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Autore: Lady_Draconibus    29/08/2005    1 recensioni
Eccola qui! Questa è la mia seconda storia. Era pronta da un pò ma l'ho rivista più volte prima di essere sicura. E poi c'è stata tutta una serie di casini, il trasloco eccetera e nn ho potuto pubblicare, ma ora... Ebbene, questa fic è il prequel di un'altra a cui sto lavorando insieme alle menti malate di Eledh e Elfa, ma visto che in tre NON facciamo un cervello, aspettatevi di tutto. (Ah, ho messo non minori di tredici, ma è solo x precauzione, anche se sarà su uno stile molto più duro dell'altra mia fic) Questa è la storia di Ghiliat, una maiar, creata per combattere l'oscurità di Morgoth, in tempi tutt'altro che facili per la Terra di Mezzo, quando Arda era ancora giovane...
Genere: Avventura, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Due paroline veloci veloci prima di lasciarvi alla lettura.

Intanto mi scuso con Lin e Los (o Elfa e Eledh, che dir si voglia) Per la mancata scena di sesso. Non linciatemi ragazze, ma il capitolo rischiava davvero di diventare infinito!

Poi, volevo avvisare che ho fatto una piccola piccola citazione: il nome di una delle due ancelle, Calacalen, è presa da una fic di Hareth, Harma Ondo. È il nome elfico della protagonista (co-protagonista, forse è meglio, xkè a modo loro, lo sono tutti lì!) di questa bella fic che consiglio a tutti di leggere!

Poi, avviso, x un po’ non aggiornerò, causa problemi all’ADSL che mi impediscono di utilizzare Internet, se non dall’internet point sotto casa! Chiedo perdono.

A parte questo, saluto tanto Giadina, che ad Aprile si sposa col mio fratellone (magari divento zia!), Elfotta, gli amici di là (commentate quando leggete, bastardi!) e soprattutto Losy e quanti commentano. Bacio Bacio! :-§

GGHGMenemelcar Ghiliat (Menemelcar Ghiliat)

O se preferite, Lady!

 

Cap. 2: Lame Gemelle.

 

Lanciai la corda oltre il Ginghilt. La freccia si conficcò nel tronco di uno degli alberi sull’altra sponda. La assicurai a un altro albero e strattonai, controllando che fosse ben assicurata. Lo era.

Vi balzai sopra, superando in corsa le acque. Misi piede a terra. Il Belerian Occidentale… ero più che a metà strada ormai. Continuai a camminare, nonostante la luna fosse ormai alta nel cielo. Le Falas… erano più di cinquecento anni che non tornavo laggiù! Era strano pensare che a capo di poche settimane avrei rivisto quei luoghi.

Ricordai il mio breve soggiorno laggiù: La pace che vi regnava. Le attenzioni di Gil-Galad. Erano anni che non ci ripensavo. Di solito non mi lasciavo andare ai ricordi…

Continuai a camminare. Non c’era alcun sentiero tracciato ma avevo percorso la Terra di Mezzo troppe volte per poter sbagliare strada. E luna e stelle mi guidavano, gettando una vaga luce argentata sul terreno e sulle foglie degli alberi radi, sui tronchi, sulle rocce… rendendole irreali, ma stranamente vividi, come se balzassero fuori dal tessuto scuro della notte.

Qualche ciottolo riluceva a terra come una pietra preziosa. Alzai gli occhi al cielo: le stelle brillavano nitide e fredde, così lontane e belle da far venire le lacrime agli occhi. Menemelcar… erano quelle stelle a darmi la vita. La loro luce. Finché avessero continuato a brillare, io avrei continuato a vivere. In qualche modo. Anche se il mio corpo fosse morto, il mio spirito avrebbe continuato ad essere legato alla Terra di Mezzo.

Solitamente non mi compiango, ma non potei fare a meno di pensare, che a me era negato anche quel riposo estremo. Avevo solo la certezza di potermi gettare a capofitto in battaglia, senza preoccuparmi di salvarmi o no. Perché non era importante la mia vita, per il fine. E io non avevo nulla da perdere.

Continuai a camminare.

