Libri > Harry Potter
Ricorda la storia  |      
Autore: Briseide    01/09/2005    4 recensioni
Blaise Zabini, era un esteta, era stato un gatto nella sua vita precedente, era schivo ed era sfuggente, allo stesso modo in cui amava i piaceri, le sfide e Daphne Greengrass. E non l’aveva voluta nel suo letto se non accompagnata dal suo sonno leggero e di facile risveglio.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Blaise Zabini
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A




Receding





Piccole orme sulla neve segnavano il passaggio di piccoli passi su quel sentiero innevato che portava dal giardino al castello.
Una figura esile si affrettava a rientrare nel castello per scrollarsi di dosso il gelo di quella sera e la stanchezza di quella giornata.

Lunghe dita affusolate e sottili si avvolsero intorno alla pesante maniglia del portone e sospinsero con forza, nonostante neanche il minimo segno di quello sforzo fosse andato ad intaccare l’espressione di quel viso.
Daphne Greengrass entrò nel castello e si guardò intorno mentre il cigolio del portone annunciava la sua entrata. Due occhi azzurri tinteggiati da una foschia di stanchezza e indolenza si spostarono rapidamente per tutta l’area della Sala Grande e sulla porta di entrata dei Dormitori Slytherin. Ai tavoli non c’era nessuno che potesse infastidirla o rappresentare un problema per il suo passaggio, e con un ultimo sguardo di controllo, mosse un passo e poi un altro, diretta verso il proprio Dormitorio.

La figura longilinea di Daphne tracciò quel breve percorso sotto gli sguardi assorti e vagamente intimoriti di due ragazzi dei primi anni, seduti al tavolo Ravenclew. Abituata com’era ad avere costantemente degli occhi puntati su di sé, lei non ci prestò troppa attenzione, non li degnò neanche di uno sguardo, sapendo perfettamente che per loro equivaleva solamente ad un sogno passionale quella notte e al successivo racconto eccitato la mattina successiva.
Faceva quell’effetto, Daphne sulla gente.
Non aveva niente di più rispetto a tante altre appartenenti al genere femminile, ma nel vestire la sua bellezza e vivere la sua vita, ci metteva qualcosa in più, quel qualcosa che portava la gente a puntare gli occhi su di lei e a sentire il proprio corpo scosso da brividi di piacere e di inquietudine. Quello strano binomio che appariva sempre infondato e del tutto incoerente, ma che nonostante le sensazioni che procurava, tutti speravano di riuscire a provare almeno una volta nella vita. E chi conosceva, o incontrava, Daphne Greengrass, lo aveva certamente provato.

Erano in molti ad anelare un suo bacio, o un minimo contatto tra il proprio corpo e quello di lei, ma tutte le volte che vi rivolgevano il pensiero, c’era sempre il vago timore che dopo averlo fatto qualcosa sarebbe potuto cambiare drasticamente, o che sarebbe successo qualcosa di fatale, e non in termini vitali necessariamente.
Lei stessa forse, lo era.
Non erano in molti, invece, quelli che avevano avuto l’ardire, la capacità e il permesso di rubarle un bacio, o una carezza – mai lasciva – o addirittura di aver potuto prendere il suo corpo, ma quei pochi avevano avuto sempre l’impressione che da quel momento niente più li avrebbe soddisfatti nella loro vita e nelle loro esperienze.
Forse era per questo che si era intimoriti da Daphne e quello che poteva dare e procurare. Aggiungendo all’elenco anche i suoi occhi, quella espressione, e quel suo atteggiamento.
Daphne Greengrass passava per essere una persona estremamente schiva, quando in realtà era semplicemente sfuggente.
Sfuggente.
Nessuno riusciva a tenere i suoi occhi fissi in quelli di lei per più di un certo numero di minuti, il suo corpo scivolava su quello di qualcuno e poi era lontano mille miglia, e quella lontananza ecco che la rendeva irraggiungibile come lo era sempre stata prima di quel breve e illusorio contatto.

Tutti lì a chiedersi se prima o poi avrebbe smesso di sfuggire e si sarebbe fermata, lasciata avvicinare e sfiorare, fino a lasciarsi toccare. Se avrebbe guardato fisso negli occhi qualcuno che l’avrebbe avvicinata a sé e poggiato le sue labbra su quella bocca di rosa, avrebbe avuto il tempo di conoscere e percepire fino in fondo il suo sapore. Se avrebbe permesso che quello sfiorare divenisse una carezza, e quel gemito di piacere che avrebbe fatto provare e avrebbe provato, un sospiro.

A chi sarebbe riuscito a conquistare ed ottenere tutto questo, sarebbe spettato il trono del mondo.

