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Autore: Lely1441    25/05/2010    3 recensioni
Cosa accade quando una divinità scopre di non essere altro che la mera invenzione degli uomini?
[Nona classificata al contest "La Nicchia e... la Luna" indetto da Eylis sull'EFP Forum.
Warnings: Fem-slash.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Credits: Le due citazioni, quella iniziale e quella finale, appartengono alla canzone Starless Night (titolo che poi ho usato per questa storia) cantata da Olivia Lufkin, una delle ending dell’anime Nana

 

 

Starless night

 

I’m alone
Ikisaki no nai watashi no te wo
Sotto tsunaide kureta

Sono sola
Mentre vagavo a tentoni nel buio
Mi hai afferrato dolcemente la mano

 

 

Artemide già da tempo non era più la dea dell’arte venatoria; o perlomeno, non adempiva più ai suoi doveri di cacciatrice da diversi lunghi lustri. Era entrata in una sorta di strana apatia, una stanchezza che le pressava l’animo e pesava sulle corde del suo cuore: c’era qualcosa che si agitava nell’aria, che angosciava e spaventava gli dèi tutti, e lei preferiva rifuggirne la cappa soffocante per andare a rifugiarsi in quella piccola casupola nascosta dall’ombra protettiva degli alti faggi e castagni dell’Attica per rimanere in quel rifugio sicuro, la nicchia dove si nascondeva da sempre. Non erano in molti a sapere dell’esistenza della dimora sui monti della dea - solo l’onnipotente Zeus, ovviamente, e suo fratello Apollo, che possedeva una vaga idea di dove si potesse trovare ma non aveva mai voluto violare l’intimità della sorella - e ancor meno coloro che erano a conoscenza dell’amatissima compagna che viveva con lei.
Quella mattina il passo della donna era stanco, automatico; i giaggioli ed i narcisi per terra le sfioravano con gentilezza le caviglie, protendendosi dai lati dell’invisibile sentiero come se volessero arrivare a lei e deporre i loro piccoli capi nel suo grembo, quando potevano solamente accontentarsi di lambire la sua pelle abbronzata con dolcezza. I fiori cercavano disperatamente di farsi notare, di bearsi dei caldi raggi del Sole che già riuscivano a scaldare le membra intirizzite dalla frescura della notte, ma non erano in grado di far altro che allungarsi verso la gemella del Sole stesso, colei che di notte li bagnava della placida luce della Luna e donava loro un aspetto tanto poetico quanto spettrale. Artemide però non li fissava, non si accorgeva di loro; continuava ad avanzare con quell’aria sfinita che non le si confaceva affatto, la fronte aggrottata, i lunghi capelli castani che oscillavano lungo le braccia ed i fianchi. La casupola era nascosta da occhi indiscreti, grazie ad un serie di giochi ottici in grado di ingannare chiunque, anche gli stessi dèi (e di questo, doveva ringraziare il fratellastro Hermes), senza contare le due orse che occasionalmente passavano di lì per spaventare gli eventuali pastori accampati. Non era una dimora sfarzosa come ci si potrebbe aspettare (non per niente, abbiamo usato il termine casupola), ma era un alloggio decisamente poco consono per una dea, come più volte aveva ribadito Zeus. Vi era un’unica stanza, una delle cui pareti era direttamente ricavata dalla roccia, e di sicuro sembrava più un ambiente adatto ad uno dei non più esistenti iloti greci. D’altronde cosa se ne faceva Artemide, la dea che rifuggiva gli esseri umani, di una casa a due piani? Era uno spazio ridicolmente superfluo, visto che non le servivano locali separati per uomini e donne. Riteneva che un giaciglio, una dispensa e la sua compagna fossero più che sufficienti per vivere, e allora perché tanto sdegno divino per un semplice rifugio per la caccia?