Le Falas… sentire quel nome dopo tante tempo… era stato strano. Come se dovesse significare qualcosa che avrei dovuto sapere, ma che avevo a lungo dimenticato.

Era stato Manwe a mandarmi laggiù. Avevo sentito la sua voce nel vento.

“Dove devo andare? Dove mi porteranno i miei passi? Dove mi chiama il mio scopo?”

a Sud

dove il mare incontra la terra

laggiù.

Laggiù.

Dove la voce di Ulmo è più forte…

Laggiù…

Laggiù…

Come un sospiro nelle orecchie. Un’eco lontana.

Era sempre così che ricevevo le mie indicazioni, quando ero in dubbio. A meno che non ci fosse un’emergenza estrema, nel qual caso era lo stesso Eonwe a portarmi i messaggi dei Vala.

Camminai senza mai fermarmi. Per giorni. Incrociai il fiume Nenning e proseguii verso Eglarest.

Giorni e notti intere, mentre Anor e Isil si alternavano nei cieli. Andai avanti. Fino a che le gambe non mi ressero più.

Crollai a terra e mi concedetti riposo.

 

Eglarest.

Il più meridionale dei porti delle Falas.

Le sue mura bianche come l’avorio scintillavano al sole mattutino tanto da essere quasi intollerabili allo sguardo. Mi gettai il mantello dietro alle spalle, crogiolandomi al primo tiepido raggio del giorno. “Perché proprio qui?” mi ritrovai a chiedermi. “Perché mai i Vala mi hanno ordinato di raggiungere le Falas? Da quel che si dice, è una contrada ancora relativamente sicura… ci sono ancora tanti altri luoghi dove ci sarebbe bisogno di me…” Erano domande senza risposta. O meglio, ancora senza risposta. Come al solito, avrebbe dovuto essere il tempo a spiegarmi il perché di ciò che facevo.

Raggiunsi i cancelli della città. E fui bloccata. Due guardie mi impedirono l’ingresso, puntandomi contro le lance.

< Chi sei? E quali affari ti portano a Eglarest? > Chiesero bruscamente, avvicinandosi guardinghi. Erano un po’ troppo nervosi, per i miei gusti. < Mi chiamo Ghiliat. E ho assoluta urgenza di entrare in città. > Risposi piatta. Quelli mi squadrarono dalla testa ai piedi, senza accennare a spostarsi o abbassare la guardia. < Se è così, devi deporre le armi. > Ribatterono secchi. Storsi il naso: abbandonare Helkaluin e la Claymore? Era fuori discussione. < Non posso farlo. > Quei due quasi ringhiarono alla mia risposta. < Non si entra in città. Nessuno straniero armato ha il permesso di entrare. Specie se non è in grado di giustificare il suo arrivo e le sue intenzioni! >

Sbuffai. La situazione era chiara: di là non si passava. Finsi di arrendermi e mi allontanai. Quando non fui più in vista dei soldati, deviai, raggiungendo l’altro lato delle mura, lontana dai cancelli. Mi guardai intorno. Nessuno. Attesi che le guardie sulle mura si allontanassero dal punto che avevano individuato, raccolsi le gambe e saltai.

Non erano alte, come mura. Non certo all’altezza di quelle di Minas Tirith o di altre città in cui ero stata. Non si avvicinavano neanche lontanamente alla loro altezza. Le superai con facilità, atterrando dall’altra parte. Ammortizzai l’impatto piegando le gambe. Mi concessi un sorriso mentre mi allontanavo: mai sottovalutare una Maiar!

 

Mai sottovalutare una Maiar… avrei dovuto dire, mai sottovalutare il nemico. Che razza di sciocca arrogante!  M’infilai in un vicolo, cercando di seminarli.

< Laggiù! È andata da quella parte! > Sentii gridare da qualcuno. Imprecai tra me e me: gente che si faceva i propri affari ce n’era davvero poca! La situazione stava diventando preoccupante. Erano in tanti e determinati. Li avrei sconfitti con facilità, ma preferivo evitare di usare la violenza: non erano malvagi e stavano solo facendo il loro lavoro, eseguendo gli ordini. Non potevo attaccare.