+++



Chiuse gli occhi e appoggiò una mano su quella spalla. La sua pelle non aveva alcun odore, pensò, voltando di poco la testa per poter sfiorare le labbra di turno e lasciar scivolare sinuosamente il suo corpo contro quello della persona che gli era davanti, almeno prima che lei non lo costringesse a poggiare la schiena su quel letto senza padrone.
Aveva sentito due mani poggiarsi con malferma decisione sui suoi fianchi, premere sulla sua pelle di pesca e chiedere con forza e preghiera al suo corpo di poggiarglisi contro e permettergli di entrare in lei, se non altro fisicamente.
Accordò quella annoiata concessione solo dopo che non trovò altro da fare con quelle labbra e quella pelle di quel corpo senz’anima. Quale anima poteva avere un corpo che non ha neanche un odore? Si domandò contrariata mentre intrecciava le proprie gambe con quelle del ragazzo di turno e si rendeva nuovamente protagonista del suo piacere.

Poi si scostò con la stessa consistenza di un velo di seta e passò le dita tra i capelli, fino a sfiorarsi la schiena, in quel gioco di tagli scalati dal colore biondo e dai riflessi di luce dorata.
Hai capelli come il miele.
Glielo diceva sua madre quando glieli pettinava la sera a casa loro, e glielo avrebbe detto il ragazzo steso sul letto, leggermente umido di un sudore che non avrebbe avuto odore.
“Sembrano miele, i tuoi capelli”.
Le dita sfuggirono rapide, ma non bruscamente, al serico contatto dei suoi fili di grano e si strinsero contro il cotone della camicia bianca che aveva preso dal bordo del letto. Lo aveva guardato per un attimo, il tempo di confonderlo con quel colore che aveva dipinto negli occhi, e poi aveva controllato che la camicia fosse nel verso giusto. E l’aveva poggiata con delicata noncuranza sulle sue spalle esili, voltandosi in cerca della gonna.
Non gli avrebbe fornito alcun tipo di ringraziamento.
“Tieniti fedele ai fatti quando racconterai di stasera ai tuoi amici”.
Gli domandò con scostante cortesia, e con parole dure nella loro indifferenza, sussurrate appena tra quelle labbra pallide, tinte appena di rosa naturale.
“Se vuoi non racconterò niente”.
Aveva alzato ancora una volta i suoi occhi con indolenza, e li aveva incastrati con una luce di poco importante compassione in quelli di lui, e poi gli aveva sorriso appena.
Se fosse stata un po’ più vicina a lui avrebbe notato la pelle del braccio riempirsi di piccoli puntini, e i suoi muscoli tendersi contratti. Ma seppe ugualmente che era successo.
Perché aveva sorriso.
I suoi sorrisi passavano per qualcosa di non troppo raro ma neanche di frequente. Sorrideva quando le veniva voglia di farlo – raramente – e quando riteneva che fosse un buon momento – come in quel caso – per sottolineare qualcosa che non avrebbe avuto voglia di dover dire a parole per esempio. Ma avevano sempre un effetto di quel tipo su quelli a cui veniva rivolto.
“Non rientra nella sfera dei miei interessi o delle mie preoccupazioni. Come vuoi, non sono vergognosa della mia virtù”.
Non aveva voglia di parlare ancora, e per questo uscì dalla stanza, i suoi passi non producevano alcun rumore, e poi lasciò la porta chiudersi da sola, perché non aveva tanta voglia neanche di chiuderla da sé.

+++



“Daphne”.

Si voltò lentamente, con circospezione, nonostante avesse riconosciuto la voce.
Alzò un sopracciglio in richiesta di un aggiunta o di una spiegazione. La ottenne un attimo dopo.
“Adrian ti stava cercando”.
Valutò quelle parole e le accettò per quello che erano. Annuì una volta sola e invertì senso di direzione, superando in poco tempo il suo interlocutore.
“Ora lo raggiungo. Grazie”.
Alle sue spalle Theodore Nott socchiuse le labbra e sospirò gemendo rocamente. Aveva quasi sperato che aggiungesse il suo nome, dopo quel grazie, ma non lo aveva fatto. Daphne chiamava per nome solo poche persone in effetti, pur conoscendo il nome di tutti quelli che le parlavano o che la guardavano. Probabilmente non lo aveva chiamato perché non era poi così importante quello che le aveva detto. Il suo ragazzo la stava cercando. Si, niente di che in effetti.
Soprattutto perché si trattava di lei, e di quello che gli altri chiamavano “il suo ragazzo”.

