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Autore: blackout    19/05/2010    1 recensioni
Fanfiction partecipante al 2010: a year together, indetta dal Fanfiction Contest ~ { Collection of Starlight }
[Daniel Pennac – “Ciclo di Malaussène”]
E mentre parlo e scandisco le sillabe, penso alla mia Corrençon e conto i minuti che mi separano da lei.
Oh, Julie! Ti sarai messa quel vestito che mi piace tanto? Quello incrociato davanti da cui è così facile liberare i tuoi seni, le tue perfette rotondità?
Forse ho bisogno di un altro caffè.
Ma sì, un bel cafferino turco (“con la “c” minuscola e bene ristretto” come ho detto una volta alla Regina Zabo), o magari uno brasileiro, di quelli che ti fanno torcere le budella per ore.
Genere: Romantico, Commedia, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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Un caffè turco, con la “c” minuscola – Diciannove maggio

  - 194. Caffeina per endovena -

- Dovresti smetterla, Ben.- mi fa notare tranquillamente Clara, sollevando su di me un duplice sguardo trasparente, uno sguardo di madre formato da due paia di occhi: i suoi e quelli del bambino che stringe tra le braccia.
Oh, la mia Clara! La mia Clarinette che ha ormai perso quella rotondità di donna incinta e che nel momento esatto in cui sono risorto al Saint-Louis non ha potuto fare a meno di accecarmi con il bagliore di un flash.
(“Ben, ero emozionata! Dovevo fotografarti! Lo capisci cosa intendo, vero?”)
Certo che lo capisco mia Clarinette, so che fotografi per affrontare l’orrore e per ricordare la felicità.
Il neonato mi guarda, placido, non piange mai e sorride con il sorriso sognate e rassicurante che aveva sul viso quando è nato, lo stesso giorno in cui io ho riaperto gli occhi.
Stasera, nella ex chincaglieria, si respira odore di caffè turco e di tranquillità.
Julius il Cane mi trotterella dietro, facendo la linguaccia, con quell’aria sbigottita che si porta dietro dalla seconda crisi epilettica e la piccola Verdun, nel suo nuovo lettino (ha abbandonato la sua culla per cederla a
È Un Angelo) si guarda intorno, con occhi fiammeggianti.
La Mamma è ancora a Venezia, con l’ispettore Pasteur, e quando ha saputo degli ultimi avvenimenti ha sussurrato nella cornetta: “Sono contenta che stai bene, mio grande. Salutami i tuoi fratelli.”
Ma la Mamma è fatta così e quasi quasi mi aspetto che torni un’altra volta incinta, anche se ha promesso che Verdun sarebbe stata l’ultima.

- Di fare cosa? - domando, occupando la mia postazione al centro della stanza dei bambini.
Sospiro e mi siedo sullo sgabello che un tempo è stato mio, poi del vecchio Risson, poi di Thian e che ora, a diciannove giorni dalla sua morte e dalla mia resurrezione, torna nuovamente a me.
- Di bere caffé, Ben. Cazzo, dovresti smetterla con quel fottuto caffè turco! - esclama Jérèmy, spazientito, togliendo al Piccolo i suoi occhiali rosa ed infilandogli la maglia del pigiama a righe. - Non capisco perché Amar te ne abbia regalato così tanto, bella stronzata, davvero!
- Modera il linguaggio, Jérèmy. – lo ammonisco, mentre Thérèse mi si para davanti, rigida e sottile nella sua leggera camicia da notte.
- Se volevi che ti leggessi i fondi ne bastava una di tazzina, Benjamin.- mi fa presente con voce neutra, anche se sa perfettamente che non è quello il motivo per cui, pochi secondi fa, ho mandato giù l’undicesimo cafferino della serata.
Detto ciò, mi sfila la tazza dalle mani e, con un rapido scatto del polso, la rivolta nel piattino. La guardo mentre rovescia gli occhi all’indietro e si perde in quel mondo di astri da cui, solo quattro giorni fa, ci ha mandato i saluti del vecchio Thian.
- Dovrai aspettare ancora diciotto minuti e trentasette secondi.
Mi dà il suo responso senza fare una piega, spigolosa come sempre. Non c’è traccia di dubbio nel suo sguardo fisso e nella linea sottile delle sue labbra e io sospiro di sollievo, perché tra meno di mezz’ora la mia Corrençon varcherà quella porta.
Anche Jérèmy stavolta non apre bocca e, silenzioso, si arrampica lungo la scaletta del suo letto a castello.
Nessun membro della famiglia ormai osa mettere in dubbio le parole di Thérèse.

