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Autore: Silice    26/05/2010    6 recensioni
Fanfiction Prima classificata al contest "Dai Classici alle Fanfiction" indetto da Vogue91
Severus pregò mentalmente di non essere scelto. Fino a quel momento, non era mai toccato a lui.
“Severus.” Un soffio, un sibilo, e tutte le speranze del giovane Piton, tutto ciò che rimaneva della sua umanità, fu distrutto.
Fino a quel momento, non aveva mai ucciso nessuno.

Piccola (si fa per dire) one-shot, che tenta di cogliere gli attimi essenziali e più significativi per Serverus Piton negli anni immediatamente successivi alla fine della scuola: cosa sarebbe accaduto se si fosse trovato di fronte a una scelta? Riuscirà a trovare la chiave?
Genere: Romantico, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Lily Evans, Severus Piton, Voldemort
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Questa One-shot è nata in occasione del contest “Dai Classici alle FanFiction” indetto da Vogue91, che ringrazio sentitamente per aver avuto una così geniale idea, per avermi dato l’ispirazione e infine per i fantastici giudizi. Sostanzialmente, le linee guida consistevano nel scegliere un autore, di cui ci veniva fornita una citazione (nel mio caso, Dostoevskij: “Hanno pianto un po’, poi si sono abituati. A tutto si abitua quel vigliacco che è l’uomo.” da “Delitto e castigo”), colore e clima (per me, argento e fulmine).

Volevo ringraziare mia madre, che non ha mai perso occasione di ripetermi che Piton era in assoluto il suo personaggio preferito, così tanto che, alla fine, me ne sono innamorata anch’io.

Prima di permettervi di leggere, vi annoio con alcune precisazioni: Oltre alla citazione da inserire, vi sono nel racconto alcuni riferimenti o frasi che appartengono ad altri autori: la citazione riguardo alla chiave proviene da “Delitto e Castigo”, e in generale potrei dire che l’intera idea della chiave è tratta dalla trama del libro. Marlene McKinnon è un personaggio appartenente alla Rowling, che viene citato solo nel quinto libro, quando Moody mostra a Harry la foto dell’Ordine della Fenice: lì si dice che fu assassinata appena due settimane dopo lo scatto della foto. L’immagine del fiore spezzato da un aratro è di Catullo, mentre alcune frasi in corsivo riguardanti il rumore del cuore di Severus sono tratte dal “Cuore rivelatore” di Edgar Allan Poe, ed esprimono esattamente la paura, la confusione e l’angoscia che io ho tentato in qualche modo di trasmettere. La parola “resurrezione” al fondo del racconto rimanda al finale di “Delitto e Castigo”, e in generale l’intero racconto si ispira a queste due azioni, anche se sono vissute da Severus in un modo totalmente diverso da come succede nel romanzo.

Ho preferito mettere “What if?” negli avvertimenti, sebbene non si vedano le conseguenze degli stravolgimenti della trama, anche se indubbiamente ne sono presenti alcuni.

 

 

CHIAVE D’ARGENTO

 

“Oh, ti prego, Lily!”

Non appena pronunciò queste parole, Severus Piton capì che non erano quelle giuste. Lily non si aspettava un lamento biascicato e stizzito, totalmente privo di senso. Una sfuriata sì, una spiegazione forse, c’era anche qualche possibilità che le venisse rivolta una scusa. Ma quello, assolutamente no.

“Ti prego? Ti prego cosa, Severus?” Una Lily furibonda, con le mani sui fianchi, lo fissava con aria truce appena davanti all’entrata del dormitorio di Serpeverde.

“Sono venuta fin qui solo per questo? Non hai altro da dire? E’ un po’ misera come risposta da uno che aspira a essere il braccio destro del suo padrone, o sbaglio?”

Severus non fece una piega. Non era il tono furibondo e irrisorio di Lily che lo spaventava. La sua ira, anzi, era rassicurante. Finché era arrabbiata con lui, voleva dire che non l’aveva persa. Che c’era ancora un legame.

Poi, improvvisamente, qualcosa cambiò. Un sospiro di Lily gli fece alzare lo sguardo, che si posò sul volto pallido e tirato della giovane.