Si sarebbe seduta comodamente accanto a lui, se Adrian non le avesse fatto cenno di usufruire tranquillamente della sua fisicità allenata dal Quidditch, e l’avesse accolta sulle sue gambe. L’aveva baciata sulle labbra, senza spingersi oltre, anche se avrebbe voluto farlo. Ma sapeva la regola che vigeva in un rapporto così stretto con Daphne: non le piaceva dare spettacolo davanti ad altri, e non le piaceva sentire occhi estranei a quel bacio, a quell’abbraccio o a quella carezza, su di sé. E inevitabilmente, tutto quello che Daphne Greengrass compieva sul corpo di un ragazzo passava sotto gli sguardi attenti e curiosi di tutti i presenti in quel campo d’azione.
“Insomma, allora io gli ho detto che non sarebbe stato conveniente, e lui ha ribattuto dicendo che altri modi non c’erano e che dobbiamo accontentarci altrimenti non se ne fa niente”.
Concluse concitata Pansy Parkinson agitando le mani e alzando gli occhi al cielo, molto contrariata e infastidita dal colloquio che aveva avuto con il qualcuno di cui stava parlando.
Adrian fissò per qualche secondo le assi di legno sotto i suoi piedi, mentre con un braccio circondava la vita di Daphne e con la mente cercava di valutare la situazione. Daphne, dall’alto della gambe di Adrian stava valutando se valesse la pena capire o meno di cosa stessero parlando.
“Possiamo chiedere un parere a Draco, lui di sicuro sa dove mettere le mani”.

A quel punto, Daphne decise che non avrebbe domandato niente. Che la cosa l’avrebbe in qualche modo riguarda o meno, e che lei lo sapesse o no, dal momento in cui Draco fosse venuto a conoscenza della situazione e avesse preso dei provvedimenti al riguardo, non c’era niente su cui pensare. Così socchiuse di poco gli occhi e represse uno sbadiglio di stanchezza, mentre due figure si facevano sempre più vicine a quel gruppo riunito sugli spalti del campo da Quidditch.
“Parli del diavolo…”.
… e spuntano le corna.
Conclusero tutti mentalmente, Daphne compresa ma era l’unica a pensare ad Adrian in merito a quel detto popolare. A lui le corna erano spuntate anche senza che il diavolo venisse menzionato.
Draco era arrivato insieme a Blaise in quel preciso istante, e con un cenno della testa aveva salutato tutti e nessuno, appoggiandosi in piedi ad una transenna lì accanto.
“Stavamo giusto pensando di chiederti un parere”.
Annunciò Adrian sollevando la testa all’indietro per guardarlo meglio. Draco incrociò le braccia al petto e gli fece cenno di parlare. Era di poche parole quella sera, e Daphne ne fu lieta. Adorava sentirsi dello stesso umore di Draco, la faceva sentire meno sola e non era l’unica invitata a dire qualcosa, con un sorriso sulle labbra degli altri.
Da quel momento, Daphne smise del tutto di interessarsi alla faccenda, e aveva anche deciso di alzarsi tanto per fare qualcosa, quando Adrian le baciò il collo. Evidentemente aveva percepito la sua intenzione, forse aveva fatto qualche gesto che aveva potuto fargli capire che stava per alzarsi. E l’aveva fermata, senza dire niente, ma inequivocabilmente. Si voltò a guardarlo negli occhi, mascherando la noia con la curiosità.
“Non andare”.
Le aveva domandato in tono gentile con un sorriso.
“Ma stiamo qui a non fare niente”.
Aveva ribattuto lei scrollando le spalle. Era un animo inquieto Daphne. In quel momento aveva una gran voglia di fare qualcosa, e non di starsene lì a guardare i minuti scorrere e il tempo andare perso, ma probabilmente dopo aver trovato qualcosa da fare avrebbe pensato che rilassarsi un po’ non le sarebbe dispiaciuto.
Era sfuggente in tutto, Daphne Greengrass.
E se c’era una cosa che era evidente a tutti, soprattutto al suo ragazzo, era quanto fossero inutili e deleteri i tentativi di dissuaderla, o di farla fermare per un attimo. Sarebbe sfuggita lo stesso, e in quel caso non sarebbe neanche più tornata. Ed era un rischio che nessuno voleva mai correre il rischio di fare, anche se nessuno avrebbe saputo spiegarne il motivo.
“Ci vediamo dopo allora”.
Si era arreso Adrian, mentre sentiva il peso leggero di Daphne allontanarsi da lui. E un secondo dopo era lì seduto, con la testa rivolta ancora una volta verso l’alto, in contemplazione della sua Daphne.

In piedi nella sua figura slanciata, con i capelli ad accarezzarle la schiena e a schiarirle il viso poco colorito se non sulle gote. Con le spalle sottili strette per il freddo, con le labbra rosa serrate intorno al collo di una sigaretta di passaggio, con la testa ben alzata, e lo sguardo perso davanti a sé, a guardare il niente che le si parava davanti ad ogni battito di quelle ciglia scure. E quegli zigomi forse un po’ troppo sporgenti, e quelle mani affusolate e frenetiche, sempre indaffarate intorno a qualcosa, e quegli occhi. Quegli occhi grandi, troppo grandi per chi sembrava essere un gatto reincarnato in un uomo, ma che al momento giusto finivano con l’assottigliarsi e ridursi a due fessure, due piccoli spiragli dai quali lei osservava, studiava, valutava in silenzio. Di un azzurro così intenso da non sembrare tale, delle volte corposo come la tempera sulla tela di un pittore confuso dal nervoso mare in inverno, delle volte foschi come un acquarello, nel torbido di chissà quali pensieri e sensazioni.
Daphne poteva considerarsi di una bellezza particolare. A guardarla bene forse non aveva niente di particolare in effetti, forse tutto era nascosto dietro al suo sguardo e al suo essere così sfuggente. Più lo era, più tutti cercavano di afferrarla e di tenerla per loro, a scaldare il loro freddo. Lei, che se possibile sapeva essere gelida come ghiaccio. All’occorrenza, come per tutto il resto.

