e compreso tutto a dovere prima di giudicare. Avevo dato per scontato che la situazione nella quale mi trovassi fosse quella più giusta, più favorevole ad una causa umanitaria, dimenticando o bandendo tutto il resto come il più grande sbaglio della mia vita. Ma il più grande sbaglio della mia vita era proprio quello: giudicare tale ciò che mi annebbiava la vista, ciò con cui ero stata battezzata, ciò che mi procurava piacere.
Non stavo semplicemente rivalutando Cole Turner come l’uomo che non amavo, ma in me si stava arrampicando una concezione ben differente di una visione più ampia che, nell’insieme, costituiva il mio prossimo scopo.
Quella, e molte delle notti successive, era successo ugualmente: io e Cole avevamo fatto l’amore, ma in modo totalmente diverso da l’unica volta che eravamo riusciti ad amarci, prima di inseguire assieme la nostra missione a Manhattan, nella caccia a Zeus.
I giorni erano condensati in settimane, le settimane in mesi. Dopo la grande vittoria su Alex Mercer, il Settore Angels aveva fatto baldoria per un lasso di tempo che aveva visto gli addestramenti sospesi e messo da parte la caccia agli infetti, in angolo dell’agenda giornaliera.
Non avevo allungo fatto domande su Zeus o su cosa gli fosse capitato successivamente alla sua cattura. Nonostante il mio interesse nei riguardi di Alex stesse aumentando di giorno in giorno, mi limitavo a tenere la mente impegnata o comunque isolata da tutto ciò che avrebbe potuto darmi informazioni su di lui.
Non vedevo molto spesso né mio padre né il resto della mia squadriglia. Come ho detto, l’unico che di tanto in tanto veniva a farmi visita era il mio Capitano, col quale finivo col trascorrere la notte quasi fosse diventato un rituale forzato. Non sapevo se Cole facesse parola con qualcuno di quella nostra relazione silenziosa. Mark Walker sicuramente sapeva di me e Cole, ma probabilmente aveva faccende più urgenti di cui occuparsi per potersi permettere di trascurare sua figlia in quel modo. Dal canto suo, Cole era cosciente del fatto che avevo bisogno di lui solo in quel modo, ma cominciava a sospettare che prima o poi avrebbe dovuto riportarmi alla ragione.
Vivevo in una prigione di carta che avrebbe potuto prendere fuoco da un momento all’altro. Le mie idee sulla guerra, i miei ricordi, le mie speranze e i miei nuovi ideali si stavano lentamente amalgamando come accade alla plastilina di vari colori. Ciascuna sfumatura trova il suo posto accanto all’altra, intersecandosi nella 3° dimensione come un puzzle che non ha una forma e che, per tanto, riserva infinite sorprese.
Una di queste sorprese fu scoprire, rinvenuta dalla convalescenza dopo il trattamento del gas, di non possedere più alcuno dei miei poteri da Angelo.
È successo tutto molto in fretta, ma ricordo ugualmente come sono andate le cose. Non è difficile immaginare quale e quanto sia stato il mio sdegno nell’apprendere quella verità. La mattina del 440° giorno dell’infezione mi ero svegliata nella mia stanza, la stessa dove mi trovo ora, e dove c’era mio padre seduto su una sedia accanto al mio letto, attenendo che mi svegliassi.
Aperti gli occhi, l’avevo guardato giusto un istante per poi tornare a chiuderli, desiderando ardentemente che non fosse là.
-Emily, per favore, devo parlarti. È importante- aveva detto serissimo.
-Come se non l’avessi capito…- avevo brontolato con voce roca. Mi ero schiarita la gola ed ero rimasta ad ascoltarlo per una decina di minuti. Mi aveva parlato in modo un po’ riassuntivo del progetto ricerca di Lewis, che consisteva nel far tornare “normali” tutti gli Angeli in servizio, e sostituirne con dei nuovi. La camera a gas dov’ero stata, nel giro di un trattamento intensivo 24 ore su 24, agiva all’interno del corpo sostituendo temporaneamente le particelle infette nelle nostre vene con dell’ossigeno. Questo dava il tempo e la capacità necessaria per effettuare una trasfusione completa di sangue in pochi minuti, ma il processo era ugualmente lungo.