“Non pensavo… non avrei mai creduto che sarebbe finita così.”

Non furono le sue parole, ma il tono, spezzato e colmo d’angoscia, ad abbattere le ultime difese che Severus aveva faticosamente innalzato attorno a sé.

Lily alzò lo sguardo. Quando gli occhi neri e cupi di Severus incontrarono quelli verdi e sofferenti della ragazza, il suo cuore non si riempì di angoscia, come aveva temuto. Una lieve sensazione di benessere pervase ogni centimetro del suo corpo, un caldo piacere invase il suo cuore. Era finita, e lui lo sapeva. E sapeva anche di volerla ricordare così, bella, coraggiosa, fiera, mentre lottava per lui, per il suo affetto, per la loro amicizia.

Così, mentre la ammirava in silenzio, capì che non valeva la pena di crucciarsi così tanto. Era finita, e l’unica cosa che lui voleva, l’ultimo piccolo dono che le avrebbe chiesto era di poterla guardare un po’ di più, poter conservare nella sua memoria almeno un pezzetto di lei.

Severus Piton si sentiva in pace.

“E’ troppo tardi.”  La voce di lei risuonò, calma, nel corridoio vuoto. Le parole, scandite con lentezza, non suonavano come una domanda, ma piuttosto come un’affermazione, una conclusione, la sintesi di ciò che stava accadendo. E non richiedevano una risposta.

Lily gli si avvicinò, calma, sicura, totalmente priva del turbamento che prima aveva incrinato la sua voce. Gli prese una mano. Il calore della sua pelle su quella fredda di lui fu più piacevole di quanto Severus si aspettasse. I contatti fisici, fra loro, erano sempre stati pochi,ma in quel periodo erano ulteriormente diminuiti. Improvvisamente lei lo abbracciò. E Severus tornò bambino. Bambino, con lei. A nove anni, quando l’aveva vista per la prima volta. A undici, quando avevano valicato le porte della Sala Grande, insieme. A tredici, quando trascorrevano intere giornate a sperimentare nuove pozioni, da soli. A quindici, quando lei l’aveva difeso dai suoi stessi compagni di casa, in nome della loro amicizia.

Il diciassettenne Severus inspirò il suo profumo, la strinse fra le sue braccia, tentò di imprimere nella sua mente il suo sorriso, che in quel momento non poteva vedere. Dimenticò le lacrime, il dolore, l’amarezza e rinchiuse Lily, la sua Lily, il suo profumo, la sua risata, i suoi occhi in un piccolo anfratto del suo cuore. Gettò la chiave, così da poter conservare il suo ricordo, intatto per sempre.

Lily si staccò da lui, con gli occhi lucidi e un sorriso tremulo sulle labbra.

“Addio, Sev.”

Fu solo dopo che lei ebbe lasciato la stanza, portandosi via la loro amicizia, che Severus si accorse che il suo cuore non batteva più.

Si era portata via anche quello.

 

Hanno pianto un po’.

Era un’afosa giornata di Luglio. Severus Piton, chiuso nella sua stanza nella sua cupa dimora di Spinner’s End, sfogliava un libro dalla copertina nera e consunta. I capelli neri, abbastanza lunghi, sfioravano la punta del naso, ma lui era talmente assorto nella lettura del manuale che non se ne accorse. Improvvisamente, alzò gli occhi neri dal libro, come se si fosse ricordato in quell’esatto istante di qualcosa; spostò lo sguardo all’orologio, chiuse con uno scatto il volume, indossò il mantello nero e uscì.

Aspettò di essere arrivato alla fine della strada per smaterializzarsi. Anche quel giorno, il punto di ritrovo sarebbe stata Villa Malfoy. Il maniero, collocato in cima alla collina, era stato scelto come base da Voldemort e i suoi seguaci fin dal principio dell’estate: da quando Lucius era entrato nelle grazie del Ministro, era diventato sempre più facile nascondere le malvagità e gli intrighi che si celavano sotto l’aspetto di un antico residuo della famosa casata.

