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Autore: sorika    12/05/2010    2 recensioni
Ma una luce le ferì le palpebre e la costrinse ad aprirle. Quando vide davanti a sé il mondo da cui era fuggita, il mondo per cui aveva ostinatamente chiuso gli occhi capì.
Genere: Triste, Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Naminè, Zexyon
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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ballerò sulla tua tomba

Ballerò sulla tua tomba

 

©Kingdom Hearts. Square Enix.

 

Quando i suoi occhi si erano aperti per la prima volta e avevano osservato il mondo in cui viveva, il modo in cui viveva, si erano immediatamente richiusi, costringendola in un buio opprimente da cui non riusciva ad uscire.

 

[Questo mondo, mi ferisce]

 

Aveva vagato senza meta, in quel buio opprimente che le stringeva forte i polmoni, fasciata da un abito bianco come il latte e si era incamminata, alla ricerca di una luce che le schiarisse le idee e le illuminasse i passi.

 

[Vagavo, vagavo senza vedere nulla.

 Il buio era freddo]

 

Camminava con passo malfermo, intonando note di quel mondo che i suoi occhi le avevano fatto disprezzare e rigirandosi fra le dita una ciocca di biondi capelli, pensando a tutto quel freddo e al suo vestito, troppo bianco e troppo leggero per poterla scaldare.

 

[Non potevo essere scaldata.

Io non ero viva]

 

Camminava sempre, di notte, di giorno, con il vento, con la pioggia, con il sole, con le stelle, con il caldo, con il freddo, con le nuvole, con la neve.

 

[In tutto quel buio avevo imparato a distinguere le cose.

Sapendo che erano inesistenti]

 

 Il buio diventava sempre più fitto, sempre più angusto e quando i piedi le facevano terribilmente male tremava al pensiero di fermarsi e lasciarsi opprimere.

Così non smetteva mai, di passeggiare in quell’oscurità scura e fredda che aveva imparato a chiamare casa.

 

[Non sapevo come erano fatte le case.

Quella la consideravo tale solo per non sprofondare

Nella pazzia]

 

Poi, quando i suoi piedi  iniziarono a lasciare dietro di sé delle strisce rosse di sangue fresco, la vide, brillante, lucente: la luce che tanto aveva bramato.

Allungò le mani verso di essa ma, quando ne sfiorò la superficie labile, fu costretta a richiudere gli occhi, ferita da tanta bellezza.

 

[Solo allora capii che quella si chiamava vita.

                                       E mi sorse una domanda:

Cos’ero io prima di incontrarla?]

 

Ci aveva messo un po’ a riabituarsi, a dimenticare il dolore dei piedi e il dolore degli occhi e ad osservarla.

La guardò come fosse stata la cosa più meravigliosa del mondo e se ne sentì quasi pervadere. Era bianca, monocromatica, e pensò che fosse intonata al suo vestitino.

 

[In fondo, era più attraente il bianco che il nero

angosciante dell’oscurità.

Per evitare la delusione mi dissi che avrei imparato ad amarla]

 

Fu quando scoprì che la sua anima era monocromatica come quella luce che capì di non aver mai veramente aperto gli occhi.

E la frustrazione che provò la scaricò su un blocco da disegno, posto su un inspiegabile tavolo bianco saltato fuori dal nulla.

 

[Bianco, nero. Che differenza c’era?

Io non potevo scegliere]

 

Disegnare era diventata la sua missione di vita, in quel mondo che si era improvvisamente colorato di bianco, nascondendo il nero dietro le ombre del suo profilo intento a tracciare visi di persone simili a lei.

 

[Non sapevo chi erano le persone.

Se io lo ero, significava che erano come me]

 

Imparò a godere del suono della propria voce, delle sue risate cristalline, della malinconia che le offuscava la vita e le stringeva la gola, facendole diventare la propria forza.

Se avesse dovuto vivere lì, in quel mondo che non le suggeriva niente, allora voleva assicurarsi che fosse il più ospitale possibile.

 

[Perché avrei dovuto viverci io.

E le miriadi di persone che avevo creato]

 

Iniziò ad attaccare i propri disegni sulle pareti, riempiendo ogni singolo spazio che lasciava vuoto, assicurandoli alla parete con doverosa pazienza.

Quel mondo claustrofobico sarebbe diventato colorato e alla fine lei sarebbe morta felice.

 

[Perché lo sapevo, che sarei morta.