Ben morirà nel suo letto, all’età di novantatré anni.”
Così aveva detto.
E io non sono ancora morto, neanche quando un proiettile calibro 22 mi ha scavato un tunnel nel cranio.
Coma. Morte celebrale. Encefalogramma piatto.
Era tecnicamente impossibile che mi risvegliassi.
Assurdo!” era stato tutto ciò che Thérèse era riuscita a ripetere, nella sua statica glacialità, “Assurdo!” i punti esclamativi che si abbattevano su tutti i presenti, Ben morirà nel suo letto, all’età di novantatré anni.”.
Questo vuol dire che ci resterò ancora molto tempo, su questo letto”, pensavo io e il
dottor Marty (quello che tre anni fa ha rimesso insieme i pezzetti di Jérèmy, quando ha fatto saltare in aria la sua scuola) si era schierato con la tribù Malaussène.
Aveva visto Thérèse in azione per bene tre volte e aveva deciso di lasciarmi lì, a vegetare in santa pace, minacciando quello stronzo di Berthold (miglior bisturi di Parigi e peggior nemico di Marty) di farci finire lui al posto mio, se avesse cercato di staccarmi dal respiratore.
E mentre me ne stavo là inquietantemente lucido ed incoerentemente incapace di muovermi, cagandomi sotto dalla paura che Berthold staccasse la spina mentre Marty era in Giappone, ascoltavo la vita che si svolgeva attorno a me, nel caotico equilibrio di sempre.
Vivevo la gravidanza di Clara, la nuova crisi epilettica di Julius (immobile come me da qualche parte, ruvido e vuoto come una noce di cocco), gli incubi del Piccolo e i progetti incendiari di Jérèmy ai danni delle Edizioni del Taglione.
Sì, e Loussa che si era messo in testa di insegnarmi il cinese (“Belville sta diventando cinese, conglioncello, dicono che si impari meglio dormendo…”) e che ogni sera veniva al mio capezzale con un occhio sugli asettici serpenti di plastica che mi uscivano e mi entravano da ogni parte e uno sulla pagina traboccante di indeogrammi. Loussa che mi raccontava la storia di Isabelle, la grande Regina della carta e degli stracci, la sua piccola prosivendola.
A volte pensavo anche a Sotjil, allo zio Stojil che, chiuso nella sua cella a Champrond, non sapeva niente di tutta questa storia, di certo troppo occupato a tradurre Virgilio in serbo-croato, e a Hadouch, il mio fratello arabo, al Cabila e al Mossi, anche loro sbattuti dentro, per aver iniettato una dose letale di soda caustica dritta nell’aorta di quei tre tipi che me le avevano date di santa ragione, pagati da Teston.
Gli omicidi. Cazzo, tutti quegli omicidi! Sant’Inverno, Teston, Gauthier…
(“Non sei tu, vero? Non sei tu che fai fuori tutti i responsabili, eh Julie? Quando ti fermerai?”).
Ma gli sbirri avevano sbagliato pista, la mia Corrençon era innocente.
Fulgida, splendente nella sua armatura di giornalista, semplice paladina della verità.
La mia Julie era sparita e, insieme alla Regina Zabo, si nascondeva nella casa del governatore, a Vercos, e preparava il reinserimento in carcere del mio assassino: una confessione alla prima persona dell’indicativo, scritta tra le malvarose.
E mentre dormivo (ma non dormivo) e amavo silenziosamente (e precisamente) la mia Julie, il dottor Berthold mi aveva svuotato come un’ostrica all’insaputa della mia famiglia.