Inizialmente ero senza parole, sorpresa di quella che sembravo aver ricevuto come congeda, della quale non avevo discusso burocraticamente con nessuno, a parte mio padre che, però, non aveva aggiunto altro e aveva preferito che ne avessimo continuato a parlare anche in presenza di Lewis. Fu allora che Mark mi convocò nello studio di suo fratello, all’ultimo piano della base, che raggiunsi subito dopo essermi vestita un’ultima volta con l’uniforme che avrei indossato solo quel giorno.
Mi ero guardata allungo allo specchio, prima di uscire, spiando in quanto possibili tutti i dettagli del mio abbigliamento. Ora che ero senza poteri, non sarei stata degna di indossare quell’uniforme, avevo pensato, ma tanto valeva provare a fingere che non fosse così. Avevo rinunciato in partenza a tentare di sfoderare le ali dalla schiena, o a trattenere il respiro senza aver bisogno di riprendere aria dopo meno di un minuto. In più, sul petto avevo scoperto di avere il resto del colpo fatale infertomi da quel militare la sera che mi ero svegliata nella camera a gas, aspettandomi delle dichiarazioni che Lewis non mi avrebbe mai dato.
Uscita dalla mia stanza, avevo camminato lungo i corridoi a testa bassa, lanciando un’occhiata qua e là dove la comparsa di vita attirava la mia attenzione. Avrei voluto sapere dove fossero Lucy, Harry, Emmett e Phil e cosa stessero facendo in quel momento, o più semplicemente se anche a loro erano stati tolti i poteri. Non c’erano dubbi che durante la traversata contavo meno Angeli di quanti ne ricordassi o di quanti, in media, si spostavano per la base. Dopo lo scontro con Emmett avuto prima di scoprire che avevano incubato Cole per farlo tornare in vita, mi chiedevo che fine avesse fatto Matt e se, anche se non era un Angelo, il settore sarebbe stato capace di riportare in vita anche lui.
Una volta raggiunto l’ufficio senza guardare in faccia nessuno, la segretaria mi aveva sorriso e mi aveva scortato fin dentro il piccolo salotto, facendomi accomodare di fronte a Lewis, che presiedeva dall’altro capo del tavolo, e al fianco di mio padre, seduto sulla poltroncina accanto.
Mark mi aveva preso la mano e mi aveva sorriso, nel frattempo che Lewis terminava un’importante telefonata.
-Sei contenta?- mi aveva chiesto Mark.
Io avevo annuito, mentendo, ovviamente. Ma cos’altro avrei potuto fare? Negare e gridare ai quattro che venti che preferivo di gran lunga fare a pezzi la gente e squartare le persone come animali? Non era il caso…
Dico che è successo tutto velocemente perché le parole spese da Lewis e Mark per raccontarmi la “verità” che mi rifiuto di accettare ancora ora, ma dalla quale sono schiacciata sempre più ad ogni respiro, mi avevano fatto vorticare la testa portandomi quasi allo svenimento. Era stato a quel punto che ero uscita dallo studio negando a me stessa di credere alle cazzate sul superiore bene comune roba varia da I Libro dell’Apocalisse.
-Il settore Angels è stato fondato per un solo scopo- aveva detto Lewis. –Tutto il resto è una copertura, Emily. Il Governo Americano ci finanziava al fine unico di catturare e annientare Alex Mercer. Definitivamente-.
Avevo sobbalzato sulla poltroncina, senza però darlo troppo a vedere.
-E a quanto pare, la missione è conclusa- aveva sorriso Mark, guardandomi.
A quel punto avevo abbassato la testa.