Era questione di tempo.

E io non volevo andarmene impreparata]

 

Poi, quando le speranze iniziarono a vacillare e a cadere, spezzandosi in milioni di frammenti che non riusciva a riunire, successe qualcosa.

 

[Capii subito che era una persona.

                        E mi chiesi:

                  le persone sono diverse l’une dalle altre?]

 

Aveva lo sguardo di chi ha visto troppi orrori e il viso di un giovane ragazzo strappato alla propria infanzia e costretto a crescere prima per essere degno della situazione.

Successe qualcosa dentro di lei e il bianco e il nero che si contendevano il posto nel suo cuore lasciarono spazio ad un altro colore,monocromatico come gli altri: il grigio.

 

[Non mi importava che colore fosse.

Sapere che ne esistevano altri mi bastava]

 

Era un ragazzo silenzioso ed introverso. Non parlava mai e l’unica volta che l’aveva fatto era stato per chiedere scusa del disturbo.

Ma lei non gli aveva nemmeno dato retta e l’aveva guardato curiosa.

“sei una persona?” chiese timida, stropicciando la gonna del vestito.

“sì” rispose e lei pensò che parlare con gli altri fosse la cosa più bella del mondo.

“non ho mai conosciuto delle persone prima”.

“impossibile”

Lei lo guardò corrucciando le ciglia, quasi offesa da quell’affermazione.

“ti dico che è così”

“non lo ricordi, ma le hai conosciute e ci hai parlato, giocato, scherzato” rispose, monocorde quel ragazzo, inclinando la testa da un parte, per guardarla meglio e spostare il suo ciuffo di capelli dalla parte opposta del viso.

“perché dici così?” piagnucolò lei tremando.

“perdonami. Non volevo offenderti”

E lei ritrovò il sorriso.

 

[Non potevo offendermi con quella persona.

Era vera ed era come me.

Fatta di ossa, carne e sangue]

 

Lui guardò i muri, distogliendo lo sguardo dall’ esile figura della ragazza che, sentendosi improvvisamente sola, scrollò le spalle e chiese:

“hai un nome, persona?”

Lui sembrò vederla per la prima volta, spostando di nuovo il suo sguardo sul corpo di lei, così acerbo e spigoloso da sembrare doloroso.

“mi chiamo… Zexion” e le si avvicinò.

“Zexion…” ripeté lei estasiata.

“già” affermò lui, accarezzando una parete con le dita affusolate “e tu? come ti chiami?”

“io?” domandò lei, indicandosi  il viso, stupita.

 

[Io non avevo un nome.

Nessuno me l’aveva dato e io ero troppo sola

per pensare ad un nome da darmi]

 

“io non ho un nome, Zexion” disse lei, quasi pentita per non potere ricambiare quella domanda.

Lui nemmeno si scompose, pigiando un dito sui disegni.

“chi sono?” domandò indicando delle persone che ridevano, immortalate in un disegno scolorito che ricadeva molle da un lato.

“persone felici” rispose lei, triste.

“persone…” disse lui, tornando a guardarla, soffermandosi sul suo viso e su quegli occhi blu accecanti.

“hai mai conosciuto le persone?” chiese lei, avvicinandosi a lui ma non abbastanza per considerarlo reale.

“sì” e lei lo invitò a proseguire.

“non ti piacerebbero. Non piacciono a nessuno quelle persone”

“perché no? Quante persone ci sono fuori di qui?”

“tante. Forse troppe. E si distinguono”

“distinguono?”

Lui aveva annuito e, con una semplicità che lei ritenne volgare disse:

 “tu per esempio sei come me. Una persona senza cuore”

Fu come una doccia fredda e la ragazza sentì di nuovo freddo.

 

[Stava tornando tutto nero.

Avevo paura]

 

Si dovette sedere, reggendosi la testa tra le mani piccole e bianche.

Rialzò lo sguardo su di lui solo quando ebbe la certezza che non la guardasse.

“cosa significa?”

“noi siamo le ombre delle persone con i cuori. Viviamo per cercare le nostre metà e galleggiamo in un oscurità per la maggior parte del tempo” la fissò cercando conferma nei suoi occhi di quel periodo.

Lei li abbassò, colpevole.

“poi loro ci trovano. Sentono il bisogno di riaverci e tutto… diventa bianco”.

Non le importava del perché la sua stanza, il suo mondo fossero bianche, lei voleva sapere perché non aveva il cuore.