Daphne era quella che scaldava il letto di Adrian, e scaldava Adrian stesso, e alla fine lei sentiva ancora lo stesso freddo di prima.
Daphne era quella che portava chiunque la guardasse con dell’interesse a preoccuparsi che il cuore non gli saltasse fuori dalla gola, e poi era lei a chiedersi di tanto in tanto se fosse tutto a posto in lei, se il suo cuore funzionasse come quello di tutti, e perché non le dava quasi mai cenno di esistere.
Daphne era la medicina di appagamento e felicità, ma lei non guariva mai.
Malata da lungo tempo di un male che non trovava cura. Ne sarebbe morta, mai?

+++



“Come va con Daphne, Adrian?”. Una domanda scontata, forse disinteressata forse no.
“Perché me lo chiedi?” Il dubbio insinuato dalla consapevolezza di non poter mai avere tutto sotto controllo.
“Era tanto per dire”. Difesa contro una accusa sibillina e feroce.
“Bene, grazie”. Una risposta secca, a negare l’evidenza e a difendere la stessa allo stesso tempo.
“E allora perché non è rimasta?”. Palese insinuazione accompagnata da un ghigno.
“Tanto per fare qualcosa”. Evidente difficoltà nel reprimere la rabbia per la grande verità dietro tutto quello che non aveva potuto dire.
“Daphne è sempre così annoiata”. Aveva stretto i denti. Da te. Era quello il grande dubbio.
“Chi non lo è ad ascoltare questi discorsi?”. Una voce estranea. Un finto salvatore. Un futuro traditore sotto mentite spoglie. Aveva parlato e se ne era andato con la stessa noncuranza.
Adrian tenne i suoi occhi nocciola sulla schiena di Blaise Zabini fino a quando non divenne troppo piccolo per vederlo ad occhio umano.
“E’ così sfuggente, Blaise”. Una voce poco distante da lui. Adrian voltò la testa di scatto, i sensi all’erta, il corpo pronto a difendersi.
Già, era così sfuggente.
Strinse forte i pugni. Avrebbe voluto vantare dei diritti su Blaise, lui. Avrebbe voluto essere così veloce da trovarsi dei passi avanti a lui, e poterlo fermare per tenerlo stretto a sé e sfigurare quel volto di perfetta eleganza, scalfire quell’eterna ironia stampata su quella faccia.
Blaise Zabini, arbiter elegantiarum.
Tutto di lui lo infastidiva, e niente aveva lo stesso effetto sulla persona in questione, ed era un moto di rabbia così intenso da fargli provare il desiderio di procurargli un male fisico, sentirlo gemere sotto i colpi ripetuti della sua superiorità.
Non tollerava quell’abitudine di sapere e poter criticare tutto e tutti con un sorriso velato sulle labbra e parole argute, sempre pronte sulle sue labbra, che tutti prendevano per verità. Quegli occhi critici e criptici, i messaggi segreti dietro la più banale delle affermazioni, le insinuazioni e ironiche prese in giro nascosti dietro ad innocenti e disinteressate domande quotidiane.
E il permettergli di fare tutto quello, giustificandolo solo perché lasciava che lo si definisse un esteta, amante del bello che non riusciva a tollerare ciò che non lo fosse ai suoi occhi. Occhi di gatto, che brillavano nella notte.

+++



Draco rimase a guardarlo per pochi secondi, solo quelli che gli furono sufficienti a stabilire dove potesse mai essere diretto, e cosa gli fosse mai passato per la sua mente ricca di ironiche raffinatezze ed eruditi pensieri.
Blaise Zabini, era un esteta, era stato un gatto nella sua vita precedente, era schivo ed era sfuggente, allo stesso modo in cui amava i piaceri, le sfide e Daphne Greengrass.
E non l’aveva voluta nel suo letto se non accompagnata dal suo sonno leggero e di facile risveglio.

+++



Tutta sola a cercare nel suo sguardo riflesso nell’acqua un segno di una possibile felicità, il giorno del compimento dei suoi sedici anni. Inutile dire che non l’aveva trovata.
Poi un sasso l’aveva colpita in pieno viso, increspandone i contorni. Era sparita prima che potesse ricomporsi, tirando indietro la testa per guardarsi intorno nel buio della notte.
Non aveva trovato niente, se non qualcosa che brillava nella notte e guardava proprio lei.
Gli occhi di un gatto.