-Una copertura, eh…- avevo riso istericamente sotto voce. –Ho spacciato per morte persone che voi davate per scontato sarebbero spuntate come funghi! Quelle persone hanno sofferto, ma credevano nella loro causa lottando giorno dopo giorno col virus in tutte le sue forme, anche quelle più piccole. Hai davvero una bella faccia tosta a sfruttare così le persone, zio- l’avevo fissato con rabbia, soprattutto dopo averlo chiamato per la prima volta in tal modo.
Persino Mark al mio fianco era sembrato turbato dalla mia reazione alle parole di suo fratello, che invece si era limitato a mantenere un certo distacco.
-È una balla che ti sei inventato anche quella di dirmi che ero speciale, Lewis? Dirmi che ero come lui? Hai vomitato anche questa per mantenere la “copertura”?- lo punzecchiai.
Martin sembrò irrigidirsi sulla poltrona dietro la scrivania.
-Emily, adesso basta, non siamo qui per parlare di questo- intervenne mio padre.
-No, papà, ti sbagli! Per quanto ne so, non c’è altro di cui discutere- sibilai.
Lewis inarcò un sopracciglio. –Vuol dire che accetti la tua congeda?-.
-Perché, ho forse avuto scelta?!- eruppi balzando in piedi. –Anche quando mi davi la possibilità di scegliere, c’era ugualmente la buca in cui cadere, Martin! Mi hai usata, mi avete usata entrambi come una marionetta!-.
Mio padre sembrava terribilmente dispiaciuto. Lewis era un po’ il suo lato oscuro. Ma più notavo le loro differenze, e più ingoiavo affondo la realtà che fossero gemelli. Approfittando del silenzio che si era creato, continuai più pungente.
-Avete mai provato a pensare che le persone coinvolte nei vostri scopi hanno un cuore, un’anima e un cervello pensante?! Non solo avete infranto almeno un centinaio di diritti stabiliti dalla Costituzione dello stesso paese che servite con tanto onore, ma presto o tardi vi ritroverete alle costole un folto gruppo di persone con torce e forconi alle quali avete tolto una cosa molto preziosa, per noi esseri umani- feci una pausa, guardando prima uno poi l’altro gemello, ma dalle loro facce intuivo che già sapevano le esatte parole che stavo per dire.
-La dignità-.
-Hanno servito il loro paese, come noi, Emily. La dignità è ciò che non mancherà loro, vedrai- intervenne Mark.
-Ne sei così convinto, papà?-.
In quel momento avevo messo da parte i problemi secondari alla causa per la quale stavo lottando. Difendere la giustizia, la dignità, la libertà, i principi per cui i veri militari americani morivano ogni giorno in mezzo al deserto, era quello l’obbiettivo che aveva temporaneamente eliso tutti gli altri maturati durante la conversazione.
Lewis e Mark, dopo quella sentenza da me espressa, si limitarono ad informarmi che ero tenuta a rimanere alla base ancora per qualche mese. Il tempo necessario perché venissero bonificate le zone residenziali attorno all’isola con un intervento militare. Mi comunicarono, inoltre, che poca della gente che conoscevo era ancora in servizio.
-Emmet Word è stato trasferito nella base ad Atlanta- aveva detto Lewis leggendo un fascicolo. –Lucy Malcom ha accettato la congeda ed è tornata a vivere con i suoi nonni nell’Oregon. Harry Brown ha scelto di restare alla base ancora per un po’, finché non otterrà il permesso di soggiorno per l’Australia. Nella dichiarazione lascia scritto di aver bisogno di “una vacanza tranquilla”. Phil McGuire e Margaret Smith presteranno servizio per altri due anni. Devono recuperare le mancate prestazioni dei mesi passati. Hanno insistito entrambi di venir spostati in una nostra gemella in Russia, dove sembra che il Virus stia prendendo delle brutte pieghe. Altro che Cacciatori Volanti- aveva riso scambiando con il fratello un’occhiata complice.
Mark aveva sorriso in modo malinconico e mi aveva stretto più forte la mano, guardandomi.
Io ero una statua. –Quanti di loro hanno subito il trattamento?-.
-Ancora nessuno- aveva risposo tranquillamente Martin.