“Ma perché siamo senza cuore?”

Lui impercettibilmente sorrise e lei pensò a quanto fosse bello un sorriso.

“perché noi non ne abbiamo bisogno. Noi possiamo fare a meno dei sentimenti”

“e se io li volessi?”

“dovresti ricongiungerti con l’altra te stessa” suonò come un ordine e lei si rabbuiò.

 

[Sentimenti? Cos’erano, i sentimenti?]

 

“Non ho mai provato dei sentimenti” pigolò lei, facendo un passo indietro quando lui, distratto, le passò vicino, sfiorandola con la veste nera.

“no, infatti. Senza cuore non ti è possibile provarli”

“eppure” disse arrossendo “ho paura di te”.

“la paura che dici di provare, è un eco di quella vera. La sua… ombra”

 

[Era stato così che avevo capito

il significato della mia esistenza.

E pensai che un pugno sarebbe stato meno doloroso]

 

Non disse più niente e lo lasciò girovagare per la stanza, sentendo le dita di lui toccare i foglio e lisciarli con doverosa dolcezza.

Quei tocchi, ben presto, li sentì sulla propria pelle e se ne spaventò.

Indietreggiò ancora, calpestando il pavimento bianco e cercò di allontanarsi da quella figura, da quel ragazzo così calmo.

“ho trovato” disse poi lui, avvicinandosi a lei abbastanza da sentirne il flebile calore:

 “ti ho trovato un nome”.

Lei sgranò gli occhi, rendendosi conto solo in quel momento che lui era vicino, vicinissimo e aveva paura.

“un nome?”

Lui annuì e le strinse le spalle facendola tremare.

“ti chiamerai… Naminé”

 

[Fu così che incominciò la nostra strada insieme.

Io mi sentivo sua e lui si sentiva abbastanza vicino a me da lasciarsi considerare mio]

 

C’era sempre qualcosa di nuovo da imparare nella casa che Zexion aveva detto di chiamare “Castello dell’Oblio”.

Aveva imparato a disegnare ricordi di persone che non conosceva, a manipolarli anche e lui era fiero di lei, quasi orgoglioso di quel potere che sviluppava man mano che il tempo passava e lei era felice, o solo fintamente felice, che lui la considerasse importante.

Non parlavano mai degli altri, come li chiamava lui, semplicemente perché non c’era bisogno di ricordare che loro non erano nessuno.

 

[Mi disse che dovevo considerarmi un Nobody.

Il suono della parola mi piacque talmente tanto,

che non badai al significato celato dietro]

 

La sua vita o la sua esistenza, iniziò a colorarsi e a diventare un arcobaleno di luci e suoni che la facevano sentire immensamente allegra.

In più quel nome così particolare che Zexion le aveva dato, osservando i suoi disegni, le riempiva il vuoto nel petto di una strana sensazione che gli altri avrebbero definito Amore.

 

[Zexion non amava quella parola e,

io cercavo di usarla il meno possibile]

 

“Zexion?” chiamò lei, un giorno, fissando il suo viso intristito.

“parto” disse lui con quella schiettezza che le feriva la pelle e la faceva bruciare.

“e dove vai?” continuò lei, pigiando un pastello rosso sul foglio.

“a combattere” la sua voce risuonò stanca e Naminè poggiò una mano sulla sua.

“sei preoccupato?”

“no”.

Naminè si diede della stupida e continuò a colorare mentre lui, senza farsi troppi scrupoli disse, freddo:

“potrei morire o forse morirò davvero”

“morirai?” ripeté Naminè sconvolta.

 

[Avevo dimenticato l’esistenza della morte.

Era troppo il tempo che avevo vissuto lontano da lei per ricordarla.

Eppure, il suono della sua parola, mi fece rabbrividire]

 

“Già, morire. Perché alla fine la mia ora è giunta”

“m-ma.. Zexion! Non puoi morire!”

Era una cosa assurda, quasi paradossale e Naminè pregò che fosse uno scherzo.

“non posso dici? E chi me lo impedirebbe?”

Lei non riuscì a rispondere, fremendo a tanta freddezza.

Fu quasi inconsapevole quando gli tirò uno schiaffo sulla guancia e gli disse:

“io, io te lo impedisco! Perché senza di te sono persa! Perché senza di te il mio mondo torna bianco! Perché sei diventato importante per me! Perché ti amo!”