Severus si smaterializzò esattamente nel boschetto antistante alla casa. Il camminare per qualche metro in quei radi alberi gli procurava un triste piacere che, in qualche modo, alleviava il peso di quelle giornate. All’inizio, era stato tutto più difficile. Le urla, il dolore, le preghiere, lo avevano tormentato con tutta la loro crudeltà: capitava spesso che, tornando nella sua tetra dimora, si chiedesse che senso avesse tutto ciò, e, per un momento, abbracciasse la vana speranza di fuggire, di cambiare vita. Speranza vana, appunto, come si rendeva conto quando arrivava davanti al portone di casa sua: lì, fissando con mestizia la serratura argentata, senza mai versare lacrime, ma con il desiderio di farlo, capiva che non sarebbe più potuto tornare indietro, che ormai era troppo tardi.

Ma poi si era abituato.

Da molto tempo, ormai, aveva rinunciato pure a quel momentaneo sollievo dato dall’illusione di poter modificare la propria esistenza, e si era abbandonato a quello che la vita gli offriva. Aveva gettato le armi, e ora il suo corpo, vuoto, si trascinava brancolante lì dove il suo padrone gli comandava, lì dove compiva, ogni volta, il proprio dovere. Non sapeva se avrebbe avuto ancora la forza di reagire e, in fondo, non gli importava. Era sempre stato un codardo, e lo sarebbe sempre stato.

A tutto si abitua quel vigliacco che è l'uomo.

Aveva scelto spontaneamente di non soffrire, né di rammaricarsi per la propria condizione: la sua spiccata intelligenza lo portava a pensare che ne avrebbe patito troppo e troppo a lungo. Nonostante questa sua ferrea volontà di estraniarsi da quel mondo di emozioni spaventose, un ostacolo si frapponeva a questo suo obbiettivo. Ogni giorno, quando si svegliava, sentiva di aver sognato sempre la stessa cosa. Ogni mattina, quando si alzava, la sentiva nella sua mente, dentro di sé. Ogni sera, prima di coricarsi, poteva sentirla, nel cupo silenzio della sua casa. E ogni notte, quando chiudeva gli occhi, costituiva l’ultimo suo pensiero.

Era una tortura. Erano passati anni, ormai. Quello che al principio aveva considerato come un ricordo prezioso, un bene degno di essere gelosamente conservato nel suo cuore si era lentamente e impercettibilmente trasformato in un peso, aggravato di giorno in giorno dalla vita che conduceva. Detestare ciò che prima aveva amato non gli era mai apparso più facile.

 

E c’è una chiave, la più grossa di tutte, tre volte le altre, con ingegno dentato, certamente non del cassettone… Dunque c’è anche un qualche scrigno, o bauletto… Questo, sì, è curioso. I bauletti hanno tutti simili chiavi. D’altro lato, come è ignobile tutto ciò….

 

Severus cercava una chiave. Non una chiave di metallo, o di ottone. Aveva sempre pensato che fosse d’argento, prezioso, come lei, ma gelido, come lui.

Ma, naturalmente, una chiave del genere non esisteva. Cercava ogni giorno, da qualche anno a quella parte, una chiave che gli avrebbe permesso finalmente di aprire quel maledetto scrigno riposto in un angolo del suo cuore, e di gettare il contenuto in un qualche bidone dell’immondizia, preferibilmente il più lontano possibile. La cercava e la desiderava, e l’intensità di questa brama era pari soltanto al fastidio che gli procurava.

 

Severus entrò in uno stanzino buio, attraverso una porticina piccola e stretta su un lato della casa. Un elfo domestico, dallo sguardo arcigno e palesemente poco cordiale, lo accolse con una lanterna, e senza neanche rivolgergli un saluto, come sarebbe stato d’obbligo nei confronti di un superiore, gli volse le spalle, aspettando che lui lo seguisse. Severus non si stupì dell’accoglienza fredda della creatura: da quando l’Oscuro Signore aveva scelto la dimora dei Malfoy come base, l’atmosfera che regnava in quella casa si era fatta sempre più pesante. I coniugi Malfoy non dormivano più sonni tranquilli, e ogni loro gesto era adombrato dal timore di essere scoperti; da quando poi avevano avuto un bambino, appena un anno prima, la situazione era ulteriormente peggiorata, e i loro timori si erano moltiplicati. Severus e l’elfo camminarono per alcuni minuti attraverso un intricato dedalo di cunicoli, finché non giunsero in un’ampia sala sotterranea, illuminata fiocamente da alcune torce: in qualche modo, anche se era soltanto metà pomeriggio, nell’oscurità dei sotterranei di casa Malfoy si aveva sempre l’impressione che fosse notte, ma ciò non dispiaceva troppo a Severus. Si era ormai abituato a vivere nel buio.

