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Autore: keska    17/05/2010    20 recensioni
Tutto sommato stavo bene. Avevo solo bisogno di quello. Ormai, ne dipendevo.
Una volta soddisfatto il mio bisogno, sarei stata meglio, ne ero certa. O forse, no.
Una Bella e un Edward, al loro primo incontro. I personaggi rimangono identici, ma questa volta, hanno in comune, qualcosa in più.
Bella ha un problema grave, la bulimia, ma Edward le darà una mano a recuperare la salute.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
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Edward

Edward

 

I giorni erano trascorsi lenti e tranquilli. Passavo la maggior parte, se non tutto il mio tempo, in ospedale. Bella si stancava facilmente, per via dei medicinali, per via delle sue condizioni fisiche. Ma la cosa peggiore avveniva quando si stancava mentalmente; gli incontri con la psicologa erano estenuanti.

«Si, sta facendo dei passi avanti». La voce della dottoressa mi arrivò chiara, anche se a separarci c’erano ancora almeno cinquanta metri, e il suo tono non più di un sussurro. Ero nel corridoio del primo piano, dove si trovava la stanza di Bella. «Ovviamente queste sono cose che guariscono solo con molto, molto tempo e con costante esercizio».

Charlie e Reneè l’ascoltavano attentamente, entrambi rimproverandosi per la loro incapacità. «Ci dispiace così tanto… Non abbiamo idea di quello che potremmo fare. Reneè è venuta a stare un po’ da me, ma…».

«Non abbiamo idea di quello che dobbiamo dirle» concluse la donna. Era sinceramente provata.

La dottoressa strinse le labbra, valutando quello di cui avrebbe dovuto renderli partecipi. Rallentai appositamente il mio passo. «Perché guarisca ha bisogno di un’atmosfera serena. Ha bisogno che le stiate accanto, che la aiutiate, eppure che siate decisi e risoluti. Mi rendo conto che non è semplice. Siete in buoni rapporti?» chiese discretamente.

Reneè si voltò velocemente verso Charlie, affrettandosi ad annuire. «Si, si, certo. Non ci sono problemi. Ci chiedevamo solo se non sarebbe meglio che tornasse con me. Il mio nuovo marito si è trasferito a Jacksonville, e magari cambiare aria le farebbe bene, la aiuterebbe a ricominciare…».

Gli occhi della dottoressa andarono oltre la sua spalla, soffermandosi su di me, ormai troppo vicino. «Non credo che sarebbe un bene, per lei». Pensava che la mia assenza potesse definitivamente destabilizzarla. «Edward» mi salutò.

Entrambi i genitori si voltarono verso di me. Reneè era sollevata, in un certo modo grata. Charlie si sentiva in colpa per la reazione che aveva avuto nei miei confronti. Aveva capito che ci fosse qualcosa che non andasse in sua figlia, e aveva sbagliato provando a capire cosa.

Li salutai con un cenno del capo e un piccolo sorriso.

«La sua malattia si è manifestata qui, e questo è un bene. Ma le radici che ha non risiedono in questo. É stato qualcos’altro a darle la spinta per evidenziare il suo problema. Non è una patologia che si individua semplicemente».

Feci per entrare nella stanza di Bella. Non volevo entrare in questo modo in un discorso che doveva essere privato. Ma prima che potessi farlo i pensieri della dottoressa mi bloccarono.

«Aspetta, Edward» disse subito dopo, «devo parlarti».

Ci allontanammo dalla porta, e i genitori di Bella ci seguirono.

«Ho parlato con tuo padre, il dottor Cullen» fece, voltandosi verso i genitori di Bella, «ha detto che oggi potrà riprendere ad assumere del cibo liquido. É una cosa molto importante» sottolineò, guardandomi negli occhi.

La fissai qualche istante in silenzio, scrutando fra i suoi pensieri. «Cosa dovrei fare?».

«Ha bisogno di supporto. Non posso presenziare io stessa, perché non vorrei che assumesse l’atto del nutrimento come un fatto clinico. Mangiare deve essere naturale. Quindi, vorrei che presenziassi tu».

Sollevai le sopracciglia, piuttosto sorpreso.