Lui spalancò gli occhi, toccandosi la guancia arrossata e la guardò, così piccola ed eterea in quel vestito bianco come il latte.

“vorrei che fosse vero…”

Lei volse gli occhi al cielo.

 

[Per lui era tutto irreale e il mio sforzo di rendere tutto diverso,

 non faceva altro che far peggiorare la situazione.

Salvarsi non rientrava nei suoi piani,

perciò non sarebbe rientrato nemmeno nei miei]

 

“E’ vero Zexion! Perché per una volta non cerchi di guardarmi in modo differente?”

Lui si alzò e, a dispetto di quello che credeva lei, la strinse tra le braccia, in un modo così disperato che le fece venir voglia di piangere.

Ma si trattenne.

“se non dovessi tornare, se non tornerò, tu sarai triste?”

Naminè sentì dentro di sé un impercettibile incrinarsi di qualcosa e dovette respirare più volte prima di sussurrare, contro il suo petto:

“sì, Zexion. Soffrirei”

Lui aveva sorriso e l’aveva baciata, freddo e sterile, con una calma che a lei suggeriva solo paura.

 

[Eppure la paura non la potevo provare.

Eppure c’era e mi infreddoliva le ossa]

 

“Devo andare” aveva detto poi lasciandola libera.

“Non andare”

Lui le sorrise, un sorriso che per la prima volta le scaldò il vuoto nel petto.

“addio, Naminè”

Nonostante stesse per andare lontano, Naminè pensò che il suo nome, tra le sue labbra era bellissimo e tentò di imprimerselo nella testa per ricordarlo e sentirsi felice.

 

[Quella sera piansi.

Versai tutte le lacrime che non avevo mai versato e

pronunciai il suo nome tante volte.

Mi addormentai sul disegno di noi due abbracciati]

 

La mattina successiva alla sua partenza Naminè disegnò, disegnò e disegnò finchè le mani non presero a dolerle e a sanguinare.

Ma non le importava e continuò a colorare gli occhi azzurri di lui e il suo sorriso dolce, così raro da essere un ricordo effimero.

Solo dopo aver tracciato la riga definita del suo viso sentì quel qualcosa dentro di sé incrinarsi di nuovo e si portò una mano al petto, preoccupata.

 

[Credetti fosse il cuore e tenni la mano sopra di esso

 finchè non mi calmai]

 

Poi, mentre finiva i contorni di un vestito rosso sentì chiaramente lo spezzarsi di qualcosa e si sentì male, malissimo, perché il pensiero volò subito a Zexion.

Al suo combattimento e, seppur per un secondo, pensò che fosse morto.

Fu con fatica che scrollò le spalle e riprese a disegnare. Le mani rosse di sangue e colore.

 

[L’avevo capito subito che era successo qualcosa.

Ma nel mio mondo di cristallo mi ero illusa che tutto andasse bene]

 

Il tempo trascorse, da qualche parte in quel mondo le stagioni cambiarono, la sua giovinezza sfiorì facendola diventare donna e la consapevolezza che ormai Zexion non c’era più la fecero tornare lentamente nel buio che l’aveva tenuta prigioniera per tanto tempo.

Nemmeno si stupì quando, aprendo gli occhi non vide più niente.

Anzi, pregò di essere morta.

 

[Ma invece ero viva e vegeta,

sospesa di nuovo in quel posto freddo e opprimente che odiavo.

Fu solo la speranza che la mia esistenza stava volgendo alla fine,

che mi fece trovare quel posto meno inospitale di prima]

 

Riprese a camminare, a cantare canzoni mai sentite e a parlare da sola desiderando di nuovo la voce di Zexion che sussurrava il suo nome.

Si sentì una stupida quando scoprì di essersi dimenticata il suono della sua voce e pregò di risentirla, almeno un ultima volta.

La preghiera si spense con il suono dei suoi passi.

 

[Per me, alla fine non c’era niente.

Bianco. Nero. Grigio o Arcobaleno.

Io non potevo scegliere]

 

Fu quasi con sollievo che, dopo tanto camminare e pregare e sanguinare la vide.

La lapide con il nome del suo Zexion.

Gli si avvicinò, chiamandolo e, si inginocchiò lì  osservando la luce che ne proveniva.

Provò anche a toccarla ma sentì le mani ustionarsi.

Le ritirò offesa.

 

[Ma come potevo offendermi con una persona inesistente?]