+++



Non l’aveva seguita. Aveva solo sentito il suo profumo, e gli era piaciuto. Gli era piaciuto anche se era l’ennesima volta che lo sentiva. Era tutta sola a contemplare la sua incredula infelicità nel suo stesso sguardo, nelle acque del lago, la notte del suo sedicesimo compleanno.
Erano sei anni ormai, spesi a guardarla di tanto in tanto, quando non la vedeva dietro gli occhi chiusi, o aleggiare nei suoi pensieri, indisturbata.
Quella notte l’aveva guardata con più attenzione del solito, con i suoi occhi diffidenti e in mezzo a tutta quella gente, l’aveva vista finalmente, in pieno, in tutto quello che era, in quello che non era e avrebbe dovuto essere, nella sua infelicità e nell’inadeguatezza di tutti gli altri accanto a lei. Aveva capito che non era quello il suo posto, le avrebbe chiesto cosa mai ci facesse lì, perché non aveva cercato di scappare. Ma non aveva fatto in tempo, perché lo fece nell’attimo in cui la voce di Adrian Pucey lo distrasse.
“E’ bella stasera, Daphne, vero?”.
Aveva smosso quel qualcosa che aveva nel bicchiere e poi aveva alzato lo sguardo per cercarla. Non c’era più.
Sfuggente.
Non gli aveva risposto. Se ne era andato via. Via, fuori da quella stanza, lontano da quella gente, in riva al lago, dietro al suo profumo e alla consapevolezza che non l’avrebbe toccata neanche con un dito fino a quando non fosse stata consapevole di quello che lei stessa era in realtà.
Voleva fare l’amore con Daphne Greengrass, solo con lei.

+++



Le era bastato quello. Quegli occhi in mezzo al buio. Qualcosa di riconoscibile, qualcosa che era realmente lì accanto a lei, e per quel momento era una certezza assoluta che a lei sarebbe stata sufficiente.
Si era alzata in silenzio, i suoi passi non avevano prodotto alcun suono sull’erba umida della notte, e aveva cercato le sue labbra con lo sguardo. Le aveva trovate quasi subito e vi aveva poggiato le sue.
Due mani l’avevano scostata con ferma e sofferta gentilezza.
“La felicità non si trova nella bocca di qualcuno”.
E quegli occhi si erano socchiusi, e lei non li aveva più riconosciuti in quella notte come li aveva visti prima. Li aveva guardati smarrita mentre qualcosa di simile alla rabbia le giungeva nella mente.
Stupido filosofo.
Non era la morale che voleva. Non era una risposta che cercava. Voleva solo un bacio e una notte di baci. Lui non lo voleva un bacio? Non voleva stare con lei quella notte? Qualcun altro avrebbe detto si.
Sfuggente.
Non aveva sentito i suoi passi allontanarsi, ma aveva riconosciuto la sua assenza.

+++



Aveva un respiro leggerissimo. Sembrava quasi che fosse morta, stesa in quel letto profano, con gli occhi chiusi e le labbra leggermente dischiuse, a lasciar soffiare quel soffio vitale, appena distinguibile.
Il suo petto si alzava e si abbassava però, e la mano che le era scivolata dal letto, di tanto in tanto si muoveva appena, in un tenero dondolio. L’ombra proiettata sul pavimento dalla luce della luna lì fuori, le tende scostate per dimenticanza, era coperta dal suo corpo, chino su di lei, a guardare il suo viso e respirare il suo sonno.
I capelli arruffati le cadevano sul viso e davanti al seno. Ne aveva scostata una ciocca, e si era soffermato un attimo a rimirare la pelle appena colorita del seno, appena visibile dalla maglia che aveva ancora indosso.
E poi si era ritrovato seduto lì per terra, con la schiena appoggiata al muro e la testa leggermente alzata, al livello di quel letto, a pensare che un giorno glielo avrebbe detto di quella notte passata a guardare i suoi occhi mentre dormiva, mentre lui chiudeva i suoi per sentirla più vicina.

L’unica notte in cui avevano dormito insieme.

+++



Quella mattina si era svegliata e si era accorta di essere ancora vestita con gli abiti della sera prima. Le tende erano scostate e nella stanza c’era il silenzio più assoluto, rotto solo dal sussurro delle lenzuola contro il suo corpo. Qualcuno forse l’aveva coperta durante la notte. Forse quello stesso qualcuno che le aveva lasciato una rosa sul comodino, senza aspettare che si svegliasse.
Adrian.
Non c’era altro su quel biglietto.
Lo aveva messo da parte e aveva preso la rosa tra le mani. Sorrise sfiorando con la punta di un dito una delle spine.
Lei ne aveva molte di più.
Quando aprì la porta, trovò Adrian seduto su un divano della Sala Comune, a guardare in alto, dove prima c’era solo il legno della porta e ora Daphne, con una rosa tra le mani e mille spine nella carne.
“Ben svegliata”.
Le aveva detto a voce troppo alta perché non le rimbombasse nella testa e non le facesse male.
“Grazie”.
Poi l’aveva baciata. Aveva sentito le labbra di Adrian contro le proprie e non aveva reagito.
Lui un bacio lo voleva e lo avrebbe voluto anche la notte prima.
Dischiuse le sue e si lasciò baciare.