Alla dottoressa non sfuggì la mia reazione. «Normalmente chiedo di farlo ai genitori» si voltò lievemente, una ruga sul viso «in questo caso, Bella ha molti meno problemi da risolvere con Edward che con voi. Non sarebbe una buona idea».

Era stata estremamente sincera. Niente che non fosse già piuttosto chiaro a Reneè e Charlie, ma sentire pronunciare quelle parole li scosse profondamente.

Bella aveva sviluppato un rapporto conflittuale con la sua famiglia, sentendosene rifiutata. La psicologa aveva cominciato ad analizzare, durante le sedute, questo aspetto. Lei si sentiva causa della rottura familiare, causa della percepita carenza di affetto, e così si ritrovava a ripiegare il proprio odio su se stessa e sulla sua persona, rendendosi incapace di amare e farsi amare. Per questo il matrimonio con Phil, segno dell’ennesimo fallimento della sua famiglia, l’aveva messa in crisi.

«Va bene» sussurrò Charlie, la voce debole e rotta.

Reneè gli prese la mano, stringendola.

Era cosa fragile e labile la psiche umana.

La dottoressa si voltò nuovamente verso di me, studiandomi. «Te la senti?».

I miei occhi assenti ritornarono sulla sua persona. Annuii.

Mi riteneva la persona più adatta per il sincero sentimento che Bella era riuscita a provare nei miei confronti. Mi riteneva il più adatto perché la mia presenza non sarebbe stato nulla di eccezionale nella giornata, e così doveva essere il momento del suo pranzo.

 

Bella

 

«E quell’infermiera è un po’ strana con me, forse si sente in colpa perché non riesce a trovarmi subito le vene…» scherzai debolmente, gesticolando.

Edward fece una ristata carica di contegno. Intanto, i suoi occhi mi studiavano attentamente. «A parte questo va tutto bene?» chiese, prendendomi la mano che avevo portato a mezz’aria fra le sue.

Annuii, poco convinta. Non era semplicissimo, ma facevo del mio meglio per non dare a vedere quanto sforzo mi occorresse per mostrarmi così com’ero. «Si… tutto bene» biascicai. Mi lasciai andare con la schiena sui cuscini, appoggiati contro la spalliera del letto.

Sentii una lieve fitta al petto e chiusi per un secondo gli occhi. «Carlisle dice che se la frattura comincia a rimarginarsi fra una settimana potrò uscire». Eppure, per quanto in vita mia avessi sempre odiato gli ospedali, questa volta tornare a casa dai miei genitori non era poi una così bella prospettiva.

Edward mi sfiorò la guancia con un palmo della mano. «Tornerai a casa quando starai… meglio».

Sospirai, senza rispondergli, richiudendo gli occhi.

L’infermiera entrò in camera, trascinandosi il carrellino. Solitamente a quell’ora aveva luogo la mia alimentazione artificiale. Ma questa volta sul carrello c’era una cloche.

Quando l’odore del brodo mi arrivò al naso provai uno strano senso di disagio. Non avevo propriamente fame, il cibo non mi era mancato particolarmente in quei giorni. Eppure, ora che quel piatto era lì, davanti a me, costituiva come una sorta di minaccia.

In tempi più remoti avrei assicurato a me stessa di potercela fare. Avrei dichiarato certamente di poter cambiare, che quello per me non rappresentava un problema. Lasciarmi tutto alla spalle come passato.

Ma ero già stata schiava di queste considerazioni, e anche di diverse ricadute. Non potevo avere questa cieca fiducia in me.

Mi voltai verso Edward. Mi guardava sereno, sorrideva. Eppure i suoi occhi, lì, in fondo, erano spaventati.

Il mio sguardo cadde nuovamente sul piatto dinanzi a me. Ci voleva coraggio, e ci voleva consapevolezza. Quella che mi assicurava della presenza di un problema e quello che mi dava la forza per poterlo superare.

«L’odore del cibo umano non mi attira affatto. Ma questo dovrebbe essere buono» affermò Edward naturalmente. Mi face sentire più a mio agio.

Il primo boccone fu il più difficoltoso. Non ero pronta al lieve dolore che avvertii a livello dello sterno. Il brodo era caldo, non ne sentivo quasi il sapore. Edward mi aiutò dolcemente, soffiando sulla superficie del liquido. Il secondo sorso fu tiepido, così riuscii a distinguere il gusto del cibo. Era insipido, non particolarmente buono. Continuai a mangiare silenziosa. Edward perlopiù taceva, lasciandomi concertare sui miei gesti. Solo di tanto in tanto interveniva con commenti, costringendomi ad interrompere il pranzo per alcuni istanti.