Artemide scosse la testa di fronte a pensieri tanto rattristanti; dopotutto lei era libera e si sarebbe sempre comportata secondo coscienza, almeno nei limiti del possibile. Tirò verso di sé la porta di legno della casetta, entrando. All’interno l’unica luce concessa era quella che riusciva a passare attraverso gli spiragli sul tetto; lei e la sua compagna erano costrette a dormire di giorno, dopotutto, quindi la notte veniva creata così, artificialmente. Camminò silenziosamente fino al suo posto preferito: nella parete formata dalla roccia c’era una specie di nicchia, un incavo dove riuscivano a stare comodamente due persone, seppur rannicchiate, coperto da un telo di pelle scura. La accarezzò con le dita, tentata di entrare nel luogo a cui da tutta la notte anelava; scostò il drappo e si arrampicò fin dentro la rientranza, percependo la presenza di una donna, dai capelli così chiari da sembrare argentei e le vesti bianche. Si avvicinò ancora e si stese accanto a lei, sfiorandole con due dita il contorno del viso finché lei non aprì gli occhi.
«È già l’alba?», sussurrò Selene, la ragazza che secoli prima Artemide aveva salvato e poi fatto diventare immortale, donandole metà del suo incarico di astro celeste. Le sorrise, annuendo. «Sono così affaticata, ultimamente, che non riesco nemmeno a rendermi conto di che stagione sia», continuò l’altra Luna, corrucciando le sopracciglia, pensierosa. In quella nicchia il buio regnava sovrano, eppure loro riuscivano a vedersi comunque.
Artemide le sfiorò le labbra con le proprie, tornando poi a guardare quel viso dalla pelle diafana.
«Non fartene un cruccio», le disse. «Vedrai che è una solo questione di tempo, prima che ti tornino le forze», continuò speranzosa. Selene la scrutò profondamente con i suoi occhi chiari, tanto che la dea se ne sentì turbata.
«Non credo sia una questione di periodi», le rispose, sottraendo il volto al suo tocco; al che, Artemide sorrise incredula.
«Selene, ma se non è questione di periodi mi spieghi di che cosa si possa trattare? Non è ammissibile altro per noi, non possiamo contrarre malattie di sorta, i mali non possono corroderci», le chiese, sentendo quell’angoscia che non Soleva abbandonarla agitarsi dentro di sé come un’onda del mare impazzita.
«Oh, Artemide, perché ti ostini a non voler guardare in faccia la realtà? Gli umani non credono più in noi, siamo diventati tutti degli strumenti superflui, privi di significato».
«Ma questo non significa che-»
«Artemide, per gli altri non siamo più nulla. Questa è la cosa che più influisce su di noi».
Le si accostò, agitata: «Ma cosa ci importa degli altri? Finché avremo noi stesse in cui credere esisteremo comunque, non è vero?»
Ma anche se la sua doveva sembrare una rassicurazione, il tono faceva pensare più ad una supplica che ad un reale convincimento. Selene le prese la mano che aveva appoggiato lì accanto al suo guanciale, portandosela alle labbra e baciando i polpastrelli con un sorriso mesto. Artemide singhiozzò angosciata, vedendola voltare il capo e chiudere gli occhi per addormentarsi, lasciando le sue domande senza risposta. Ma quello che la Luna crescente non riusciva a comprendere era che il silenzio a volte vale più di mille parole.
Selene aveva già da tempo confutato quei quesiti, solo che Artemide non voleva capirlo.