Mi ero voltata verso mio padre, immaginando che fosse stato lui il primo ad intercedere perché facessi parte di uno dei gruppi di sperimentazione ai gas, così che tornassi normale prima di far male a qualcuno.
-Credo sia tutto qua quello che t’interessa sapere- Lewis aveva richiuso il fascicolo.
-Il Capitano Turner- avevo interceduto, imbronciata.
Lewis aveva aggrottato la fronte. –Certamente- aveva detto afferrando un secondo fascicolo. –Capitano Cole Turner, eccolo qui- aveva viaggiato per una decina di fogli, ma era tornato a rivolgersi a me con un’espressione poco interessata. –Non ha lasciato dichiarazioni, ma ce ne occuperemo al più presto. Adesso vorrei discutere con tuo padre di un’ultima questione, ma in privato. Puoi andare- mi aveva sorriso affabile giungendo le mani sul tavolo.
Avrei voluto staccargli la faccia a morsi, ma avevo sorriso e ubbidito.

La scorsa notte, mi ero svegliata di soprassalto a seguito di un incubo. Avevo sognato le ultime ore di preparazione all’attacco alla base Phoenix. Avevo rivisto le scene dipinte nella mia mente da una prospettiva che non mi apparteneva, un occhio che avevo faticato a riconoscere e che mi aveva mostrato dettagli ai quali non avevo dato importanza. Dialoghi, scontri, atteggiamenti che qualcuno, al mio posto, sembrava aver assimilato meglio di me.
Mi ero voltata a guardare Cole, al mio fianco, che riposava nudo disteso tra le lenzuola. Sembrava sereno, probabilmente soddisfatto come sempre. Il petto si sollevava e si abbassava in un respiro tranquillo e regolare, impercettibile. Dallo spiraglio delle tende potevo scorgere la magnifica vista notturna sulle rovine di Manhattan che c’era da quell’altezza.
Non ero nella mia stanza, ma in quella del Capitano, situata sul lato che affacciava sulle apatiche acque nere dell’Hudson. L’Isola era un insieme confuso di macerie e grattacieli decadenti, bucherellati dai missili militari e ridotti come una groviera. Il cielo era ancora coperto di nuvole gonfie di virus, il silenzio era tombale in tutto l’edificio.
Lentamente ero sgattaiolata fuori dalle coperte. I poteri che mi erano stati tolti non mi permettevano di scorgere oltre il mio naso, e la prima cosa che mi capitò tra le mani con cui vestirmi fu parte della mia biancheria, i pantaloncini della mia uniforme e la camicia di Cole. Ero uscita dalla stanza scalza, arrotolandomi le maniche sino ai gomiti, e avevo attraversato metà base arrivando agli ascensori.
La mia destinazione era uno degli ultimi piani e per arrivarci non avevo la minima intenzione di usare le scale. Inutile dire che dopo aver perso i poteri, ero diventata una ragazza molto pigra, nel costante timore, come tutte le donne, di ingrassare.
Mentre ero nella cabina dell’ascensore che saliva troppo lentamente sui binari per i miei gusti, mi ero presa del tempo per riflettere su cosa stessi facendo di preciso e se era giusto farlo. In mente avevo una vaga idea di dove fossi diretta o cosa vi avrei trovato. Avevo raccolto informazioni qua e là per la base durante le anomale giornate in cui facevo due passi per il corridoio fuori dalla mia stanza, ma non oltre.
L’ascensore aveva raggiunto la sua meta, si era fermato e aveva aperto le porte. Il grosso portellone a doppia anta che mi si era parato dinnanzi era sorvegliato da un pannello di sicurezza, accompagnato da un touch-screen.
Mi ero avvicinata all’impianto e avevo fissato allungo gli spazi vuoti da riempire con un codice di otto cifre. Ricordando che Lewis aveva chiaramente detto di non aver cambiato le password, ero perfettamente in grado di aprire il portellone al primo colpo.