Finii nel giro di un’ora. Non credevo di aver impiegato mai tanto tempo per mangiare, ma non potevo non essere soddisfatta di come erano andate le cose. Sentivo di aver conquistato qualcosa, aperto solo un piccolo pertugio, e mi sentivo bene.

Era andato tutto bene. Tutto bene.

Edward si premurò di socchiudere le veneziane per filtrare la bianca luce di Forks e permettermi di riposare. Mi sistemò i cuscini dietro la schiena, in modo da farmi stare semi-seduta sul letto.

«Vuoi che ti legga qualcosa?» mi chiese gentilmente, sottovoce.

Aprii gli occhi, concedendo ad entrambi un timido sorriso. Scossi il capo. «Raccontami qualcosa della tua famiglia».

I suoi occhi si addolcirono. «Ti ho già raccontato tutto Bella».

Arrossii, imbarazzata. «Io… non intendevo quella famiglia».

Notai nei suoi occhi l’improvvisa sorpresa. Non gli avevo mai fatto domande sulla sua umanità.

Non era mia intenzione metterlo a disagio. «Io… scusa…» farfugliai.

Scosse il capo, aprendosi in un sorriso. «No, va bene» i suoi occhi si persero in lontananza «è che a dire la verità non ricordo molto. Sai, quel tipo di memoria, col tempo, tende a scomparire. Ricordo che mio padre era un avvocato, il tipico medio borghese, portava il mio stesso nome; mia madre si chiamava Elisabeth».

«Vi volevate bene?».

Il suo sguardo si posò sul mio. «Non so se hai in mente un modello di tipica famiglia dei primi del ventesimo secolo. Mio padre aveva un certo distacco nei miei confronti, com’era giusto che fosse. Con mia madre, invece, avevo un rapporto più intimo. Almeno finché non entrammo in contrasto per i miei ideali bellici» sorrise, consapevole, a puntò i suoi luminosi occhi nei miei «ma non credo di aver risposto alla tua domanda, sai?» fece un piccola pausa «credo di averti detto come ogni cosa appariva, quali erano i nostri comportamenti. Ma, si, malgrado ogni cosa, malgrado ogni evidenza, si, ci volevamo bene. Se volersi bene vuol dire soffrire l’uno per l’altro, volere il bene del prossimo, desiderare la sua felicità. Allora, ci volevamo molto bene».

Avevo ascoltato il suo discorso con attenzione e silenzio, e ancora continuava a volteggiare nella mia mente. Soffrire l’uno per l’altro, volere il bene del prossimo, desiderare la sua felicità. Scossi lievemente il capo, per rompere il mio momento di immobilità. «Non avevi fratelli?» chiesi con leggerezza.

Rise. «Penso proprio di no. Non so se mi sarebbe piaciuto, a dire il vero. Essere figlio unico porta i suoi vantaggi. Credo dovessi avere un cane però… mmm… qualcosa del genere…» scherzò.

In quell’istante rammentai di uno degli affetti che più mi erano mancati in quei giorni. Dal tragico giorno in cui ero stata trascinata d’emergenza in ospedale non l’avevo più rivista. E pensare che in un certo modo era stata proprio lei, a salvarmi la vita. «Oh! Accidenti! Mi piacerebbe moltissimo avere Minush qui! Chissà com’è tutta sola… piccola…» sospirai «Non ho mai avuto un gatto così adorabile».

«É…» scelse l’aggettivo adatto a non offendermi «strana» sogghignò.

Un mezzo sorriso comparve sul mio volto. «Direi piuttosto che è unica. Non…» borbottai «non offenderla».

La porta della stanza si aprì, interrompendo le nostre risate. Mi mordicchiai un labbro, abbassando il capo, quando dietro l’anta vidi mia madre.

«Stavate ridendo? Vi sentivate da qui fuori» la voce era debole e cauta.