Circondata, saltai, raggiungendo il tetto di un palazzo, evitandoli. Scagliarono alcune frecce contro di me, ma queste non fecero danni, solo un paio riuscirono a trafiggermi il mantello. Saltai su un altro tetto, movendomi veloce, seminandoli. Quando mi fui allontanata, e fui sicura che la strada fosse sgombra, saltai a terra, attirandomi ancora qualche malosguardo, a cui non prestai particolare attenzione.

Mi guardai attorno: in città ero entrata, certo, ma avevo anche scatenato un maledetto vespaio! La cosa migliore da fare, era quella di trovarsi un posticino tranquillo dove nascondersi finché non si fossero calmate le acque. Già… il problema stava nel trovarlo. Non mi andava l’idea di prendere una stanza in una locanda. Troppe domande, il più delle volte. E poi preferivo gli spazi aperti. L’aria fresca… il cielo stellato… quella sensazione di vita che la notte, serena o di burrasca che fosse, ti lasciava sulla pelle!

Purtroppo, almeno quella volta, non avevo alternativa. Sospirai, guardandomi attorno. Qualcosa di tranquillo e, possibilmente, non troppo vistoso. Sempre che un posto simile esistesse.

Girovagai tra le vie di Eglarest senza alcun risultato, scansandomi quando incrociavo una pattuglia in ricognizione.

Non fui abbastanza veloce, però. < Eccola! È laggiù! > Nemmeno mi voltai e cominciai a correre. Corsi. E rimasi impigliata. Caddi in avanti, qualcosa che pesava sulle spalle.

< Una… rete…? > Mormorai sorpresa. Cercai di rialzarmi ma non riuscivo a muovermi bene. Si avvicinavano. Estrassi Claymore e cominciai a tagliarla. Non fu difficile anche se le maglie erano fitte ed era di ferro.

Sentii una lama pungolarmi il collo. Alzai la testa. E mi trovai circondata da una schiera di lance. Non ero stata abbastanza veloce.

< In piedi! > Mi ordinarono, alzando la rete ma continuando a puntarmi contro le lance. Ubbidii. Non mi andava di ingaggiare battaglia. Quelli non erano nemici. E comunque erano armati. E erano tanti. < Legatela! > Porsi i polsi e lasciai che me li legassero. Mi spinsero in avanti e mi condussero via.

 

La cella era minuscola, incredibilmente fredda e umida e c’era muffa dappertutto. Un ottimo posto per viverci. Solo se sei un fungo, ovviamente.

Me ne stavo seduta su un mucchio di paglia sudicia che qualcuno aveva avuto la carità di lasciare lì a guisa di giaciglio. Accanto ai miei piedi, una ciotola vuota e una brocca sbeccata. In un angolo, un secchio lurido e puzzolente. Non era difficile immaginare a cosa servisse, ma sperai ardentemente e con un moto di disgusto, di non dover passare in quel posto tanto a lungo da trovarmi costretta ad usarlo ma avevo l’impressione che questa speranza sarebbe stata delusa. Un grosso ratto dalla pelliccia nera e l’aria malata schizzò accanto ai miei piedi. La luce polverosa del giorno pioveva nella stanzetta da una finestra microscopica chiusa da una grata, che si affacciava sulla strada. Vedevo i piedi della gente che passava. I raggi stinti colpivano un piccolo rettangolo del pavimento, facendolo apparire la pietra grigiastra, più chiara dell’informe nerofumo che regnava sulle pareti, il soffitto e il pavimento della cella. Da dietro la pesante porta di legno massiccio, sentivo delle voci e dalla finestrella veniva la luce rossastra di una torcia.

Mi appoggiai alla parete e sospirai. Che razza di situazione! Dovevo trovare un modo per uscire e andarmene! Per quale oscura ragione avevano voluto che arrivassi in quel posto? Mi alzai e mossi qualche passo, per sgranchirmi le gambe e schiarirmi le idee.

Innanzitutto, dov’ero? Conoscevo quel posto. Non la cella, beninteso. Ma avevo visto l’esterno del palazzo in cui mi avevano portato. L’avevo già visto. Più di cinquecento anni fa. Mi venne da sorridere: che buffo scherzo del destino! La residenza di Gil-Galad! Dubitavo che la cosa fosse casuale. Ma non potevo incontrare Galad, se restavo chiusa lì dentro! Dovevo stare calma e ragionare. Dovevo uscire. Ma senza uccidere le guardie, possibilmente. E poi dovevo recuperare le mie armi e la mia armatura… non potevo andarmene senza!