 

҉

 

L’unico modo che conosceva per sfogarsi quando una preoccupazione le attanagliava lo stomaco era correre. Correre finché aveva fiato, correre finché l’unica cosa che le rimaneva in mente era la percezione dell’aria fredda sul suo corpo sudato, dei minuscoli aghi che le infilzavano piacevolmente la pelle. Come dea della caccia aveva una resistenza impressionante, persino per una degli Immortali: poteva andare avanti per giorni e giorni e riuscire a non provare comunque alcuna fatica.
Così, quella mattina, subito dopo essersi riposata per qualche ora, si era arrotolata il lungo chitone sulle cosce tornite, lo aveva assicurato per bene per essere sicura che non le avrebbe intralciato i movimenti, si era legata i capelli con un lungo nastro bianco ed aveva iniziato a correre, semplicemente.
Non faceva mai caso alla direzione da prendere, l’importante era lasciar libero sfogo ai suoi pensieri; che dall’Attica poi si fosse trovata a Tebe o in Macedonia per lei era del tutto ininfluente. Le parole di Selene l’avevano scossa, ma soprattutto il suo sorriso arrendevole aveva avuto il potere di aprire un vuoto dentro di sé. Cosa significava? Aveva accennato al fatto che gli uomini non si preoccupassero più di venerarli come una volta, e di questo ne erano testimoni i templi abbandonati e gli altari trascurati; gli umani preferivano dedicarsi ad altre divinità con aspetti differenti, ma cosa c’entrava  con loro? Dopotutto, il mondo non aveva mai avuto un’unica religione, sin dalla sua creazione. Per quanto fosse dura da accettare, quella realtà non la sconvolgeva più di tanto. Però Selene aveva tratteggiato un disegno dalle tinte fosche e cupe: le aveva annunciato con serenità che era giunta la loro fine. Artemide non ci credeva minimamente; dopotutto, la dea della Luna calante era sempre stata caratterizzata da un certo scoraggiamento di fondo che le aveva fatto predire più volte cose che non avevano poi trovato piena realizzazione. Ma quel sorriso…
Improvvisamente venne colta dal pensiero che, forse, lei l’amava più di quanto l’altra avrebbe mai potuto; che, forse, a lei non importava poi così tanto l’idea di essere separata dalla sua compagna...
“È questo, Selene? È questo ciò che cerchi di dirmi?”
Era stata la sua amante silenziosa per anni, non aveva mai nemmeno messo in dubbio il suo amore. Adesso invece si chiedeva se non fosse solamente lealtà, riconoscenza per averla salvata ed averla resa una dea per proteggerla. Non potendole dare un potere completo, aveva deciso di dividere quello della Luna con lei; prima di quel momento, le notti senza stelle erano sempre state troppo vuote quando si ritrovava a fissare la sfera terrestre con malinconia. Invece l’unico modo per farla apparire, ora, era quello di salire insieme sul carro argentato e rimanere abbracciate a fissare la natura che le ringraziava di quella luce in grado di offuscare quella di ogni altro corpo celeste. Scomparire per sempre… Le sembrava un’assurdità. Eppure trovava perfetta corrispondenza nel tormento sempre costante che si portava appresso da lunghissime stagioni. Scomparire, scomparire per sempre…
E poi, tutto finì. Si fermò con gli occhi sbarrati, rendendosi conto solamente allora di ciò che significavano le parole di Selene. Non avrebbe più visto il suo viso, non avrebbe più accarezzato i suoi capelli, non avrebbe più sentito il suo corpo premere contro il proprio. Era qualcosa di talmente insopportabile ed annientante che cadde in ginocchio senza nemmeno rendersene conto, insensibile com’era a qualsiasi percezione tattile. Si portò le mani davanti agli occhi e notò che stavano tremando; aveva paura, aveva una paura incontrollata ed incontrollabile. Un singulto le scosse il petto, doloroso come un pugnale conficcato nelle costole, e poi un altro, ed un altro ancora. Piangere la faceva sentire male, le faceva girare la testa e fischiare le orecchie, la schiacciava come se qualcuno la stesse assalendo e stesse cercando in tutti i modi di provocarle più dolore possibile: si sentiva così, però non riusciva a smettere di farlo. Sentì le mani sulla testa che tiravano inconsciamente i capelli, quasi come una prefica ad un funerale; le tolse, le mise e le strinse con forza sugli avambracci, le sentì fredde come mai le aveva avute. Sembravano quelle di Selene, e a questo pensiero il dolore si accentuò, facendola premere con violenza le braccia incrociate sullo stomaco, tanto che le sue unghie si conficcarono nella carne morbida, facendola sanguinare. Non aveva mai saputo cosa fosse la vera sofferenza, si era sempre comportata egoisticamente davanti a quella degli esseri umani - struggersi per qualcosa di mortale? L’aveva sempre considerata una sciocchezza -, sorridendo sprezzante davanti alla loro pena visibile, alla loro paura. In quel momento provò un rimorso indicibile per un comportamento che di magnanimo e compassionevole non aveva proprio nulla. Rimase lì per quelle che sembrarono ore, alternando le lacrime a lunghi gemiti e lamenti, finché non calò il Sole e lei si rese vagamente conto che di lì a poco non sarebbe più stata sola. Si ordinò mentalmente di alzarsi, ma non riusciva a muovere il corpo, non le obbediva più; sentì dei passi leggeri e chinò il capo, sconfitta.