 

“Zexion…” disse e la sua voce si disperse nel buio freddo del posto “mi hai lasciata”.

Niente rispose e lei, tenendosi il petto, accettò amaramente la certezza della sua morte.

“mi hai abbandonato…” disse, piangendo “lasciandomi in tutto questo buio, in questo freddo che mi gela le ossa e me le fa scricchiolare. Perché l’hai fatto?”

Batté i pugni sulla luce della lapide e le sue dita si arrossarono.

“ti avevo chiesto di non andare, di restare con me in mezzo al bianco. Perché te ne sei andato se sapevi che ti avrebbe atteso la morte?”

Allungò di nuovo le mani e digrignò i denti quando vide il sangue colare.

Pensò che presto si sarebbe annullata e, finchè non toccò il marmo freddo della lapide non le ritirò “io ti amavo e poco importava se non avevo il cuore. Non sono mai stata abbastanza vero? Mai alla tua altezza” e continuò a piangere, singhiozzando rumorosamente, con le mani strette al petto che deturpavano il bianco candido della pelle e dei vestiti. “Se solo mi avessi considerata, se solo avessi potuto capire ciò che ti passava per la mente ora saremmo ancora insieme”.

 

[Ma sbagliavo e mentendo non avrei fatto risorgere nessuno.

Perché, in fin dei conti, nessuno era morto]

 

“me lo dicesti tu un giorno: il buio è la prerogativa di chi dorme. Io non sto dormendo ma intorno a me è tutto buio” carezzò la scritta del suo nome e si asciugò le lacrime, sporcandosi il viso con il sangue “forse, me lo dicesti perché in realtà sto dormendo e questo non è altro che un sogno?”

Il silenzio più assoluto le rispose e lei si sentì sconfitta, sola e distrutta.

Con tocco malfermo, riuscì a mettersi in piedi.

“Eppure non sono arrabbiata con te, Zexion” osservò la lapide e poi le sue mani “no, non lo so e per ringraziarti di tutto, ballerò per te, qui, sulla tua tomba”.

 

[Amava vedermi ballare e io amavo il fatto di portelo fare

 senza essere osservata]

 

E intonando canti antichi, cimeli della sua memoria, prese a ballare, muovendo i piedi a ritmo delle parole che scandiva, volteggiando nel fruscio di seta che provocava.

Non si fermò e i piedi presero a dolere e ad insozzare la lapide con il sangue ma non le importò. Per Zexion, questo ed altro.

Si mosse a ritmo di un suono sconosciuto che forse non proveniva nemmeno più da lei.

Continuò per giorni senza mai smettere, senza mai neanche soffermarsi a guardare la pozza in cui stava lentamente affogando.

 

[Giurai a me stessa che,

finchè avrei avuto anche solo una goccia di sangue in corpo,

avrei continuato a ballare.

Per lui, per me e per il nostro amore mai sbocciato]

 

Anche quando sentì le forze venir meno non smise e gridò a voce più alta le parole che cantava, sentendosi ad un tratto leggera e pensò di volare.

I piedi non li sentiva più, l’odore del sangue le aveva annebbiato i sensi e le mani, stanche, continuavano a muoversi con il suo corpo, così debilitato, così spigoloso.

Guardò una volta sola in basso e quando vide il sangue estendersi fin’oltre il buio, aumentò il ritmo. Niente le era parso più sollevante.

 

[Avevo male dappertutto ma non mi importava.

Quel semplice dolore avrebbe distratto la mia mente da tutto quel nero]

 

Quando alla fine tutto in lei perse vigore, si lasciò cadere a terra, sentendo il viso affondare in quella melma liquida di sangue fresco.

Provò ribrezzo e disgusto ma non si scansò e lo bevve, avida, nonostante le venisse da rigettarlo. Si ripeteva che per Zexion poteva fare qualunque sacrificio e quando la gola cominciò a pizzicare per il sapore amarognolo, vi inzuppò i capelli liberando i polmoni da una risata cristallina che rimbombò nel buio opprimente.

Chiuse gli occhi e il buio la sovrastò.

 

[Non importava. Volevo la morte.

Averla era stata la realizzazione di un sogno]

 

Ma una luce le ferì le palpebre e la costrinse ad aprirle.

Quando vide davanti a sé il mondo da cui era fuggita, il mondo per cui aveva ostinatamente chiuso gli occhi capì.

 

[La mia altra mi aveva trovato. Ora ero veramente morta.]

  
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