Qualche istante, e una porta, dinanzi a loro, si aprì e Severus, senza esitare, si addentrò in quella che sembrava una spoglia e fredda stanza, in cui l’unico elemento decorativo era costituito da un ampio tavolo in marmo grigio, circondato da sedie dalle spalliere alte e dritte. Al fondo della stanza, a capotavola, si trovava una sedia diversa dalle altre, più simile a un trono, occupata in quel momento dall’Oscuro Signore.

Un paio di occhi gelidi si fermarono su Severus, che senza porgere alcun saluto, avanzò fino a prendere posto alla destra del suo padrone. Gli altri Mangiamorte, almeno una quindicina, erano già seduti, in attesa che il Signore Oscuro prendesse la parola, mettendo fine al silenzio.

“Buon pomeriggio, signori.” Una voce viscida, simile a quella di un serpente, sibilò nell’aria. Severus, che in un primo momento aveva provato timore di quel suono che trasudava una tale potenza e malvagità, ora non sentiva che un leggero brivido attraversagli la pelle. Il suo ferreo controllo delle emozioni gli aveva permesso di imparare a dominare perfino la sconfinata paura del proprio padrone, fino a trasformarla in un vago senso di irrequietezza.

“Vi starete chiedendo perché mai ho deciso di convocarvi qui prima del previsto, non è così, Rodolphus?” chiese con un lieve tono ironico. La settimana prima, Rodolphus Lestrange aveva commesso il terribile errore di perdere il controllo della maledizione Imperius su una delle persone più influenti che lavoravano al Ministero, e tutti, in quella stanza, sapevano che aveva pagato cara quella sua mancanza, come dimostravano le occhiaie intorno agli occhi e l’innaturale pallore del volto, segno di una prolungata maledizione Cruciatus. A quanto pareva, la sua tortura non era ancora finita.

Rodolphus aprì le labbra per balbettare qualcosa, ma non fece in tempo a trovare una risposta che Voldemort lo precedette.

“Dobbiamo tutti ringraziare Severus. E’ grazie a lui che oggi avremo la possibilità di festeggiare tutti assieme la buona notizia”.

Quindici volti pallidi e visibilmente impauriti si posarono su Severus, il quale aveva una vaga idea di ciò di cui il suo padrone stava parlando, anche se non riusciva a capire come il suo contributo avesse potuto portare a “buone notizie”.

“Ma prima, se non vi dispiace, qualche piccolo divertimento, per iniziare.” Severus alzò appena gli occhi verso il volto del Signore Oscuro. Solitamente, non si spingeva a tanto, limitandosi ad ascoltare la sua voce in rispettoso silenzio, senza mai alzare lo sguardo. Dal momento che il suo padrone, tuttavia, sembrava rivelare un’inconsueta letizia, decise di rischiare.

Il volto del Signore Oscuro, innaturalmente pallido, era trasfigurato da un ghigno crudele, che rivelava una feroce felicità. I suoi occhi, neri e gelidi, non trasmettevano altro che un’intensa e folle crudeltà, ma allo stesso tempo un’illimitata potenza che avrebbe fatto morire di paura chiunque avesse osato incrociare il suo sguardo. Non era un caso, dunque, che tutti i Mangiamorte fissassero intensamente il grigio marmo del tavolo.