Mi aveva soffiato tutti gli organi (“È clinicamente morto, Marty! Lo vuole capire sì o no?”) per poi farcirmi con quelli del mio assassino (Kramer, un pluriomicida dal volto di eterno bambino) quando si era accorto che l’elettro-encefalografo aveva ripreso a vibrare dolcemente.
E poi c’era stato il miracolo: nessun rigetto. Gli organi di Kramer erano perfetti per me.
- Sul serio Ben, Louna ha detto che devi riposarti. Non esagerare con la caffeina. - fa Clara, la sua voce è vellutata.
- Secondo me se gliel’avessero messo nelle flebo, il caffè, si sarebbe svegliato molto prima! - ghigna Jérèmy, mentre le sue pantofole dondolano nel vuoto. – Una bella dose di caffeina per endovena e noi adesso non ci ritroveremmo con un fratello con gli organi di un pluriomicida! Chissà cosa potrebbe succedere se finissi per innervosirti troppo…
Il Piccolo ha un gemito, non si sa se per eccitazione o per paura. Forse entrambe.
- Potrebbe… ucciderci?
- Certo che no. Non dire assurdità. Ho fatto il quadro astrale di tutti noi e non di certo così che moriremo.
Quando ognuno ha raggiunto il suo letto, quando Julius mi ha posizionato il suo testone in grembo, sbavandomi sui pantaloni (“Dio quanto puzza questo cane! Perché non gli avete fatto un bagno mentre ero in coma?!”) e quando tutti si sono preparati ad ascoltare la mia lezione di cinese serale, solo a quel punto comincio a parlare.
E mentre parlo e scandisco le sillabe, penso alla mia
Corrençon e conto i minuti che mi separano da lei.
Oh, Julie! Ti sarai messa quel vestito che mi piace tanto? Quello incrociato davanti da cui è così facile liberare i tuoi seni, le tue perfette rotondità?

Forse ho bisogno di un altro caffè.
Ma sì, un bel cafferino turco (“con la “c” minuscola e bene ristretto” come ho detto una volta alla Regina Zabo), o magari uno brasileiro, di quelli che ti fanno torcere le budella per ore.
Louna, Laurent, dite quello che vi pare, ma il caffè mi rende lucido, mi rilassa.
Il caffè è un compagno fidato nei momenti più duri, una fiaschetta di wisky se fossi alcolizzato, una donna bollente quando la mia Corrençon torna ad essere la giornalista dell’Actuel e vola via a svelare realtà nascoste.
Quando Théo mi aveva portato a casa tutte le sue amiche brasiliane del Bois e io e Julie (allora Zia Julia) ci eravamo trovati circondati dalla mia famiglia e da quelle signorine dalla voce profonda, la sera in cui il mio mollusco se ne era rimasto nascosto tra le sue conchiglie al cospetto della bella ladra dei Grandi Magazzini e di quella schiera di uomini primitivi e rivoluzionari che si era portata dietro, io avevo buttato giù caffè. Caffè brasileiro. In una quantità tale da sentirne gli effetti fino a due giorni dopo.
E tutte le visite nello studio in stile impero del Commissario di divisione Rabdomant (ah, il vecchio Rabdomant che mi aveva cortesemente ordinato di non stargli tra i coglioni, durante le indagini sulla morte di Sant’Inverno!), tutti quei caffè sorseggiati con lui! Con lui che mi chiedeva se ero stato io a piazzare le bombe, ai Grandi Magazzini, o se spacciavo roba e sgozzavo le vecchiette di Belville. Oh, i caffè di Elisabeth, servito in quelle tazzine con la N dipinta sulla ceramica! Il caffè di Elisabeth che è meglio di qualsiasi medicina.
Ricordo che stavo bevendo caffè anche quando ho chiesto a Clara cosa avrebbe fatto se avesse visto una foto raccapricciante. (“No so, penso che la fotograferei.”) e quando mi sono ritrovato per la prima volta faccia a faccia con quello stronzo di Teston, il falso JLB.
Anche Isabelle, sua Maestà la Regina Zabo, signora e padrona delle Edizioni del Taglione, mi aveva invitato a berne uno insieme a lei per propormi l’incarico che ha decretato la mia quasi-morte.
E, di nuovo!, comincio a immaginare che i fondi del caffè che ho appena bevuto prendano a scivolare lentamente lungo le pareti del mio cranio, all’interno della mia testa sfasciata e ricucita.
Cerco di leggervi il futuro, anche se non ne sono capace, perché vorrei sapere tra quanto (quanto?!) potrò stringere la mia Julie, affondare il viso nella sua criniera di capelli rossi e assaggiare quelle curve così totalmente mie. 