«Artemide…»
Lei scosse la testa con forza, ostinandosi a guardare il terreno e non il cielo, quella notte privo di Luna. Ma tanto, ormai, chi se ne sarebbe più accorto? Suo fratello Apollo si inginocchiò davanti a lei e le accarezzò teneramente una guancia.
«Non è da te piangere in questo modo, sorella», le disse solamente, stringendola contro il suo petto. Artemide singhiozzò ancora di più, aggrappandosi con forza alle spalle del fratello e graffiandogliele. Lui non disse niente, rimanendo ad inspirare l’odore della ragazza, che sapeva di pini selvatici, sudore e disperazione. Alzò gli occhi al cielo, sentendo una lacrima scivolare lungo il suo volto imberbe e cadere sui capelli di Artemide. Erano gemelli, ed era per questo che lui più di chiunque altro riusciva a comprendere lo stato d’animo della sorella; sul carro del Sole aveva riflettuto a lungo su cosa fare, su cosa dirle una volta incontratala, ma non era giunto a nessuna conclusione soddisfacente; si era quindi messo sulle sue tracce, sperando solo di riuscire a parlarle, in qualche modo, di non venire scacciato. Ma Artemide era troppo debole in quel momento, non l’avrebbe allontanato neppure se lo avesse voluto veramente. Anche Apollo pianse, pianse per lei, pianse con lei, pianse per tutti loro, che avevano sempre creduto di essere i generatori degli uomini, e si erano scoperti loro invenzioni.
«Una volta era il contrario… Eri tu a correre da me per frignare, quando i tuoi amanti non ti si concedevano e diventavi folle di gelosia, oppure quando Giacinto morì…», incominciò con voce rauca, quasi innaturale, Artemide. «E ancora, quando eravamo piccoli e nostra madre ci lasciò… Quanto tempo è passato da allora, fratello? La memoria diviene confusa, i ricordi vaghi e nebulosi… Non riesco nemmeno più a rammentare il suo volto, solo l’eco della sua dolce voce…»
Apollo rabbrividì per la sfumatura malinconica delle sue ultime parole.
«Era una donna bellissima, e ci ha amato teneramente. Certe cose non si dimenticano», rispose, commosso. I respiri della sorella si erano fatti più lunghi e regolari, segno che iniziava a calmarsi; anche se non sapeva quanto bene ci fosse nel ricordare un familiare morto, non in una circostanza come quella.
«Ho sempre pensato che fossero pochi, tra gli uomini, quelli degni della mia attenzione, mentre tutti loro dovevano onorarci e temerci in quanto loro creatori e protettori. Guardali ora, guarda come siamo ridotti invece noi ora… E non possiamo nemmeno dire che sia colpa del Destino, visto che Ananke scomparirà insieme a noi».
«Artemide, non affliggerti l’anima con questi pensieri cupi. Che senso ha tormentarsi quando non abbiamo altra scelta che seguire questa strada?»
«Belle parole, le tue, come sempre. Ma dimmi, tu ci credi? Credi veramente in ciò che mi dici? Sei veramente rassegnato al nostro annullamento?»
Apollo sorrise amaramente.
«Come posso mentire alla mia metà?»
Artemide si liberò dall’abbraccio del fratello e si alzò, incerta. Chiuse gli occhi e lasciò che il suo corpo tornasse a sentire l’aria gelida della notte, che fino ad allora si era ostinata ad ignorare. Iniziò a camminare, tornando verso la calda nicchia dove si sarebbe raggomitolata e fatta accarezzare a lungo da Selene.
«Apollo, torna da nostro padre e digli di non preoccuparsi per me. Prometto di non fuggire, di non obbligarvi a scene penose».
L’uomo si girò, ancora inginocchiato per terra.
«Artemide…», bisbigliò, riuscendo a vedere il tumulto interiore della sorella.
«No, lasciami andare. Va bene così», gli rispose senza voltarsi né fermarsi. Pochi secondi, e a testimoniare la sua presenza non rimaneva più nulla.
Apollo si passò una mano sugli occhi stanchi, sentendo le lacrime e la profonda pena allearsi contro di lui, combattere per venire alla luce. Lui era sempre stato bravo a disperarsi, a fare di una sciocchezza il motivo principale della sua afflizione per mesi interi. Eppure, non aveva mai provato tanto dolore. Nella sua mente riecheggiarono le ultime parole di Giacinto prima di morire tra le sue braccia e simultaneamente lo raggiunse il freddo eco del vento, mischiato alla voce della sorella prediletta.
“Grazie…”
E fu questo il turno di Apollo di piangere, finalmente conscio della loro sorte.