Voldemort batté le mani, un gesto per lui del tutto inconsueto. Severus sentì un rumore secco, come di una bottiglia appena stappata, provenire da sopra le loro teste e, come una quindicina di altri Mangiamorte, alzò lo sguardo. Era la prima volta che, durante una riunione, accadeva una cosa simile: da una botola nel soffitto scese una gabbia, in cui giaceva una donna semisvenuta, di circa vent’anni, il cui braccio fuoriusciva appena dalle sbarre metalliche. I capelli, biondi e scarmigliati, le coprivano il viso. In generale, la sua figura era abbandonata in una posizione così scomposta che Severus si chiese se non fosse già morta.

“Signori, permettete che vi presenti Marlene McKinnon.” Disse Voldemort, con una lieve sfumatura sarcastica nella voce. Tutti i presenti trattenevano il respiro.

“Cos’è questo comportamento Marlene? Non si salutano più gli ospiti? “ La sua voce cambiò totalmente tono, diventando in qualche modo irata. Con un movimento della bacchetta, Marlene riprese conoscenza, e sollevò debolmente la testa. Guardò in basso, roteando gli occhi, mentre il terrore si faceva largo dentro di lei. Le poche forze che le rimanevano le fecero afferrare le sbarre, e girò la testa più e più volte, presa dalla disperazione, in cerca di una via d’uscita. Era in trappola, e un debole gemito uscì dalle sue labbra, che presero a tremare. Era vestita con qualche cencio sporco e consunto, ed era visibilmente magra e denutrita. Severus si chiese da quanto tempo la tenessero lì prigioniera.

“Marlene fa parte, o meglio, faceva parte, dell’Ordine della Fenice, non è così, Marlene?” chiese Voldemort con un tono estremamente cordiale. Qualche Mangiamorte si mosse nervosamente sulla propria sedia.

La ragazza sembrò svegliarsi proprio in quell’attimo. Fissò Voldemort con un misto di paura e disprezzo, che, considerata la sua posizione, rivelava una notevole dose di coraggio, o semplicemente di rassegnazione.

Il Signore Oscuro non attese una sua risposta. Si limitò a fissare con aria beata i presenti.

“Marlene ci ha notevolmente aiutati, ieri, confermando involontariamente ciò che già Severus mi aveva riferito. Dobbiamo molto a entrambi, e volevo darvi la possibilità di ringraziare anche la nostra preziosa ospite in modo adeguato.”

Fissò a uno a uno i presenti, scrutando le loro espressioni.

“Chi vuole avere l’onore?” Non attendeva una risposta. Sarebbe stato l’Oscuro Signore a decidere.

Severus pregò mentalmente di non essere scelto. Fino a quel momento, non era mai toccato a lui.

“Severus.” Un soffio, un sibilo, e tutte le speranze del giovane Piton, tutto ciò che rimaneva della sua umanità, fu distrutto.

Fino a quel momento, non aveva mai ucciso nessuno.

Voldemort lo fissò attentamente, mentre si alzava dalla sedia e impugnava la bacchetta, tentando simultaneamente di non pensare a ciò che stava per fare e di mascherare le sue emozioni dietro una fredda impassibilità.

Solo in quel momento Marlene sembrò capire ciò che stava per succedere, e il suo spirito di sopravvivenza ebbe la meglio sul suo animo battagliero. Cominciò a dimenarsi e a stringere convulsamente le sbarre della gabbia, mentre lacrime di disperazione le rigavano il volto. Il suo sguardo, che vagava frettolosamente in cerca di una via d’uscita, si posò su Severus, che riconobbe come il suo carnefice. Severus, dal canto suo, tentò di non fissare quegli occhi, che, imploranti, reclamavano di vivere.

“No, no!” I movimenti della giovane si erano fatti spasmodici, e sembrava in preda ad un’incontrollabile pazzia.

“No, ti prego, ti scongiuro, no!” La sua voce, rotta dal pianto e dalla paura, obbligò Severus ad alzare gli occhi.

Era bella, pensò. Era giovane. Meritava di vivere. Non era una codarda, non era una vigliacca, non si era abituata al male. Aveva lottato, e ora meritava di vivere.

Delitto.

“Avada Kedavra.”

Delitto.

Il suo corpo aveva fatto ciò che il suo cuore non aveva avuto il coraggio di compiere. La sua mano si era alzata, le sue labbra avevano scandito quelle parole, i suoi occhi erano rimasti fissi, duri e vuoti, sul corpo della ragazza che si era afflosciato come un fiore spezzato da un aratro. Intanto, dentro di sé, urlava di disperazione.