+++



Si era lasciata baciare da Adrian e aveva accettato che la gente lo definisse “il suo ragazzo”.
Non aveva aspettato altro da molto prima di quella notte, e l’angoscia che aveva provato nell’attesa, aveva deciso che non l’avrebbe più provata, l’arbiter elegantiarum.
Quella mattina l’aveva guardata con quella rosa in mano e l’incertezza con la quale la teneva in mano, e con un sorriso era rimasto a guardarla ancora un po’.
E mentre la guardava, decideva che quello sarebbe stata l’ultima volta in cui l’avrebbe guardata in quel modo.
Poi si era dedicato al culto del bello e della sua persona, aveva aperto le danze, aveva presenziato agli eventi più importanti, aveva stretto la sua amicizia con Draco, aveva affinato la sua astuzia, dormito con qualche ragazza, passato le sue notti in bianco e ogni tanto pensato a lei.
Fino a quando aveva accettato l’idea che l’aver fatto tutto quello per non pensare a lei, equivaleva al pensare a lei, che la fatica e il dispendio di energie era lo stesso, e che tra le due cose pensare a lei era il più doloroso ma il più indispensabile.

Delle volte l’aveva vista voltarsi d’improvviso, gli occhi guardinghi si erano posati su tutto quello che era intorno a lei, e poi lentamente si era voltata.
Era solo lui, che la guardava da lontano, con gli occhi ridotti a due fessure, mentre viveva la sua vita nella sua incompletezza e infelicità.
Ma dai suoi primi sedici anni, non l’aveva più seguita. Fino a quel giorno.

+++



Il lago era sempre quello, il suo volto sempre lo stesso, la sua infelicità ancora lì accanto a lei.
La sera iniziava a giungere al suo termine, le tinte del cielo erano quelle della notte, e di stelle ce ne erano poche.
Quella notte faceva difficoltà a distinguere i suoi lineamenti nell’acqua petrolio del lago.
Poi qualcosa aveva increspato le acque del lago. Un sasso, rapido e quasi invisibile nel torbido di quella sera, ma guizzò davanti ai suoi occhi di gatto e un attimo dopo si era voltata, sentendo una rabbia antica sferzarle il viso, segreta e invisibile compagna del vento gelido di quella notte.
“Lo so cosa stai pensando”.
Aveva detto subito, la voce arrochita dal fumo della sigaretta che teneva ancora tra due dita.
Ancora tu.
“Che sono una nevrotica insoddisfatta”.
Concluse da sola, portando la sigaretta alle labbra e aspirando con rabbia, sperando che venisse scambiata per foga. Ma agli occhi, attenti osservatori, di un gatto e di Blaise non sfuggiva mai niente.
Sbagliato.
“Che Adrian ha una pazienza infinita con me e che io non la dovrei meritare”.
Proseguì dopo aver lasciato sfuggire dalle sue labbra dei sottili fili di fumo, che si esibirono in volute piuttosto acrobatiche.
Forse.
“E che solo una come me si sarebbe venduta per una rosa portata di notte”.
Aggiunse tenendo tra le dita l’ultimo tratto di sigaretta, ostinata a non volerlo gettare via, altrimenti non avrebbe saputo cosa fare con le proprie mani. O forse si, e quello sarebbe stato il vero problema.
“Io non me ne sarei andato”.
La sua voce suonava calma e quasi piatta, rasentava persino l’indifferenza nell’esprimere ad alta voce un personale parere sulla scelta di Adrian, per conquistarla. Sembrava di sentire Draco commentare un azione durante una partita di Quidditich, nel dire che lui si sarebbe concentrato sul secondo anello, non sul primo.
“Avrei aspettato di vedere l’espressione che avresti fatto la mattina”.
Daphne andò a cercare un’altra sigaretta, ma non la trovò. Si ricordò troppo tardi di averne rubata una ad Adrian nell’andare via. Blaise gliene porse una, con semplicità. Daphne allungò la mano e fece attenzione a non sfiorare quella di Blaise nel prendere la sigaretta, per non sentire il brivido e l’offesa per quel bacio e quella notte negati, dei suoi sedici anni.
Finì con il pensare a come sarebbe stato trovare Adrian seduto per terra ad aspettare che si svegliasse, e a guardare la sua espressione nel vedere la rosa. Ma non le piacque nel complesso. C’era qualcosa che non andava. Alla seconda boccata, capì dov’era l’errore.
“Sarebbe stato meglio che me l’avessi lasciata tu quella rosa”.
Ammise.

+++



Per la prima volta, forse inconsapevolmente, aveva espresso un desiderio.
Avrebbe voluto che fosse stato lui a lasciare quella rosa per lei, sul suo comodino.
E aveva la chiave della sua felicità in una mano. Aveva espresso un desiderio. Le prese la sigaretta di mano e la portò alle labbra, rubandole un tiro. Lei lo lasciò fare, e lo guardava con quegli occhi grandi ora ridotti a due fessure, perché era il caso di farlo.
“Ormai è andata. Prova con qualcos’altro”.
commentò scrollando le spalle, con quel sorriso velato sul viso. Ma lei non poteva vederlo, la notte era arrivata e aveva oscurato tutto.

