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Autore: Remnant    17/05/2010    3 recensioni
Nel volto di chiunque rivedevo il suo e il calare della notte era solamente foriero di incubi, di dolore. Lo stesso che sentivo scorrere lungo il mio corpo come un serpente… come il serpente che ero.
Genere: Triste, Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Life is but a farewell gift of the darkness to those on their way to die.

Fermai il mio incedere, stupito.
Perché mi erano venute in mente quelle parole? Perché proprio le 
sue parole?
Respirai a fondo, cercando di concentrarmi sull’incontro che di lì a pochi minuti avrei dovuto sostenere; i miei sensi affinati sui campi di battaglia mi permisero di cogliere, sebbene indistinte, le voci di coloro che si trovavano oltre la porta, alla fine del corridoio.
Avrei dovuto raggiungerli.
Avrei dovuto…

Enemies change along with the times, the flow of the ages. And we soldiers are force to play along…

Volsi le spalle, dirigendomi verso la finestra alla mia destra: la spalancai, lasciando che il vento accarezzasse dolcemente il mio viso, come una madre farebbe col proprio figlio.
Una madre…
Aveva ragione. Aveva sempre avuto ragione.
Su tutto. Su tutti.
Gli alleati di oggi possono diventare i nemici di domani e noi, noi soldati, dovremo sempre prestarci a questo schifoso gioco dei piani alti, alla stregua di mere pedine sacrificabili. Strinsi le mani a pugno, ricordando ciò che 
lei aveva fatto per gli Stati Uniti… e ciò che gli Stati Uniti avevano fatto per lei.
Niente.
Come sempre, le era stato chiesto di attenersi ai propri doveri.
Come sempre, aveva obbedito.

One must live… and one must die.

Osservai l’immagine che il vetro mi offriva: i numerosi volti impressi nella mia memoria si susseguirono uno dopo l’altro, fino a fermarsi su di uno in particolare.
Il mio?
No. Il 
suo.
Sbattei più volte le palpebre, ritrovandomi infine a fissare me stesso, senza poter fare a meno di chiedermi che giustizia ci fosse in tutto quello.
Perché non ero morto io?
Perché ero costretto a continuare, sapendo che non avevo più nessuno al mondo?
Per un istante, un solo maledettissimo istante, provai un odio irrefrenabile nei suoi confronti; la rabbia per il fatto che lei 
avesse scelto di sacrificare la propria vita mi soggiogò, facendomi venire voglia di urlarle contro, sebbene non potesse sentirmi.
M’imposi la calma, prendendo un lungo, profondo respiro.

There is nothing left inside me now. Nothing at all.
No hatred, not even regret.


Solo in quel momento compresi appieno il significato di quelle parole. Come potevo anche solo sperare di avere ancora 
qualcosa dentro di me, dopo quello che avevo fatto?
Nel volto di chiunque rivedevo il suo e il calare della notte era solamente foriero di incubi, di dolore. Lo stesso che sentivo scorrere lungo il mio corpo come un serpente… come il serpente che ero.
Prima che potessi chiudere la finestra, qualcosa di vellutato mi sfiorò la guancia; lo fermai con le dita e lo portai davanti agli occhi, osservandolo con attenzione.
Un improvviso blocco alla gola m’impedì di prendere fiato.
Gli occhi bruciarono, offuscati da ciò che non pensavo di poter ancora versare.

Thanks… thanks for listening to me.