La sala che mi si era spalancata davanti al naso era il laboratorio dell’ultimo piano avvolto dall’oscurità, fatta eccezione per le celle allungate di vetro che andavano dal pavimento al soffitto, riempite di quel particolare liquido bluastro fosforescente che dava luce propria al salone.
Mosso un passo nel laboratorio, il portellone si era richiuso alle mie spalle con uno fruscio. Ero piombata nell’oscurità, mentre il bagliore azzurrognolo delle celle m’invadeva il volto e mi faceva luccicare gli occhi della stessa tonalità.
I 200 tubi erano disposti a piramide, la cui base toccava la parete molto infondo. Nel centro, come vertice, sorgeva un contenitore riempito di liquido bianco luminescente, sicuramente più brillante degli altri. Anche da quella distanza non mi fu difficile riconoscere solo una trentina di corpi dormienti, incubati dalla testa ai piedi, nei 199 contenitori retrostanti. Gli Angeli del futuro erano in quello stato vegetativo da due settimane e presto o tardi avrebbero visto l’alba sotto una luce del tutto nuova. Le sensazioni provate quei giorno stavano tornando a mordermi la pelle: le ossa che si spostano, i tessuti che invigoriscono, i muscoli contratti senza che il cervello lo ordini. E poi i calci dati al vetro, i lamenti, le punture di tutti quegl’aghi sulla pelle.
Scuotendo la testa avevo scacciato quei ricordi e, passandomi una mano tra i capelli, li avevo stirati all’indietro.
Il mio sguardo si era posato a quel punto sul contenitore nel vertice della piramide, occupato da un corpo di carnagione chiara, che sembrava un tutt’uno col liquido luminescente che lo avvolgeva. Era un uomo sulla ventina, dai muscoli ben sviluppati, i capelli corti, gli occhi chiusi; braccia e gambe mollemente abbandonati a galleggiare nelle acque che lo tenevano prigioniero, mentre una dozzina di sonde lo intrappolavano e altrettanti aghi lo pungevano in più punti. Dai polsi alle caviglie, dal petto ai fianchi: era incubato peggio di un vegetale, e dato il colore dei numerosi tubicini che lo pungevano, donava o riceveva continuamente del sangue. Alzando lo sguardo, avevo compreso che il vertice della piramide era collegato attraverso una struttura reticolata a tutti i contenitori dietro di esso. Avevo provato un immenso rigetto a quella concezione, ma non riuscivo comunque a credere ai miei occhi.
Alex Mercer era diventato la pappa reale di un centinaio di larve.
Avvicinandomi ulteriormente alla cella che lo imprigionava, avevo provato a sforzarmi di comprendere come fosse possibile che il possente e minaccioso Alex Mercer era stato ridotto in catene e sparpagliato come semi alle galline del pollaio. Col sangue che scorreva in quei tubicini, capii, Alex stava alimentando la crescita della nuova generazione di Angeli, allo scopo di costruire un esercito di reclute munite delle sue più temibili capacità.
Avevo rabbrividito violentemente, sentendo l’improvviso bisogno di mettermi seduta perché le gambe non reggevano. Ero lentamente scivolata in ginocchio ai piedi della cella di Zeus, posando una mano sul vetro e mormorando a fior di labbra le parole “mi dispiace”, mentre il primo singhiozzo m’incrinava il respiro e la prima lacrima mi solcava la guancia.
Avevo preso a piangere come una fontana, infischiandomene apertamente se nel laboratorio c’erano telecamere o qualcuno dei soggetti fosse sveglio. Il freddo del pavimento sui cui mi ero abbandonata mi aveva presto fatto salire i brividi fino alla spina dorsale, bagnando il vetro delle mie lacrime.
Erano trascorsi diversi minuti, forse un’ora, durante la quale avevo rivissuto quanto di quell’avventura mi aveva fatto sentire meglio. La vittoria che io e Alex avevamo sognato assieme si era definitivamente estinta, sia per l’uno che per l’altra. Non c’era più nulla che restasse da fare a nessuno dei due. Ormai le nostre vite avevano preso quella piega insolubile degli eventi, ormai prigionieri del destino che ci aveva riservato tante terribili sorprese.