 

҉

 

Entro pochi mesi, quella che si poteva scorgere nelle foreste di conifere intorno alla città di Atene somigliava più ad una Baccante che ad una dea. I capelli mossi arruffati e scarmigliati sulla schiena nuda, lo sguardo vuoto ed il colorito pallido la facevano apparire come una senz’anima. Qualcosa stava risucchiando la sua energia vitale, ed Artemide non faceva altro che vagare e vagare senza meta, riscuotendosi dalla sua trance solamente quando doveva guidare il carro Lunare; ma anche in quei momenti erano i cavalli a percorrere il sentiero già tracciato, mentre lei rimaneva a fissare muta le criniere chiare dei due animali muoversi sulla loro schiena possente. Le bestie erano nervose anche quella sera, la giovane ebbe modo di accorgersene quando scese nuovamente sulla terra; una volta fermate accarezzò il loro muso, il respiro che usciva dalle narici e si condensava in piccole nuvolette di vapor acqueo.
«Sei venuto per un motivo specifico, Hermes?», domandò, guardando negli occhi il destriero alla sua destra ed osservando le sfumature di marrone nei suoi occhi.
«Sono qui a nome di nostro padre, sorella», rispose una voce alle sue spalle. La giovane sospirò e appoggiò brevemente la fronte contro quella dell’animale, sentendo una morsa ghiacciata nel petto, prima di raccogliere le briglie e gettarle ad una ninfa a lei vicina, ancella e consigliera fedele della sua vita. Per quanto Artemide avesse più e più volte tentato di allontanare le Naiadi da sé, loro non si erano arrese e continuavano a vegliarla, silenziosamente. Compagne anche nel suo ultimo viaggio.
«Quando?», chiese, incamminandosi verso l’interno del bosco e lasciandosi dietro la tenue luce del mattino che faceva capolino dalle cime dei monti.
«Al tramonto, quando tornerà nostro fratello». Hermes le si affiancò, veloce e leggiadro come sempre; era l’unico in grado di batterla nella corsa. Non udendo alcun segno di assenso, arrischiò un’occhiata alla giovane. «Artemide, avevi promesso…»
Lei fece un rumore stizzito e strinse le labbra. «Ho dato la mia parola, stasera verrò. E con me ci sarà anche Selene». Il suo atteggiamento, il suo tono, tutto di lei dava l’idea di una fiera messa in gabbia. Una splendida fiera messa in gabbia.
Hermes si arrestò, lasciandosi superare e rimanendo a guardare con fraterno affetto la sua figura svanire sotto le chiome degli alberi secolari. Quanta sofferenza a causa di quegli uomini che dovevano tutto alle divinità! Fissò distrattamente i cavalli di Artemide, ormai due macchie chiare in lontananza, prima di chinare il capo, sconfitto. L’anima di ladro che era in lui era atterrita dal dover lasciarsi tutto indietro, ma questo non gli aveva impedito di rubare una cinta ad una ninfa dei fiumi. Chissà se avrebbe raccolto il suo invito implicito…
Dopotutto, ognuno aveva il suo modo per affrontare un problema.