Non risposi, continuai a rimanere in silenzio. Edward, molto velocemente e con disinvoltura, intervenne nel discorso. «Buongiorno Reneè. Si, hai sentito bene» attese un instante, forse per darmi la  possibilità di intervenire. Riprese quando il silenzio si era fatto ormai troppo prolungato. «Parlavamo di Minush, il gatto di Bella».

«Oh, Minush, certo» si animò mia madre, venendoci accanto, facendo scorrere i suoi occhi velocemente da Edward a me. «É il tuo gattino, vero? L’ho visto, è davvero bellissimo. Non ti preoccupare per lei, ci ho pensato io a darle da mangiare in questi giorni».

Mi morsi la lingua per soffocare le parole. «Non ti sono mai piaciuti i gatti» biascicai sottovoce.

Le labbra di mia madre tremarono. Edward si sollevò dalla sedia, e pensai che se ne stesse andando. Lo fissai terrorizzata. I suoi occhi passarono dai miei a quelli di mia madre, rassicuranti.

«É un gatto adorabile. Ti somiglia molto» disse mia madre. La sua voce era piatta ma decisa.

L’affetto indiretto di quelle parole mi fece trasalire. Sussultai. «Lo è».

Rimase ancora mezz’ora con me a farmi compagnia. Sentivo, da una parte, di volerla vicina, di volere l’affetto che mi stava offrendo. Dopotutto, ogni cosa costruita in quei mesi, era stata volta ad averlo. Ma lo volevo davvero, così? Volevo la sua sofferenza per me? No.

Volevo che ogni cosa andasse apposto. Che tornasse ad essere “giusta”.

Volevo amare serenamente mio padre e mia madre. Volevo farmi amare da loro.

Svegliandomi dal mio riposo pomeridiano gemetti, tentando di capire cosa mi stesse accadendo. Sentivo uno strano torpore, uno strano tremore, in tutto il corpo. Individuai nei sintomi del mio disturbo un forte senso di vertigini.

Poi, la causa di tutto. La nausea.

Mi rannicchiai su me stessa, tremando.

«Va tutto bene?». Sentii al mio orecchio la voce di Edward allarmata.

Gemetti, insicura. Non dovevo dirglielo. Ignoralo Bella, ignoralo. Tu non devi vomitare. Ignoralo. «Va tutto bene» sussurrai, tendendo di nascondere le tracce di sudore sulla fronte.

I suoi occhi preoccupati non smisero di scrutarmi. Rifiutai veementemente tutti i suoi inviti a uscire fuori, a prendere un po’ d’aria. Non sarei riuscita a staccare la testa dal cuscino senza sentirmi male.

Perché, perché dovevo sentirmi così? Sapevo che niente sarebbe stato semplice, ne ero perfettamente consapevole. Ma perché dovevo già sentirmi così? Perché la mia forza di volontà doveva essere così debole?!

Annaspai. Dovevo essere forte, potevo farcela.

«Vuoi che ti legga qualcosa?».

Annuii. Dovevo distrarmi, distrarmi e dimenticare tutto questo. Potevo farcela. Sarebbe andato tutto bene. Io non mi volevo fare del male. Non volevo. Volevo bene ai miei genitori. Bene a Edward. Bene a me stessa. Ce la potevo fare.

Provai qualche minuto di sollievo, rassicurata dalle morbide parole di Edward. Nascosi il viso nella sua spalla, e lasciai che mi accarezzasse la schiena. Ce l’avrei fatta. Ce la potevo fare.

In quella posizione mi calmai non poco, e quando i miei genitori passarono per salutarmi, mi trovarono nuovamente addormentata.

«Scusa, non volevamo svegliarti» sussurrò dispiaciuto mio padre, accarezzandomi i capelli, tremante, come se avesse paura di farmi del male.

Gemetti, ripiegandomi su me stessa, non potendo fare a meno cominciando a piangere silenziosamente. Mi sentivo così male.

«Cosa succede?». La voce di mia madre salì di alcune ottave, allarmata. Non era pronta a questo. Nessuno di loro era pronto ai miei crolli e alle mie lacrime. Erano terrorizzati.

Scossi il capo, ma non feci altro che far aumentare la nausea e le vertigini. Serrai maggiormente gli occhi. Stavo perdendo il controllo del mio corpo. Sentivo la mia volontà così debole, così succube di me stessa.

«Bella» mio padre mi venne vicino, abbassandosi con il viso al mio.