Ripiombai a sedere sul pagliericcio, torcendomi una ciocca di capelli, pensierosa. Come potevo fare? L’impresa mi sembrava impossibile! Avrei potuto usare la magia… ammaliare le guardie… o far saltare la finestrella e andarmene dalla strada… scartai subito l’ultima idea. Troppe possibilità di essere vista e ripresa. O uccisa. E poi non avrei potuto recuperare l’armatura, Helkaluin e la Claymore! Quindi l’unica sarebbe stata stregare una delle guardie e rubargli la chiave. Ma dovevo aspettare che mi venissero abbastanza vicino. E che la guardia fosse abbastanza stupida da guardarmi negli occhi. E poi… sarei stata in grado di muovermi all’interno del castello al punto di trovare le mie cose e poi uscire? Non ero sicura di riuscire a ricordare alla perfezione… sospirai: non c’era scelta. Dovevo correre dei rischi. O restare li a vita.

Continuai ad attorcigliarmi una ciocca di capelli attorno al dito, mentre cercavo di ricordare quanto più possibile la geografia del palazzo, schizzando una mappa rudimentale sul pavimento con un sasso appuntito. Alla fine, fissai con occhio critico lo schizzo. Ne fui abbastanza soddisfatta, anche se dovetti ammettere che avevo dei buchi di memoria abissali! Sogghignai. “Stai invecchiando, Ghiliat, vecchia mia1” Sorrisi tra me. Studiai la mappa fino a impararla a memoria, poi la coprii con della paglia: ancora non volevo cancellarla.

Mi gettai all’indietro e fissai il soffitto. Come potevo avvicinare una delle guardie? Forse quando mi avrebbero portato da mangiare… effettivamente non avrei avuto altre occasioni per farlo. Voltai il capo di lato, fissando la finestra, cercando di capire che ore fossero. Il sole non si vedeva ma non dovevano essere passate che poche ore da quando mi avevano catturata, nel primo pomeriggio, quindi non doveva essere ancora sera… ci sarebbe voluta ancora qualche ora prima che si decidessero a portarmi qualcosa. Forse l’avrebbero fatto la mattina dopo… non troppo presto comunque. Sospirai: non mi restava altro da fare che non armarmi di pazienza!

Le ore passarono e venne la sera, seguita dalla notte e da una nuova alba. Non avevo fame, eppure credo di non aver mai aspettato un pasto con tanta trepidazione! La luce grigiastra e lattiginosa dell’alba lasciò spazio a un mattino fulgido, anche se da lì, potevo solo intravederne l’ombra. Venne aperta una porticina nella porta, e una mano spinse dentro una scodella. Quasi urlai per la delusione.

Inghiottì controvoglia il disappunto e mangiai pochi bocconi in silenzio. La maggior parte del pasto rimase nella ciotola.

Sospirai. Evidentemente non erano sciocchi come avevo sperato. Non mi restava che aspettare una nuova occasione.

 

Passarono i giorni. Le guardi stavano bene attente a non incrociare il mio sguardo e non ebbi alcuna occasione per andarmene. Stavo perdendo la pazienza!

Quel posto era nauseabondo! La puzza, la sporcizia e quell’aria ferma e stagnante mi riuscivano ogni giorno più insopportabili, invece che diventare abitudinari.

Quando stavo per mandare a quel paese il fatto che quelle persone non erano malvagie, e cominciavo seriamente a pensare di andarmene con le cattive, la porta si aprì e qualcuno si fece avanti nell’ombra. Scattai in piedi, i muscoli in tensione. I miei occhi scintillarono mentre mi preparavo per l’incanto.