 

҉

 

Il Monte Olimpo era molto diverso da come se lo ricordava. Era quasi la versione fosca e scolorita dell’imponente Dimora degli dèi, il marmo era di un grigiore strano, innaturale, non riusciva a brillare come sempre. Selene lasciò che una mano scorresse su quella patina, scoprendola gelida. Rabbrividì e la ritrasse, tornando a guardare Zeus, davanti a loro, che parlava dal suo trono dorato. Artemide era seduta in una delle seggiole riservate alle divinità maggiori, e lei le era subito dietro, in piedi; anche senza poterla vedere in viso, sapeva quale dovesse essere la sua espressione e si intristì davanti quell’immagine.
«Quindi, Padre, non vi è più nulla da fare, nulla da tentare?», chiese Afrodite, con voce spezzata. Il figlio Eros, dietro la donna come Selene era dietro ad Artemide, strinse contro di sé il capo della madre, cercando di infonderle animo.
«No, purtroppo. Abbiamo cercato di fare il possibile, arrivando a rivelarci ad interi popoli: nessuno è stato in grado di vederci».
«Segno che la superstizione è stata sconfitta», mormorò impercettibilmente Apollo. Artemide ebbe un fremito e Selene risentì del suo stesso dolore.
«Ci saranno altri dèi che verranno e prenderanno il nostro posto, così come è capitato a noi con quelli che ci hanno preceduto», continuò l’uomo, stringendosi con forza un ginocchio come a convincersi maggiormente delle sue parole. «La ragione umana ha deciso di sostituire la scienza al cuore, noi non serviamo più. Ce ne andiamo».
Le sue parole risuonarono come una condanna mortale; ed in effetti, non era altro che questo. Artemide si portò una mano al petto, sentendo battere il proprio cuore così dolorosamente che le sembrò stesse pompando litri e litri di un liquido amaro ed acido nei polmoni e lungo la gola, soffocandola.
«Quando?», domandò solamente Athena, una smorfia amara sul suo viso contratto. Lei, dea della ragione e dell’intelligenza, più di tutti gli altri sapeva come la mente possa essere complessa, ed era quella che era giunta prima di tutti gli altri alla conclusione che prima o poi sarebbero spariti.
«Questa notte».
Tu-tum. Tu-tum. Tu-tum.
Ad ogni battito, l’eco di quelle parole.

 

҉

 

L’aria nella casupola, quel giorno, era innaturalmente gelida, quasi fosse permeata dalle anime dell’Ade. Selene si accarezzò le braccia intirizzite, guardando preoccupata la sua compagna sparire dietro la pesante tenda di pelle che chiudeva il passaggio alla loro nicchia.
«Artemide, posso entrare?», domandò, con la sua voce tanto dolce quanto saggia. «Sono stanca, questa notte non ho avuto modo di riposare…»
La dea scostò il telo, fissandola con degli occhi così crudeli che sarebbero stati paragonabili solamente a quelli di un cucciolo d’uomo che ha visto morire, impotente, tutti i suoi cari, e tenta disperatamente di sopravvivere, digrignando i denti contro chiunque osi avvicinarlo.
«Perché ti ostini a cercare delle giustificazioni? Tu sei più sensibile di me, senti l’affievolirsi del nostro essere da mesi, avverti la nostra effimera vita, la sua fragilità, meglio di quanto possa fare io. Smettila di ingannarmi, Selene. Un male incurabile ti logora da dentro da chissà quante stagioni, forse saresti svanita nel nulla anche senza… senza tutto questo. E la colpa è mia, solo mia. Tu non sei fatta per l’immutabilità».
L’altra sospirò e si issò nel pertugio, sentendo il fieno che costituiva il loro giaciglio pizzicarle le ginocchia. Dentro quella specie di nascondiglio non vi era alcuna luce, era ideato in modo che neanche il più piccolo raggio del Sole potesse entrarvi: Artemide era molto gelosa della propria intimità. Ma Selene riusciva a percepire sempre dove si trovasse la dea, riusciva a vedere il suo principio vitale scorrere all’infinito dentro il suo corpo, nonostante i suoi occhi fossero resi ciechi da quella notte artificiale. Le sfiorò una spalla con la mano, tranquillizzandosi quando l’altra non la scostò.
«Artemide, non puoi addossarti colpe che non hai; perdonami, ma questo è un atteggiamento ben poco divino. Non avere la superbia, come gli umani, di credere che tutto dipenda da te stessa; ci sono cose che semplicemente accadono, senza perché. È inutile cercare qualcosa che non esiste».
La dea si voltò, stendendosi supina.
«Selene, non rimpiangi mai il periodo in cui eri una mortale? A causa mia, sarai costretta anche tu all’Oblio Eterno», mormorò, e l’altra sorrise: finalmente era stata in grado di esternare quel dubbio.
«Mi mancano i miei genitori e i miei amici, ma so che hanno vissuto una vita degna e questo mi conforta. Ma mai, Artemide, mai, mai ho rimpianto il momento in cui tu mi hai salvata. Mai ho rimpianto il momento in cui sono diventata la tua compagna. Abbandonerei per mille e mille volte ancora ciò che avevo pur di rimanere al tuo fianco, sia da mortale…  O sia pure se dovessi annullarmi nell’Oblio Eterno», rispose, sentendo una lacrima scorrerle sul viso e sul collo. Rifletté su quanto fosse strano che le lacrime siano così calde quando sgorgano dagli occhi e diventino poi tanto fredde in così pochi istanti… Il tempo preciso di una fine, il limite estremo di ogni cosa. Artemide le accarezzò una guancia, con quella familiarità acquisita nei secoli passati accanto a lei.
«Ti ringrazio, Selene».
A pochi mesi di distanza, lei, la dea della Luna crescente, la Luna a metà, aveva ringraziato tutte le persone più care; si sentì svuotata, quasi che avesse terminato i preparativi per un lungo viaggio e non le fosse rimasto più nulla da fare prima della partenza.
«La nostra nicchia…», mormorò Selene. «L’unica cosa che mi consola è che non avrò modo di sentirne la mancanza».
La giovane si mise a sedere e l’abbracciò, posando le labbra sulla pelle delicata della nuca. Dopotutto, anche la dea della Luna calante soffriva, pur avendo accolto il loro destino con accettazione e sottomissione.
«C’è ancora tempo prima di questa sera. Non roviniamo questi attimi preziosi con l’amarezza del nostro cuore», sussurrò al suo orecchio. Selene la strinse più forte: Artemide aveva iniziato a capire.
E poi, nessuna nicchia naturale poteva offrire un rifugio migliore delle sue braccia.