«Cosa succede, cosa le sta succedendo?». Mia madre era terrorizzata, la sua voce stridula.

Singhiozzai. Cosa potevo fare?! In quel momento sentivo di aver bisogno solo di qualcuno che mi potesse aiutare.

Mio padre era preoccupato, eppure cercava in qualche modo di aiutarmi. «Vuoi che ti chiami la dottoressa Green?» chiese tremante.

A quelle parole sgranai gli occhi terrorizzata. Nascosi i capo fra le braccia, piangendo disperatamente, più forte. Non potevo fallire così presto.

I loro occhi mi scrutavano preoccupati. Erano spaventati, destabilizzati dalla mia reazione. Stavano soffrendo.

Stavano soffrendo per me.

«É tutta colpa mia» singhiozzai, straziata, sopraffatta dalla nausea.

Le sue mani mi accarezzarono i capelli. «Non sono sicuro di cosa stia parlando, ma sono sicuro che non è così» affermò convinto.

Mia madre mi prese una mano, stringendosela al petto caldo. «Ci siamo qui per te piccola» singhiozzò «non ti lasciamo, non ti lasciamo mai».

Mi lasciai stringere dalle loro braccia.

«Mi viene da vomitare» biascicai fra i singhiozzi, disperata.

Mio padre si staccò da me, asciugandomi le lacrime sulle guance. «Adesso chiamiamo i dottori, va bene Bella? Sta tranquilla».

Reneè prese il posto di Charlie, stringendomi fra le sue braccia a cullandomi. «Va’ caro, ci penso io a lei. Rimango io con te» fece poi, accarezzandomi i capelli «ci siamo qui noi piccola».

Sentivo che il peso che avevo accumulato sul mio petto si stava sciogliendo. Era tutto finito. Loro mi stavano aiutando. Era tutto finito.

Quando il dolore va via, quello che c’è stato prima sembra solo un brutto scherzo del destino. Bisogna solo saper aspettare. Saper aspettare che passi e intanto continuare a resistere.

Carlisle e la dottoressa Green vennero da me. Rimasero per sincerarsi che stessi bene e per spiegarmi ogni cosa. Era normale dopo interventi come quello che avevo subito, avere la nausea dopo aver mangiato. Non dovevo sentirmi in colpa. Avrei dovuto parlarne subito con qualcuno per farmi aiutare.

«Va tutto bene ora?».

«Più o meno» risposi a Carlisle, socchiudendo gli occhi.

«Stai tranquilla, tra un po’ passerà», fece posando una mano fredda sulla fronte. Quella si che fu un vero sollievo.

La porta della stanza si aprì, facendo passare Edward trafelato e preoccupato. Mi venne subito accanto, prendendomi fra le braccia. Mi baciò la fronte, le guance, le labbra. Doveva essersi preoccupato molto. «Lo sapevo che c’era qualcosa che non andava, lo sapevo» fece velocemente, osservandomi. «Non avrei dovuto lasciarti sola».

«Va tutto bene» sussurrai arrossendo, posando la testa nell’incavo del suo collo freddo.

 

I giorni passarono fra alti e bassi, tutti molto lentamente. Riuscivo a stare bene per poco. L’ospedale cominciava ad essere troppo, per me. Le continue visite, essere sempre nello stesso posto, fare le stesse cose. Tutto mi ricordava il motivo per cui ero lì. E ricordarlo non era mai un bene, perché potevo stare bene, finché ero distratta.

La mia permanenza, inoltre, dovette aumentare a causa di una seconda ondata di febbre che fece insospettire Carlisle e preoccupare tutti come non mai. Per questo decisero di tenermi sottocontrollo ancora un po’.

Malgrado i passi avanti, i miglioramenti che stavo facendo con la psicologa, tutto stava diventando troppo opprimente. Neppure le passeggiate in giardino riuscivano ad alleviare la mia pena.

«Vieni, Bella, guarda com’è carina questa giacca» Alice mi sorrise, sventolando una giacca da camera fine, di alta qualità, proprio davanti ai miei occhi. «Edward ti sta aspettando fuori».

«Non so, Alice» sussurrai annoiata «mi sento stanca, non mi va».