+++



Lentamente, la vista era andata scemando. La notte aveva spodestato la sera e la sua luce fioca, e ora era rimasto solo il buio e quelle due o tre stelle troppo lontane per poter illuminare.
Alzò lo sguardo e li trovò di nuovo. Li vide ancora.
Due occhi brillare nella notte.
L’unica luce e l’unica certezza assoluta, insieme a quello che desiderava in quel momento.
“Avrei voluto che mi baciassi quella notte”.
Lo guardò dritto negli occhi, sperando che lui potesse vedere i suoi.
“Prova ancora”.
Si rese conto di non avere niente per le mani. Ne tese una verso di lui. Blaise le restituì la sigaretta. La incastrò tra le due dita in un gesto ormai automatico e scrollò un po’ di cenere sull’erba umida come quella notte.
“Vorrei che mi baciassi”.
E quello era tutto quello che era disposta a dire.

+++



Un filo d’erba si bruciò.
La sigaretta rotolò in terra, bruciandone altri.

+++



In quel momento scoprì che la sua mano era perfetta per tenere il viso di Daphne poggiato contro.
Reclinò di poco la testa, e si avvicinò lentamente, perché si era accorto che le sue labbra tremavano, e che gli occhi di Daphne avevano indugiato su di lui fino alla fine, prima di essere vinti dalla conferma di quello che stava per fare.
Si era assicurata che il suo desiderio venisse esaudito, e poi aveva sentito qualcosa tremarle dentro e il cuore battere. E aveva scoperto che allora c’era, e che funzionava anche il suo come quello degli altri.
Dischiuse le labbra per prendere fiato, perché le era mancato in tutto quel breve spazio di secondi, mentre sentiva Blaise sempre più vicino, e la sua mano calda tenerle il viso e tenerla accanto a sé, fino a quando non sentì le sue labbra sfiorarle la pelle, e poggiarvisi appena.
E scoprì anche che sarebbe potuta morire anche in quel preciso istante, ma che non sarebbe stata la malattia ad ucciderla. Stava guarendo, forse.

+++



La teneva vicino a sé e accarezzava la sua pelle con le labbra.
La baciò all’angolo della bocca, sentendo le labbra tremare e il respiro di Daphne farsi intenso.
Si spostò di poco ed ebbe quella bocca delicata, quasi esangue, sulla propria e sarebbe rimasto lì anche tutta la vita, se lei non avesse dischiuso le labbra.
Allora scostò di pochi millimetri le sue labbra, e lasciò che lei gli andasse incontro. Le accarezzò il labbro inferiore con la lingua, mentre qualcosa perdeva consistenza e concezione intorno a lui, e scoprì velocemente, senza soffermarvisi troppo, che era tutto il resto.
Tutto il resto che non fossero lui, Daphne e le loro labbra, e la loro lingua e i loro corpi.
Era lì, la teneva tra le braccia e incontrava la sua lingua, e incastrava le loro labbra.

+++



Lo sentì. Lo sentì vivo contro di lei, e sentiva la sua lingua muoversi sulle sue labbra e contro la sua, e nella sua bocca, ospite gradita e desiderata, ora che aveva scoperto il significato di quella sensazione che l’aveva soffocata per tutto quel tempo. Troppo. Ed ora si abbandonava al suo sapore, alla sua mano contro il suo viso e alla sua mano sulla sua schiena. Non c’era altro posto dove sarebbero dovute essere, e d’improvviso le sue mani avevano smesso di tormentarsi frenetiche, occupate ad accarezzare quei capelli, e a circondare quel collo, e sfiorare quella schiena e passare sotto la sua maglia.
Quando Blaise staccò appena le sue labbra, abbandonando le sue e sciogliendo per un attimo ma con delicatezza, l’intreccio delle loro lingue, aprì gli occhi, e nel buio della notte riconobbe ancora una volta i suoi, e più lentamente anche il resto. Il suo collo dove prima aveva poggiato le labbra, il suo mento, e la fronte, e il naso che aveva urtato per un attimo contro il suo, e la bocca e le labbra, leggermente più rosse del solito per il lavoro al quale erano state sottoposte.
E lo vide, nel buio vide lui.