 

҉

 

La Dimora era svanita nel nulla, sulla sommità del Monte Olimpo non ve n’era rimasta alcuna traccia. Artemide tremò, ma non per il gelo che le sfiorava le gambe, quanto per quello che le ghiacciava il cuore. La vista era appannata, le orecchie non erano più in grado di udire altro rumore se non il frusciare del vento. Si sentì sola, spaventata. Umana.
Improvvisamente, si aprì un enorme varco luminoso davanti a tutto il popolo degli Immortali. Il terrore che l’assalì fu qualcosa di inenarrabile: spalancò gli occhi, atterrita, e lo sguardo ricadde sul suo gemello, nel cui volto era riflessa la sua stessa espressione. Lui si accorse di lei, e si scrutarono a lungo.
Improvvisamente, si fece tutto più chiaro. Recuperò la lucidità che aveva perso in quegli ultimi mesi, e guardò la luce accecante davanti a loro con profonda commozione. Fissò i volti delle altre divinità con affetto, consapevole che ora erano veramente tutti uguali, tutti nella medesima condizione. Sarebbero svaniti insieme, non avrebbero provato dolore: non era già questo un buon motivo per smetterla di essere angosciati? Non era sola, non lo era mai stata.
Sentì delle dita fredde intrecciarsi alle sue, calde. Selene si era voltata verso di lei e le stava sorridendo teneramente. Artemide le rispose con un altro sorriso e strinse la sua mano, tentando di trasmetterle così i suoi pensieri, di farle capire come ormai fosse riuscita a comprendere, a vedere. Probabilmente la dea della Luna calante lo intuì, perché si avvicinò, facendo sfiorare la spalla con la propria.
«Dunque... Chi vuol essere il primo?», domandò Zeus, con esitazione. In quel momento, non sembrava davvero il tanto temuto padre di tutti gli dèi.
Artemide e Selene si guardarono con un altro sorriso, prima di fare un passo in avanti e dirigersi verso quella luce bianca che componeva il Nulla ed il Tutto.
Insieme per l’ultima volta, come se fosse stata la prima. Insieme, come sarebbe stato per mai più e per sempre.