Per la prima volta in vita mia l’avevo vista piangere.
Due sole lacrime.
Due gocce cristalline che sarebbero rimaste incise nella mia mente per sempre.
Chiusi lentamente la mano, circondando quel piccolo petalo bianco che pareva avermi raggiunto da un luogo ormai lontano.
Qualcuno ora mi spingeva ad andare avanti, mi sorreggeva, lo faceva da tempo ormai e continuava a farlo anche in quel momento, nonostante non potesse più rivolgermi la parola per incoraggiarmi.
Dovevo vivere, dovevo farlo per due.
Tornai a fissare la porta a qualche metro di distanza e finalmente ripresi a camminare.
Senza fretta.
Avevano aspettato fino ad ora, potevano aspettare ancora un po’.
Il suono dei miei stivali, tirati a lucido per l’occasione, rimbombava cupo lungo il corridoio e quella dannatissima divisa mi faceva sentire un pagliaccio.
Abbassai la maniglia e l’uscio si spalancò pigro di fronte a me, rivelando fin troppe presenze nella stanza rispetto a ciò che avrei desiderato.
Tutti si voltarono al mio ingresso e cominciarono ad applaudire.
Perché cazzo applaudivano?
Passai in mezzo a loro senza degnarli di uno sguardo, quasi non esistessero, e mi fermai unicamente quando giunsi di fronte al Presidente; il suo sorriso soddisfatto mi spinse ad un nulla dal prenderlo a pugni, solo per il gusto di farlo scomparire.
Lo osservai prendere una medaglia e avvicinarsi.
«You are above even The Boss… I hereby award you the title of Big Boss» disse con tono solenne, manco stesse recitando un’omelia.
Quell’insulso nomignolo corrose la mia anima quasi quanto l’ultima richiesta di lei.
Per un attimo ricordai gli interminabili secondi durante i quali avevo puntato la Patriot contro quel corpo steso a terra, senza trovare il coraggio di premere il grilletto.
L’avevo fatto milioni di volte e mai avevo esitato.
Dunque perché in quell’occasione non ero stato in grado di accogliere con prontezza le sue ultime parole?

Kill me. Kill me now.

Mi parve quasi di udire per l’ennesima volta lo sparo che aveva messo fine a tutto… compresa la mia esistenza.
Tornai alla realtà solamente quando avvertii il Presidente appuntare lo stupido pezzo di ferraglia al mio petto; come da protocollo, portai la mano destra alla fronte nel tipico saluto militare.
Un gesto che nessuno in quella stanza meritava.
«You are a true patriot».
Stronzate.
Erano tutte stronzate.
C’era chi risultava degno di quel titolo mille volte più di me. 
Con amarezza pensai che l’eroina tanto acclamata aveva concluso la propria vita bollata come traditrice… quando il vero traditore era invece il Paese che con tanta devozione era stato servito.
Un perfetto spettacolo imbastito da Washington.
Vidi l’uomo porgermi la mano e per diversi istanti assaporai l’espressione di disappunto che si delineò sul suo viso, nel vedere che non ricambiavo la stretta; sentii su di me gli occhi dei presenti e alla fine decisi di accontentarlo.
Subito mi fece voltare, pronto ad essere immortalato dai fotografi appositamente riuniti; il suo palese compiacimento e il ripetersi degli applausi esaurì completamente quel poco di pazienza che era rimasta.
Guardai in tralice il tizio dai capelli grigi che a sua volta mi aveva invitato a stringergli la mano e senza una parola lo superai, dirigendomi verso l’uscita sotto lo sguardo attonito di tutti.
Ignorai persino il Maggiore
Non me ne fregava un cazzo.
Di nessuno.
Avevo compiuto il mio dovere, mostrandomi accondiscendente verso quel gruppo di maledettissimi scaldasedie.
Che ora mi lasciassero in pace.
Lei mi stava aspettando.

There’s only room for one Boss. And one Snake.

 

 

 

Angolino dell'autrice

 

Ed eccoci alla mia seconda storia su questo sito, scritta circa un anno fa!

Come ha detto un amico "Una delle cose che sempre mi ha molto interessato del videogioco, è la sua capacità emozionale, narrativa, la sua portata culturale, la sua ambizione di essere un'esperienza immersiva". Proprio perché mi piace immaginare il videogioco anche come viaggio nella fantasia, esperienza da vivere, ho deciso di scrivere un racconto ispirato da un momento significativo che Metal Gear Solid 3 ha suscitato in me.
Chiamiamola, se vogliamo, una "cartolina", in quanto spero che essa sia in qualche modo rappresentativa di "cosa possa essere un gioco, a prescindere dal discorso grafico, tecnico, freddamente numerico. Qualcosa che possa invogliare a vivere un videogioco".

Parte del racconto è frutto solo della mia fantasia, in quanto ho provato ad immaginare i pensieri di Snake prima di incontrarsi col Presidente. 
Ho preferito lasciare le frasi in inglese perchè rendono molto molto meglio rispetto alla traduzione.

Concludo dicendo che non ho l'ambizione di riportare una trama, bensì di traslare in parole un'esperienza di gameplay. 

  
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