Sette minuti e otto secondi dopo sento la serratura scattare. Poi la porta della ex ferramenta si apre e Julie scivola dentro, con la grazia e la pelle di un grande leopardo.
Non ha il vestito incrociato sul seno, ma i suoi capelli esplodono di rosso e d’oro e il suo corpo mi chiama, come ogni sera.
E’ bellissima, la mia Corrençon.

Do la buonanotte ai bambini (“Hàizimen yè an.”) e loro la danno a me (“Mànman shuìba.”).
Poi io e Julie chiudiamo la porta della loro stanza e, prima ancora di arrivare al quinto piano, ci amiamo, come ogni notte, per tutta la notte.

 
[Fine]
  

Dedicata a Claudia.

Credits: questi personaggi non appartengono a me, bensì a Daniel Pennac. Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro ed è solo frutto della mia fantasia e del mio amore per i libri di questo autore.
Sono inserite, inoltre, alcune citazioni testuali tratte da “La fata carabina” e “La prosivendola”.

Note personali: La storia si colloca quattro giorni dopo la fine de “La prosivendola”, il terzo libro del ciclo. In realtà non c’è niente di nuovo, è solo uno spezzone della vita quotidiana della famiglia Malaussène e qualche riflessione di Benjamin sugli ultimi avvenimenti.

Questo è obbiettivamente un delirio.
Me ne rendo conto, davvero. Anche se non penso che sia qualcosa di propriamente brutto, non trovo parola migliore per definirlo se non “puro delirio”.
Non ho idea di come e perché abbia scritto una cosa del genere, ma sospetto che sia una diretta conseguenza del tremendo e insano desiderio che avevo di confrontarmi con questo tipo di scrittura. La scrittura di Pennac.
E un effetto collaterale dell’amore per questo autore. E del fatto che mi sto rileggendo tutti
i libri del “Ciclo di Malaussène” uno dopo l’altro, in pochissimo tempo.
Insomma, girovagavo per il forum di EFP con l’ispirazione che mi faceva prudere le dita e mi sono imbattuta in un contest davvero originale e ben organizzato… a quel punto non ho saputo resistere, e il danno era fatto!

Quindi questa è una Fanfiction partecipante al 2010: a year together, indetto dal « Collection of starlight », said Mr Fanfiction Contest, « since 01.06.08 »

Anche se credo che nessuno leggerà questa fanfic mi ha fatto davvero piacere scriverla: per misurarmi con questo tipo di scrittura, per mettermi alla prova con una scadenza così vicina, per farmi un piccolo regalo il giorno del mio compleanno e, soprattutto, per rendere omaggio a un autore che stimo moltissimo e alla migliore famiglia cartacea mai creata.Bacio, Chià
  
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