Delitto.

“Ottimo, Severus.” L’Oscuro Signore non attese neanche che la minuscola gabbia fosse risalita attraverso la botola per scomparire nel soffitto.

“Ora non vi farò attendere oltre, per comunicarvi la splendida notizia. Si tratta della profezia, che Severus mi ha riferito qualche tempo fa. Un’informazione alquanto preziosa, oserei dire. Ora, come sapete, sono state fatte delle ricerche.”

Le parole di Voldemort risuonavano nelle orecchie di Severus come un’eco lontano. Di cosa stava parlando?

“Sono felice di annunciare che abbiamo finalmente il nome di quel bambino, il Prescelto” aggiunse Voldemort, con un ghigno sarcastico. “che dovrebbe, diciamo, essere il mio rivale in un lontano futuro.” Sventolò la mano pallida e ossuta per aria, quasi a indicare la mancanza di sostanzialità di queste affermazioni.

“Si tratta sfortunatamente, di una famiglia ben protetta, ma non credo che sarà difficile sistemare il pargolo e i suoi genitori. Soprattutto da quando siamo a conoscenza della loro abitazione, grazie all’aiuto di un collaboratore insospettabile.”

Un lieve pizzicorio si diffuse all’altezza della nuca di Severus. Il suo cervello, momentaneamente fuori uso per ciò che era appena successo, ricominciò a funzionare e a elaborare ciò che aveva appena sentito.

“Si chiama Harry. Nome grazioso, non trovate?” Il tono canzonatorio nella voce del loro padrone spinse alcuni fra i Mangiamorte a sogghignare. Dall’altra parte del tavolo, Bellatrix represse a stento una risata.

Severus si fissò le mani, sudate, che lui vedeva macchiate di sangue.

Delitto.

“Harry Potter, figlio di quel sudicio traditore della razza purosangue, e di quella nata-babbana, Evans.”

 

Evans.

Evans.

Evans.

Lily.

E castigo.

 

Severus non aveva idea di ciò che stava accadendo lì, in quella stanza. Per quanto ne sapeva, poteva regnare il perfetto silenzio o una tempesta infernale, ma tutto ciò che riusciva a sentire, in quel momento, era il battito del suo cuore, e un vorticoso ronzio nelle orecchie. La sua vista era offuscata, i suoi sensi annebbiati. Ma il rumore sovrastava ormai tutto, e cresceva, cresceva ancora, senza fine. Aumentava, sempre di più, senza che lui potesse fare nulla per fermarlo. Una parte del suo corpo, quella meglio addestrata, tentò di riprendere il controllo dei suoi lineamenti, e di disegnare sul suo volto una maschera di impassibilità. Il terrore lo colse. Era possibile che non sentissero? Quel nome, il suo nome, era stato per lui un fulmine a ciel sereno. E ora, dentro il suo cuore, si scatenava una tempesta.

Severus rimase per qualche istante a fissare le venature del marmo sotto le sue mani, meravigliato che non stessero tremando. Quando riprese il controllo di una parte dei suoi sensi, si accorse che un mormorio si era diffuso nella stanza, suscitato dall’improvvisa rivelazione e delle conseguenze che essa avrebbe comportato. Non aveva il coraggio di alzare lo sguardo e di fissare i presenti. Era sicuro che il suo padrone, o forse anche alcuni degli stessi Mangiamorte, avessero notato il terrore e l’angoscia che per qualche istante avevano regnato sul suo volto, o che almeno, se per qualche fortunato caso non se ne fossero accorti, da un momento all’altro qualcuno si sarebbe levato in piedi chiedendo la ragione di tutto quel trambusto. Perché allora nessuno lo faceva? Perché se ne stavano lì, fermi, con espressioni impassibili, al massimo felici per la recente notizia? Perché nessuno era sconvolto dal frastuono della tempesta?

Il corpo di Severus si mosse autonomamente quando Voldemort congedò i suoi seguaci con un semplice gesto della mano. In un niente, si ritrovò nel boschetto di fronte a casa Malfoy, senza avere la più pallida idea di come era finito lì.