Ma alla plastilina doveva ancora essere aggiunto un ultimo colore. Solo allora il quadro sarebbe stato completo. Il colore mancante era niente popò di meno che il nostro legame, già avvenuto in passato, quando Alex aveva tentato di assorbirmi.
Da quel momento, nonostante la trasfusione avvenuta con successo e i miei poteri scomparsi, le nostre essenze erano rimaste ugualmente legate l’una a quella dell’altro con un filo sottile a tal punto da non poter essere scorto ad occhio nudo. Per tanto, chi aveva provato a tagliarlo, aveva calato il coltello alla cieca e, presto o tardi, si sarebbe accettato un dito da solo.
Serrando la mascella, mi ero alzata da terra ed avevo camminato spedita verso il pannello di controllo che ricordavo di aver visto usare dagli scienziati la prima volta che anch’io ero stata in quelle celle liquide. Avevo inserito la password, selezionato i comandi e avviato il processo di interruzione della prima cella.
Il vertice della piramide aveva cominciato a  svuotarsi del liquido bianco, e lentamente il corpo di Alex veniva attratto verso il basso dalla forza di gravità. Quando tutta l’acqua fu assorbita dai condotti secondari, Mercer era rimasto sospeso con le punte delle dita dei piedi a pochi centimetri dal fondo della vasca, poiché alcune delle sonde più solide avevano resistito e non si erano staccate dal su corpo. Le braccia sollevate gli conferivano l’aspetto di un Crocifisso. La testa gli cadeva in avanti, centinaia di gocce argentate gli correvano lungo il profilo dei muscoli o scivolavano via dai capelli umidi.
Dal pannello di comando mi ero sbrigata ad attivare il controllo che aprisse il vetro della vasca. Trovato il comando, lo avevo attivato inserendo nuovamente la password. Poi i due strati di vetro sovrapposti che rinchiudevano Mercer avevano girato su se stessi, aprendo, in fine, un varco.
Mi ero gettata in quella direzione e, salendo sul fondo della vasca, avevo staccato con violenza le restanti sonde che tenevano Alex penzolante come Gesù Cristo. Gli aghi venivano via dalla sua pelle non senza un’abnorme concentrazione di forza, cosa che io stentavo ad avere dato i miei mancati poteri d’Angelo. Sfilato l’ago che gli inchiodava il braccio destro, questo si era riversato lungo il suo fianco nudo ed Alex aveva penzolato sulla destra. Nel gesto di sfilare anche l’ultimo ago dal braccio sinistro, il corpo privo di sensi di Alex mi era caduto addosso con tutto il peso dei suoi muscoli. Ero crollata sul pavimento, il suo incarnato mi schiacciava ma io, esausta, non ero in grado si smuoverlo. Alcuni istanti più tardi, dopo aver riacquistato un minimo delle mie forze, avevo tentato nuovamente si scansarlo da me, ma Alex aveva aperto gli occhi e mi fissava in modo confuso, probabilmente dal fatto che fosse (nudo) steso sopra di me.
Rabbrividendo, l’avevo scansato prima che potesse farsi chissà quali idee perverse, ma il ragazzo impiegò una frazione di secondo per tirarsi in piedi, sgranchirsi muscoli ed ossa e testare uno ad uno i poteri ancora in suo possesso. Alex aveva scelto bene di rivestirsi della sua armatura.
Terribilmente imbarazzata per come era avvenuto il suo risveglio, ero indietreggiata aspettando pazientemente che fosse lui a chiedermi una spiegazione.
Quando Alex si era voltato a guardarmi, i nostri sguardi erano rimasti incatenati un istante lungo un’eternità. Poi Zeus era tornato a guardare la struttura piramidale delle vasche davanti ai suoi occhi.
-Dove siamo?- aveva chiesto.
-Questo è il laboratorio centrale. Qui Lewis ci crea- gli avevo risposto, intimorita, ma sottolineando ugualmente il termine usato.