+++



Sentì la mano fredda di Daphne sfiorargli il viso, in una carezza di scoperta e di una incredulità e sorpresa che lentamente andarono affievolendosi, lasciando il posto ad una emozione chiara e forte, da farla sussultare un attimo.
Prima che potesse ritrarla, sollevò una mano e andò a posarla sulla sua, caldo con il freddo, ad allontanarla dal viso e a legarla con quella di Daphne, ad intrecciare le dita e stringere forte, mentre le loro labbra tornavano a farsi vicine e a sfregarsi.
Le morse lievemente il labbro inferiore e la fece ridere.
E poi sciolse quell’unione per prenderle di nuovo il viso tra le mani e portarla verso di sé, sentirla vicina, mentre i loro corpi erano più vicini di prima e di quanto lo fossero mai stati.
E sembravano aderire perfettamente, con una semplice e naturale perfezione da farli quasi sussultare per la stupore, ma un attimo dopo non ci facevano più caso, quando la mano calda di Blaise era andata ad accarezzare la pelle fredda di Daphne da sotto la camicia leggera per quella notte così fredda.

+++



“Hai freddo?”.
Le domandò d’istinto a quella constatazione.
Daphne alzò un momento lo sguardo e rise sommessamente, appoggiandosi contro di lui, la testa contro il suo petto quasi, e riusciva a distinguere deboli il pulsare del cuore.
“Che domanda è?”.
Gli chiese poi senza allontanarsi da lui, così caldo e sicuro. Rise anche lui della sua domanda e della risata di Daphne, la prima di cui riuscisse a ricordare, e la sollevò da terra, tenendola stretta e immergendo la testa tra i suoi capelli. Avevano un buon odore, che non aveva mai sentito prima, ma che da quel momento divenne l’Odore di Daphne.
“Non ci tornare da Adrian”.
Sussurrò d’un tratto. Fu così inaspettato anche per lui, sentirselo dire, che entrambi si scostarono un attimo, turbati, e fecero di tutto per cercare di evitare di guardarsi.
“Mi darà per dispersa”.
Rispose cercando di scherzare nel dire quello che pensava realmente. Blaise strinse tra due dita una ciocca dei suoi capelli, accarezzandola piano.
Nei suoi occhi qualcosa si agitava, e Daphne smise di guardarlo quando capì che per lui sarebbe stato meglio non farle vedere quanto fosse emotivamente instabile in quel momento.
“Non ha alcun diritto su di te”.
Ribatté seccamente, lasciando andare i capelli di Daphne e cercando il suo sguardo, ora che nel suo c’era solo una cieca determinazione e una forte e stabile certezza. Fu Daphne a spostare i suoi occhi altrove.
“Sono la sua ragazza”.
E la sua voce era un flebile suono stanco.
“Non lo sei mai stata”.
E la voce di Blaise era risultata calda e quasi un sussurro, avendo percepito la stanchezza nel tono di Daphne.
Lei prese ancora una volta in considerazione la richiesta di Blaise.
“Prova ancora”.

+++



Soppesò quelle parole, con un sospiro altrettanto stanco.
Capiva che quello era il suo compromesso e che non avrebbe potuto lasciarlo cadere nel vuoto, perché aveva davanti a sé Daphne Greengrass.
“Torna sempre da me, allora”.
Daphne lo guardò a lungo negli occhi, poi abbassò la testa, mordendosi un labbro.
“Questo lo posso fare”.
Risolvette infine. Blaise indurì lo sguardo, serrò la mascella, nel guardarla e sentire le sue parole corrergli dietro nella sua mente. Daphne gli lanciò un’occhiata confusa, sollevando un sopracciglio. Iniziava a temere qualcosa. Poi capì.
“E lo voglio fare”.

+++



La teneva ancora tra le braccia, e percepiva quella leggera consistenza del suo peso contro di sé, quando capì che era il momento giusto, che lo aveva pensato e lo aveva promesso e che era un uomo di parola, Blaise Zabini.
Chinò di poco la testa per guardarla, e con una scossa leggera, cercò la sua attenzione. La convinse con un bacio sui capelli e uno sulla tempia.
Daphne sollevò il viso e gli rubò un bacio.
“Mh?”.
Poteva leggerle il sonno e la stanchezza negli occhi e la notte stava per lasciare il posto all’alba. Scosse la testa, e lasciò che lei si appoggiasse contro di lui, nell’umido di quell’erba, le chiuse gli occhi con un bacio e chiuse i suoi.
Per riaprirli pochi minuti dopo, e rimanere lì, seduto per terra con il corpo caldo di Daphne addosso, con il suo respiro leggero contro il suo petto, a guardarla in silenzio. Contare ogni respiro. Sfiorarle ogni tanto una ciocca di capelli. Chiudere gli occhi di tanto in tanto per riposarsi un po’.
E mentre aspettava che si svegliasse per poter guardare la sua faccia e la sua espressione nell’accorgersi di essere abbracciata a lui, pensò che prima o poi le avrebbe detto di aver passato due notti insonni, a guardarla mentre dormiva con gli occhi chiusi, a chiudere i suoi per sentirla ancora più vicina nonostante fosse su di lui, e che la notte prima aveva pensato che quella sarebbe stata l’unica notte in cui avrebbero dormito insieme.
E mai sbagliare era stata cosa più dolce e sperata come quella volta.



Fine.

Se vi va, una recensione è gradita. ^^

  
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Harry Potter / Vai alla pagina dell'autore: Briseide