“Non c’è tempo da perdere. Agiremo presto, prima che scoprano i nostri piani.”

Le parole che Voldemort aveva pronunciato, e che il suo cervello aveva memorizzato, lo colpirono, spazzando via, momentaneamente, ogni altro pensiero. Presto? Quanto presto? Quanto tempo le sarebbe rimasto ancora da vivere?

Severus vacillò, e tese la mano ossuta verso uno degli alberi, cercando un appiglio. Non poteva essere. Ciò che più lo lasciava attonito era la sua stessa debolezza. Anni e anni trascorsi a tentare di dimenticare, di estraniarsi da quel mondo di emozioni che l’avrebbe fatto solo soffrire, di trovare la chiave per liberare finalmente quel ricordo che tanto lo torturava… Tutto invano. Era bastato un nome, un vago accenno, come un fulmine improvviso, per farlo capitolare.

Si appoggiò con la schiena al tronco dell’albero, scivolando lentamente verso il basso, fino a sedersi sulla terra spoglia. Si prese la testa fra le mani.

Hanno pianto un po’.

Non aveva mai pianto. Quando le lacrime cominciarono a scorrergli lungo le guance, la sua prima impressione fu di assoluta sorpresa. Quello non era lui: non era il cinico, freddo e spietato braccio destro dell’Oscuro Signore, quello che piangeva in un bosco solitario, a terra, con il capo abbassato.

Ma poi si sono abituati.

Si era abituato alla sua misera esistenza, e si era anche abituato a tenere dentro di sé il suo doloroso ricordo, senza potersene liberare. Ma ora, avrebbe mai potuto abituarsi a questo? Avrebbe davvero potuto sopportare il rimorso? Sarebbe davvero riuscito a vivere in un mondo in cui lei non viveva?

A tutto si abitua quel vigliacco che è l'uomo.

Sarebbe davvero stato così codardo?

 

Non sapeva quanto tempo era passato da quando aveva cominciato a piangere. Dopo quello che gli era parso un centinaio d’anni, o forse di più, alzò lo sguardo, e si ritrovò a fissare il tetro paesaggio che lo circondava. Non aveva mai visto niente di più triste. Aveva visto qualcosa di più spaventoso, certo, e sicuramente qualcosa di più doloroso, ma non aveva mai provato il sentimento di quieta tristezza che quel luogo sembrava suscitare in lui. Nonostante ciò, sarebbe voluto rimanere lì, seduto per terra, per sempre. Tornare nel mondo, avrebbe significato tornare in una realtà in cui lei sarebbe sicuramente morta, e in cui lui era uno spietato assassino. Severus si ritrovò a pensare a quella ragazza, Marlene. Chissà se lei aveva mai provato tanta tristezza. Quel che era certo era che, a causa sua, non l’avrebbe provata mai più.

Severus non aveva avuto scelta. L’aveva uccisa, ma non di sua volontà. La ragazza, sarebbe morta comunque, per mano di qualcun altro. Ma solo in quel momento Severus pensò a un particolare che non aveva considerato, di cui si accorse con stupore: uccidendola, non aveva condannato soltanto lei, ma anche se stesso.

E ora, per qualche strana volontà del Destino, aveva scoperto di essere anche la causa della morte dell’unica cosa che per lui avesse un senso, in quel mondo. Severus non credeva nel Destino, ma in quel momento, mentre pensava, decise che, se davvero esisteva, sapeva essere davvero crudele.

La sua voce gli esplose nella testa, colpendolo come mille pugnali. La sua risata, calda, sincera, lo fece rabbrividire. Ripensò al loro ultimo incontro. Lei era venuta da lui, lo aveva abbracciato, gli aveva detto addio. Aveva scelto di volgere le spalle al male, e insieme ad esso, a lui. Lei aveva fatto una scelta, quella più coraggiosa.

Marlene McKinnon non aveva avuto il privilegio di scegliere quando morire, ma sicuramente aveva scelto il come, molto tempo prima, quando si era schierata contro Voldemort e i suoi seguaci.