-Cosa ci facevo io… lì?- aveva domandato poi indicando i tubi e le sonde scollegate che penzolavano nella vasca vuota.
-Non lo so… questo non lo so, di preciso. Credo che Lewis voglia usarti per rafforzare i suoi Angeli, ma non avrebbe senso!-.
-Perché?-.
-Ha confessato che l’unico scopo degli Angeli è quello di trovarti ed eliminarti, Alex. Se sei ancora vivo, c’è qualcosa che non torna-.
-E tu cosa ci fai qui?-.
A quella domanda avevo esitato.
Non c’era un vero motivo per il quale fossi lì e avessi deciso di liberarlo. Avevo scoperto per caso che era vivo, non avrei mai pensato di trovarlo nei laboratori, dove invece ero diretta al solo scopo di conoscere la nuova generazione di Angeli prima di lasciare definitivamente la base.
La mia partenza era già fissata!
-Non lo so- avevo ripetuto.
-Perché mi hai liberato, allora?- sembrava divertito nel farmi quelle domande.
Avevo scossa la testa.
-Te lo dico io perché, Emily: hai scoperto che il mondo che ti gravita attorno non è quello in cui vorresti vivere-.
-Come fai a dirlo?- ero sbalordita, scettica.
-Questa è una domanda molto stupida- aveva ridacchiato.
Finché volavamo basso, nessuno ci avrebbe dato fastidio. Potevamo rimanere a parlare anche tutta la notte nel laboratorio. Per quanto il sistema fosse automatizzato, nessuno passava mai a controllare i progressi una volta che il processo di alimentazione partiva. Però cominciavo seriamente a pensare di aver compromesso la crescita di quegli Angeli… infondo, avevo interrotto la loro colazione.
Continuavo a non capire.
-Ti avranno pure fatto il lavaggio completo, Emily, ma non hanno cancellato la tua memoria, e siccome una parte di essa è ancora dentro di me, la nostra linea privata è ancora attiva-.
Parlava di linea privata come se fosse un canale alla televisione oppure una rete telefonica. In realtà, le nostre menti non potevano funzionare diversamente. Io e Mercer avevamo ancora della plastilina da modellare insieme.
-Il sogno… sei stato tu a…- non ero riuscita a concludere, che Alex aveva annuito.
-Elizabeth riusciva a controllare le sue creature con la forza della mente e il legame attraverso il sangue. Noi non siamo da meno, seppur in modi meno incisivi-.
Ero strabiliata.
Alex doveva inoltre essersi accorto che c’era qualcosa di strano in me. Aveva accennato ad un “lavaggio completo”, pertanto gli era bastato annusare l’aria che mi circondava per accertarsene.
-Sei tornata umana- aveva commentato con una nota amara nella voce.
Avevo annuito, appiccicando a quel gesto un flebile “sì” appena sussurrato. Se da una parte ero immensamente triste di ciò, dall’altra sentivo che era giusto così.
-Quindi vai via… lasci la base- aveva intuito.
-Non c’è più posto per me-.
-E il tuo Capitano? Cole?-.
-T’interessa davvero?-.
Alex si era stretto nelle spalle. –Un po’-.
-Lewis mi ha raccontato dei piani futuri di tutti i miei compagni di squadriglia. Alcuni combatteranno ancora, altri prenderanno un’altra strada… Cole… lui, be’… forse mi seguirà, forse no-.
-Non hai l’aria di una che ci ha scambiato due chiacchiere molto spesso-.
Avevo sorriso. –In compenso ho scambiato due chiacchiere con te-.
Alex aveva tenuto silenzio per qualche secondo. Nascosto nella sua armatura, non riuscivo a guardarlo in faccia, a leggere il suo viso. –Che cosa farai, domani?- aveva chiesto, a sorpresa.
-Probabilmente quando mi sveglierò nella mia stanza, mi laverò, vestirò, farò la valigia, raggiungerò la piattaforma sul tetto e salirò sull’elicottero che mi porterà nella casa del mio ex ragazzo (morto) a Brooklin. Tu, invece… cosa farai?-.