< Sei davvero tu? > Quella voce… così dolce e vibrane, come le corde di un’arpa d’argento, quasi un canto… limpida come l’acqua… seria, ma con quella nota quasi derisoria, quasi si burlasse del proprio ascoltatore… l’avrei riconosciuta tra mille! Lasciai cadere l’incantesimo.  < Ereinion! > Sorrise. < Ereinion Gil Galad... sono lieto che ti ricordi ancora di me, Ghiliat. > Mi guardò. < È passato molto tempo… Non credevo davvero che ci saremo rivisti qui… in questo modo. > Mi squadrò da capo a piedi. I miei capelli erano sporchi e spettinati e il mio viso  condizioni ancora peggiori. I vestiti laceri e pieni di sporcizia. Ridacchiò. < Sei davvero un disastro! > Io non ci trovai nulla di divertente. Tenne la porta aperta, invitandomi ad uscire. Non me lo feci ripetere. Le guardie mi lanciarono occhiate sospettose e ostili ma chinarono il capo dinnanzi al loro re. Fui lì li per fulminarli.

Galad si avviò lungo il corridoio illuminato dalle torce, con me al seguito. Fu un cammino tortuoso, anche se non troppo lungo. Qualche ratto ci attraversava veloce la strada o correva radente il muro, ma il re non sembrava prestarci particolare attenzione e a me ormai, quelle bestie non facevano più ne caldo ne freddo.

Cominciammo a salire lungo una scala stretta e ripida, con gradini tagliati rozzamente che però si fece via via più grande e regolare. Sbucammo in quello che sembrava il locale delle guardie, per poi uscire in un cortile d’allenamento. Galad non aveva detto una parola e per un po’ ancora non parlò. Alcuni dei combattenti ci guardarono curiosi. In effetti, una prigioniera lacera e lercia e un re perfetto e orgoglioso che se ne andavano insieme, doveva essere uno spettacolo ben strano! Quanto a metà, non sapevo se essere sorpresa e sollevata di quella visita, o se essere furiosa con Galad per il trattamento che i suoi uomini mi avevano riservato! Probabilmente, il mio stato d’animo non era che l’unione di quelle emozioni.

Entrammo a palazzo. I lucidi pavimenti di marmo, e lo sfarzo delle stanze, non fece che contribuire al mio disagio. Se avessero chiesto il mio parere in quel momento, avrei detto che volevo solo riavere le mie cose ed andarmene il prima possibile.

Gil-Galad bussò a una porta e parlò con un elfo dai capelli d’argento e dai lineamenti sottili e spigolosi. Emanava una non so che aria di autorità, anche se era vestito semplicemente, e chinava il capo davanti al suo interlocutore. Ma in fondo, chi non si sarebbe inchinato davanti a Gil Galad, nel suo regno?

La conversazione si risolse in qualche minuto ma non riuscii  a sentire ciò che dicevano, ma alla fine, Galad venne da me sorridendo. Mi posò una mano sulla spalla. < Ti affido a Galion. Sei in ottime mani! Noi ci rivedremo presto. > Se ne andò senza darmi il tempo di ribattere, il mantello che ondeggiava leggero a ogni suo passo. Rimasi a guardarlo finché non sparì dietro a un angolo e rimasi sola, in mezzo al corridoio, sotto lo sguardo dell’elfo. Galion, evidentemente. Chinai veloce il capo e lui sorrise. Mi fece un cenno quasi di benvenuto. < Prego, seguitemi. > Si avviò veloce verso il corridoio. Sembrava gentile e caloroso quasi come un amico che accoglie un ospite stanco. Non era una sensazione che avevo avuto occasione di provare molto spesso!

Bussò a un’altra stanza e chiamò due donne. Serinde e Calacalen. I loro occhi erano giovani, ed erano identiche in ogni particolari. Galion mi posò una mano su una spalla. < Lei è un’ospite di sua maestà. Ha passato molti guai prima di arrivare qui. ha bisogno di riprendersi e riposarsi nel migliore dei modi. L’affido a voi, sono certo la tratterete nel migliore dei modi. > Parlava affettuosamente, come un padre, con una nota d’orgoglio che suonava anche come un ammonimento: non deludetemi. Sul volto delle due ragazze si aprirono due identici sorrisi incoraggianti, che non potei impedirmi di imitare.