Mi venne vicina in un lampo, facendomi strabuzzare gli occhi. Edward era molto controllato in mia presenza, così pure Carlisle. Dovevo ancora abituarmi al loro lato misterioso e segreto. Riuscì a convincermi ad uscire, letteralmente sedendomi sulla sedia.

«Posso camminare» borbottavo, pur lasciandomi spingere.

«Hai detto che sei stanca» decretò fischiettando.

«C’è anche brutto tempo, oggi. Fra un po’ pioverà di sicuro. Non mi va di uscire» continuai a lamentarmi, facendo finta di non sentirla.

«Non pioverà, fidati» ridacchiò, sicura di sé.

Mi strinsi nella sedia e nella mia coperta, fissando torva i corridoi asettici.

Edward mi stava aspettando sorridente sotto quello che oramai era diventato il nostro albero. Il cielo era grigio e ghiacciato, la giornata estremamente ventosa.

Si chinò sui talloni, accarezzandomi la guancia con una mano. «Tutto bene?» chiese, e mi baciò la fronte.

Annuii, non potendo fare a meno di rallegrarmi delle sua presenza. «Possiamo entrare dentro?».

Mi sorrise dolcemente. «Aspetta qualche minuto» mormorò «fidati di me».

Mi prese fra le braccia, facendomi accoccolare sul suo petto. Come promesso, qualche minuto più tardi avvenne qualcosa che ampliò notevolmente la mia felicità.

I miei genitori mi venivano incontro, con un batuffolo pezzato fra le braccia. «Minush!» esclamai, entusiasta come non lo ero da tanto.

Edward ridacchiò. «Shh, non gridare. Il regolamento dell’ospedale lo proibisce».

Strinsi, davvero felice, il mio gattino fra le braccia. Annusò le mie mani, ne leccò le dita, si mise a miagolare forte, contenta che lei. Risi. «Mi è mancata tantissimo». Era cresciuta.

Edward l’accarezzò e fu strabiliante come il piccolo gattino accettò di buon grado le sue coccole. Evidentemente, qualcosa doveva essere cambiato, dopo che entrambi, insieme, mi avevano salvato la vita.

«Grazie» sussurrai, continuando a giocherellare con la piccolina.

Edward si avvicinò al mio orecchio, sussurrando. «Non devi ringraziare me». I suoi occhi andarono in alto. «É tutto merito dei tuoi genitori. É stata un’idea loro».

Sollevai i miei occhi, e incontri quelli amorevoli e dolci delle persone che mi avevano dato la vita.

Era un piccolo gesto, ma ai miei nuovi occhi significava molto.

Desideravano la mia felicità.

L’avevano sempre desiderata.

Dopotutto, nella vita umana ci sono sempre incomprensioni. Magari, come aveva detto Edward, l’affetto non è quello che sembra. Rinunciarci subito era stato l’errore più grande che avessi commesso in tutta la mia vita.

Ero stata cieca, avevo volontariamente deciso di chiudere gli occhi alla prima luce, la più abbagliante.

Adesso, dovevo riabituarli a vedere in tutta quella luminosità, giorno dopo giorno.

«Grazie» sussurrai, le lacrime intrappolate fra le mie ciglia.

 

 

Scusate per il ritardo, come sempre.

Bene, stiamo procedendo a piccoli passi. E così questo è il penultimo, e dopo il prossimo, metteremo la parola fine anche a questa storia.

 

Bella sta andando avanti nelle sue piccole conquiste, e ho preferito procedere così, con lentezza, piuttosto che sbagliare qualcosa.

 

Mi dispiace se non rispondo alle vostre pur stupende recensioni! Perdonatemi! Vi dico solo grazie, grazie, grazie, e vi mando tanti baci. Non so come farei senza voi. Eppure, siete sempre qui a supportarmi, anche dopo tanto, tanto tempo.

Grazie.

Prometto che la prossima volta vi risponderò! :*

 

Dopo questo capitolo mi devo dedicare un po’ a Cullen’s Love, l’altra storia, per poi tornare e concludere questa.

 

Sono di poche parole anche nel commento oggi. :P

 

Sempre contenta di aggiungervi ai miei followers, e di seguire dal canto mio voi. Cercatemi qui @Keska92, inserirò anche notizie e link del mio blog, con i miei aggiornamenti.

 

 

(fatto da Elena)

«--BLoG!!!--»

 

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