Alex aveva esitato un istante, impassibile, immobile come una statua. –Non me ne andrò da qui, se è quello che pensi. Non perché non voglia, non perché non posso farlo. Dov’altro potrei andare? Hanno ancora mia sorella e non esisteranno ad assottigliare la posta in gioco. Mi ricattano, Emily, se sono ancora qui è solo grazie al loro poco senso umanitario. Credi che non abbia già tentato di fuggire? In tutti questi mesi, credi che non abbia cercato di ribellarmi? Ci ho provato, ma tutte le volte tornavo indietro sui miei passi di mia stessa volontà. Non posso alzare un dito prima che loro ne stacchino uno a mia sorella. Non so dove la tengono, non so cosa le fanno, e non voglio nemmeno pensarci-.
-Posso aiutarti a trovarla! Posso portartela qui! Alex, devi andartene!-.
-È qui che sbagli, Emily. Chi ti dice che devo andarmene? Sono stanco di combattere. Come lo ero due anni fa, loro sono ancora. Se questo è un modo più semplice di affrontare il virus, allora ben venga che mi succhino fino all’ultima goccia di sangue! Comunque vadano le cose, non sarei mai capace di fare qualcosa di più utile. Adesso va’, torna da Cole, parti, va’ a casa, riposati. Te lo meriti-.
Lo avevo guardato allungo, sconvolta, a bocca aperta e gola asciutta. Non riuscivo a credere alle mie orecchie.
-Ora, per cortesia, saresti così gentile da…- aveva indicato il pannello di controllo, spogliandosi dell’armatura e rientrando nella vasca, approfittando del fatto che fossi voltata.
Come un fantasma, ero andata verso i comandi e avevo inserito nuovamente la password, confermando il processo di riempimento. Alex, rinchiuso tra le pareti di vetro, era rimasto immobile, fissandomi dall’interno della sua cella. Con un semplice clic, avevo riattivato le sonde e gli aghi che erano tornati a penetragli la carne. Un po’ ne aveva sofferto, ma tutto quello che gli avevo appena sentito pronunciare continuava a martellarmi le tempie. Il nostro legame mi suggeriva di interpretare le sue parole nel modo inverso. Quello che avevo di fronte era terribilmente incoerente con l’Alex Mercer al quale avevo stretto la mano.
“Comunque vadano le cose, non sarei mai capace di fare qualcosa di più utile.”
“Che mi succhino fino all’ultima goccia di sangue!”
“Non me ne andrò da qui, se è quello che pensi.”
“Sono stanco di combattere.”

Mentiva.
Mentiva spudoratamente.












Angolo d’Autrice:
Ok, raga! Ci siamo! Mancano 2 capitoli alla conclusione di questa storia, un altro, e l'epilogo.
Sono felice di notare (ma proprio felice felice, visto che siamo in termini di bugie <.<) che la Saphira87 è scomparsa! °A° Ma come?! Era la ultrà più accanita!
In compenso, sia io che Emily ringraziamo renault e SnowDra1609 per i commenti.
Aprendo una piccola parentesi qui, adesso, seduta stante, ci tenevo ad informarvi di due cose: il capitolo che avete appena letto è lungo 10 pagine! XD E vi meritereste un premio! Come seconda cosa, il capitolo che avete appena letto è un colossale flashback di Emily che, nella sua stanza il giorno della partenza, ripensa a tutto ciò che è successo (in modo un po’ riassuntivo, fatta eccezione per l’ultima parte e nel dialogo con Mercer). Ve ne sarete senza dubbio accorti dalla struttura imperfetto-trapassato prossimo che ho usato nei momenti in cui Emily racconta di sé, con qualche piccola svista dove i trapassati prossimi tramutano magicamente in passati remoti! XD Se leggete molti libri, sapete a cosa mi riferisco.
Ulteriori chiarimenti?
Naaaah! Almeno per ora non me ne viene in mente nessuno! XD

   
 
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