 

Lo scroscio dell’acqua calda che pioveva a riempire la vasca fu un vero toccasana per me! Sembravano passati secoli dall’ultima volta che avevo fatto un bagno caldo! Mi tolsi gli abiti  e mi lasciai scivolare nell’acqua calda. Calacalen portò via i miei abiti, mentre Serinde mi strofinava la schiena e mi lavava i capelli. All’inizio mi ero sentita un po’ in imbarazzo: non ero abituato ad essere servita e a ricevere simili attenzioni, ma le due ragazze avevano riso e non c’era stato verso di mandarle via! Così avevo finito per cedere. E avevo scoperto che la cosa non era affatto male!

Cala rideva sempre. Delle due sorelle, era senza dubbio la più spigliata e curiosa. Serinde invece era più composta e taciturna, sembrava quasi più vecchia dell’altra, nonostante fossero gemelle!

Sospirai di piacere. Adoravo l’abbraccio caldo dell’acqua, e il profumo delle essenze usate per il bagno, senza contare le dita esperte di Serinde che mi massaggiavano la schiena!

Appoggiai la testa al bordo della vasca e chiusi gli occhi. Vala, se stavo bene!

< Posso farvi una domanda? > Alzai gli occhi su Serinde e annuii, senza parlare. < Ecco, come… che cosa vi è successo? > Domandò, timida. < A ridurmi così, intendi? Tutta colpa di un malinteso. Anche se da parte mia, non avrei dovuto entrare in città a quel modo! > La giovane non mi fece più domande. Cala si affacciò alla porta del bagno, sorridendo. < Blu o rosso? > trillò. La guardai, senza capire. Mi mostrò due abiti e ripeté la domanda. Sorrisi. < Il blu va benissimo. >

Uscii dall’acqua e mi avvolsi in un telo. Poi lasciai che le ragazze mi pettinassero i capelli e mi rivestissero. Su un tavolino basso erano disposte delle pietanze. Pane, frutta e della carne dall’aspetto invitante. Chiesi di rimanere sola. Le ragazze uscirono in silenzio, assicurandomi che sarebbero tornate la mattina dopo e pregandole di chiamarle per qualsiasi cosa. Mi dissi che probabilmente non l’avrei fatto.

Mangiai in silenzio, riflettendo su quanto era accaduto e su quello che avrei dovuto fare. Appena finito, mi sdraiai sul letto e rimasi a lungo a fissare il baldacchino, prima di arrendermi e lasciarmi cullare dai sogni, ancora confusa e stordita.

Mi espansi come un sospiro, librandomi alta oltre il mio corpo, mentre mi univo al vento, sorvolando la Terra di Mezzo. Trascesi i miei confini come non facevo da tempo, troppo legata ai fatti terreni, innalzandomi a un livello altissimo, innalzandomi fino al primo cielo. Persi il senso del tempo.

Fui richiamata alla realtà da un quieto bussare alla mia porta. Rientrai nel mio corpo e mi tirai a sedere. Calacalen era sulla porta. Fuori il sole era calato, tingendo il mare di un tramonto sanguigno. Mi alzai. < Sua altezza chiede di vedervi… >

 

Fui scortata in un appartamento lussuoso, fuori, su una grande terrazza affacciata sul mare. Il sole sembrava incredibilmente grande mentre spariva verso Ovest, oltre al mare infuocato. Il vento portava fin lassù il rumore della risacca. Gil Galad era sdraiato su un basso divanetto. Si alzò in piedi, fecendomi accomodare di fronte a lui. Versò del vino in due coppe e me ne porse una. Sorseggiai la bevanda lentamente, gustandola, e lui fece altrettanto, fissandomi da sopra l’orlo del calice. Tornò a sedersi. < Allora… la mia ospitalità è di tuo gradimento? > Domandò, con un sorrisino divertito. Ricambiai. < La seconda parte molto… ma ho imparato che niente si fa per niente. Dov’è l’inghippo, Galad? > Domandai, sospettosa. < Vedo che vai subito al sodo… > Mi porse un involto e andò a una rastrelliera, dove raccolse una lunga lancia dalla lama decorata. Feci appena in tempo a svolgere l’involto e a impugnare la mia alabarda, che Galad mi puntò la sua arma alla gola. < In guardia. >

  
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