 

Quella notte, ogni uomo che si fosse soffermato a guardare la sfera celeste, dalla Tracia, dalla Ionia o dalla Caria, avrebbe visto la più bella Luna piena mai apparsa nel cielo fino ad allora, e si sarebbe sentito pervadere da una tristezza e da una dolcezza infinite...

 

 

 

 

Starless Night kako no kage furikaeranai
Kanjitai anata no nukumori
Tears are falling down mayottemo hanashi wa shinai
Tsunaida anata no te wo

 

Notte senza stelle il passato è un’ombra dietro me,
Ma non mi girerò per guardarla, voglio sentire questo tuo calore
Le lacrime cadranno giù anche quando non saprò dove andare,
Non lascerò mai la tua mano

[Starless night, Olivia Lufkin]

 

 

 

 

Note: La prima cosa che ho fatto una volta visto il titolo del bando è stata fare una breve ricerca su Selene, che ricordavo essere collegata ad Artemide, pensando di assimilare le due persone in un’unica entità; invece quest’idea mi è balzata in mente così prepotentemente che ho deciso di svilupparla, sperando di aver fatto un buon lavoro. Non è la prima volta che scrivo qualcosa di sfondo mitologico, anche se stavolta ho deciso di stravolgere completamente l’universo in cui vivono: non è più qualcosa di veramente reale, bensì un’auto-illusione così potente da creare una specie di miraggio in cui gli stessi “abitanti” si illudono di esistere. Ragionamento contortissimoooo XD
Il finale, la parte in corsivo, è meglio spiegarla per bene: il fenomeno della Luna piena appare con l’unione delle due dee. Loro scompaiono insieme, ed è notte: mi piaceva pensare che il cielo donasse loro questa specie di omaggio, visto che il fenomeno non dipende più da Artemide e Selene (non è mai stato causato da loro, in realtà, ma questo non lo sapevano).
I nomi degli astri sono sempre in maiuscolo perché vi è una personificazione con la divinità associata (scelta stilistica XD).
Ah, e da quando Selene parla ad Artemide all’incontro con Apollo sono passati diversi giorni, altrimenti non si spiegherebbe il fenomeno lunare.

 
 

Questa storia si è classificata nona al contest “La Nicchia e… la Luna”; faccio un mea culpa generale, dato che per un mio fraintendimento avrebbe potuto collocarsi più su :3 Ma non mi lamento, il giudizio è comunque positivo, e ringrazio moltissimo Eylis per la disponibilità dataci ^^
I commenti, al solito, sono molto graditi, soprattutto dato che è la mia prima fem-slash e non so bene come sia riuscita a gestirla .-.
See ya, guys ♥

Grammatica, sintassi, ortografia e lessico: 9,5 / 10
Ho trovato un paio di piccoli errori, ma niente di grave. A volte il linguaggio molto forbito rendeva meno scorrevole la storia, ma questa è una scelta stilistica che non intendo penalizzare perché non sta a me valutarla

Sviluppo della trama: 10 / 10
La trama è chiara e ben sviluppata, spiega bene ogni passaggio tenendo comunque viva l’atmosfera

Caratterizzazione dei personaggi: 9 / 10
I due personaggi principali sono ben caratterizzati, avrei valorizzato forse un poco di più i secondari più importanti (come il fratello di Artemide)

Espressività: 9 / 10
Ho trovato questo racconto piuttosto espressivo, hai saputo rendere molto bene la disperazione e poi la triste accettazione del finale della storia cullando il lettore in questa malinconica atmosfera

Originalità: 5 / 10
Temo che il punteggio di questo parametro sia penalizzato dal fatto che non posso ritenere che i personaggi siano originali. Sicuramente sono stati ben sviluppati, ma non sono tuoi, sono tratti dalla mitologia. Per quel che riguarda il tema devo dire che la caduta degli Dei, nonostante sia stata molto raccontata, in questa storia è trattata in modo piuttosto originale

Attinenza al tema e ai parametri posti: 7 / 10
I temi sono stati rispettati, non è stato seguito invece il parametro dell’originalità dei personaggi

Valutazione finale: 49,5 / 60
Un racconto che mi è piaciuto molto! Peccato per aver sforato con il parametro dell’originalità, non fosse stato per questo ovviamente avrei dato più punti

 

   
 
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