Perché lui non avrebbe potuto fare lo stesso?

In quel momento, uno strano pensiero attraversò la mente di Severus: forse, il Destino non era poi così malvagio come sembrava. Forse, gli stava dando una seconda possibilità. Forse, la morte di Marlene avrebbe avuto un senso. Forse.

Si alzò. Non sapeva esattamente che cosa avrebbe fatto, ma una forza inestinguibile sembrava essersi impossessata del suo corpo e della sua mente, e non sembrava voler scendere a compromessi con la paura del suo padrone. Se avesse preso posizione contro di lui, sarebbe morto, e lo sapeva. Ma, almeno, avrebbe scelto il come, e sicuramente sarebbe stato un “come” molto più grandioso di quello che aveva sempre immaginato per sé: sarebbe morto per salvare l’unica cosa che, a parer suo, rendeva il mondo un posto migliore. Sarebbe morto come Marlene.

Cominciò a camminare a grandi passi, improvvisamente dimentico della tristezza provata appena qualche attimo prima. Non sapeva dove stava andando, ma camminava con un’inquietante euforia e determinazione, che lo spingevano a non fermarsi più.

È questo il coraggio, dunque, pensò, con sincera curiosità, è questo che si prova quando si lotta per qualcuno.

La notte stava lentamente calando sul paesaggio. Enormi nubi avevano occupato l’intero cielo, e un temporale sembrava in arrivo. Conosceva l’indirizzo, dal momento che Voldemort l’aveva rivelato alla riunione, avvisando i Mangiamorte di tenersi pronti a un’eventuale incursione. Difficilmente un qualche aiuto sarebbe stato utile all’Oscuro Signore, ma era essenziale che i suoi seguaci si occupassero degli Auror, nel caso ce ne fossero stati, mentre lui pensava a eliminare il bambino e i suoi genitori.

Severus si materializzò al fondo di una stradina di Godric’s Hollow. Una marea di dubbi lo assalirono. L’ultima volta che l’aveva vista, lei l’aveva rinnegato per sempre: cosa gli faceva pensare che lei gli avrebbe creduto? Quale garanzia poteva offrirle? Oltre a questi dubbi, si sentì preso da un’ondata di panico: era possibile che il Signore Oscuro gli avesse letto nella mente, o avesse in qualche modo previsto le sue azioni?

Era già troppo tardi?

Le sue gambe, però, continuavano a camminare. Qualsiasi dubbio, qualsiasi timore avesse, per la prima volta in vita sua si sentiva sicuro su dove voleva andare, sulla sua scelta. E, per qualche assurda ragione, qualcosa gli diceva che avrebbe trovato la sua chiave d’argento una volta per tutte.

Sopra di sé, sentì i tuoni lacerare il cielo. Lampi illuminavano a tratti la strada.

 Fulmini, pensò tranquillo, cogliendo in quell’attimo la triste ironia. La sua, era stata una giornata di fulmini a ciel sereno. Quella sua scelta, però, quel suo personalissimo fulmine, era stato il più gradito di tutti.

Man mano che si avvicinava al numero esatto, i dubbi e i timori si dissolvevano, e passo dopo passo sentiva crescere dentro di sé un vago sentimento di mite euforia. Era come una resurrezione. Si rese conto che non gli sarebbe importato più di tanto l’esito delle sue azioni, in fondo non voleva sapere come sarebbe andata a finire. Da qualche parte, dentro di sé, sapeva che quel gesto, da parte sua, era il suo lieto fine. Aveva scelto di non essere un codardo, aveva scelto lei, e niente l’avrebbe mai reso più felice.

Alla fine, si ritrovò immobile davanti alla porta di quella che doveva essere la sua casa. Salì qualche gradino, e trattenne il respiro. Un lieve sorriso gli increspò le labbra quando notò la serratura dal colore argenteo. Forse, il Destino esisteva davvero.

Suonò. In quei pochi attimi che seguirono, ripensò a lei, alla sua risata, al suo profumo, alla sua voce. Severus Piton si sentiva in pace.

La porta si aprì, e il giovane alzò gli occhi. Sorrise.

Aveva trovato la chiave.

 

  
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