Questa
One-shot è nata in
occasione del contest “Dai
Classici alle FanFiction” indetto da Vogue91, che
ringrazio sentitamente
per aver avuto una così geniale idea, per avermi dato
l’ispirazione e infine
per i fantastici giudizi. Sostanzialmente, le linee guida consistevano
nel
scegliere un autore, di cui ci veniva fornita una citazione (nel mio
caso,
Dostoevskij: “Hanno pianto un po’, poi si sono
abituati. A tutto si abitua quel
vigliacco che è l’uomo.” da
“Delitto e castigo”), colore e clima (per me,
argento e fulmine).
Volevo
ringraziare mia
madre, che non ha mai perso occasione di ripetermi che Piton era in
assoluto il
suo personaggio preferito, così tanto che, alla fine, me ne
sono innamorata
anch’io.
Prima
di permettervi di
leggere, vi annoio con alcune precisazioni:
Oltre
alla citazione da inserire, vi sono nel racconto alcuni riferimenti
o frasi che appartengono ad altri autori: la citazione riguardo alla
chiave
proviene da “Delitto e Castigo”, e in generale
potrei dire che l’intera idea
della chiave è tratta dalla trama del libro. Marlene
McKinnon è un personaggio
appartenente alla Rowling, che viene citato solo nel quinto libro,
quando Moody
mostra a Harry la foto dell’Ordine della Fenice:
lì si dice che fu assassinata
appena due settimane dopo lo scatto della foto. L’immagine
del fiore spezzato
da un aratro è di Catullo, mentre alcune frasi in corsivo
riguardanti il rumore
del cuore di Severus sono tratte dal “Cuore
rivelatore” di Edgar Allan Poe, ed
esprimono esattamente la paura, la confusione e l’angoscia
che io ho tentato in
qualche modo di trasmettere. La parola
“resurrezione” al fondo del racconto
rimanda al finale di “Delitto e Castigo”, e in
generale l’intero racconto si
ispira a queste due azioni, anche se sono vissute da Severus in un modo
totalmente diverso da come succede nel romanzo.
Ho
preferito mettere “What if?” negli avvertimenti,
sebbene non si vedano
le conseguenze degli stravolgimenti della trama, anche se indubbiamente
ne sono
presenti alcuni.
CHIAVE
D’ARGENTO
“Oh,
ti prego, Lily!”
Non
appena pronunciò queste parole, Severus Piton
capì che non erano quelle giuste. Lily non si aspettava un
lamento biascicato e
stizzito, totalmente privo di senso. Una sfuriata sì, una
spiegazione forse,
c’era anche qualche possibilità che le venisse
rivolta una scusa. Ma quello,
assolutamente no.
“Ti
prego? Ti prego cosa,
Severus?” Una Lily furibonda, con le mani sui fianchi, lo
fissava con aria truce appena davanti all’entrata del
dormitorio di Serpeverde.
“Sono
venuta fin qui solo per questo? Non hai altro
da dire? E’ un po’ misera come risposta da uno che
aspira a essere il braccio
destro del suo padrone, o sbaglio?”
Severus
non fece una piega. Non era il tono
furibondo e irrisorio di Lily che lo spaventava. La sua ira, anzi, era
rassicurante. Finché era arrabbiata con lui, voleva dire che
non l’aveva persa.
Che c’era ancora un legame.
Poi,
improvvisamente, qualcosa cambiò. Un sospiro di
Lily gli fece alzare lo sguardo, che si posò sul volto
pallido e tirato della
giovane.
“Non
pensavo… non avrei mai creduto che sarebbe
finita così.”
Non
furono le sue parole, ma il tono, spezzato e
colmo d’angoscia, ad abbattere le ultime difese che Severus
aveva faticosamente
innalzato attorno a sé.
Lily
alzò lo sguardo. Quando gli occhi neri e cupi
di Severus incontrarono quelli verdi e sofferenti della ragazza, il suo
cuore
non si riempì di angoscia, come aveva temuto. Una lieve
sensazione di benessere
pervase ogni centimetro del suo corpo, un caldo piacere invase il suo
cuore. Era
finita, e lui lo sapeva. E sapeva anche di volerla ricordare
così, bella,
coraggiosa, fiera, mentre lottava per lui, per il suo affetto, per la
loro
amicizia.
Così,
mentre la ammirava in silenzio, capì che non
valeva la pena di crucciarsi così tanto. Era finita, e
l’unica cosa che lui
voleva, l’ultimo piccolo dono che le avrebbe chiesto era di
poterla guardare un
po’ di più, poter conservare nella sua memoria
almeno un pezzetto di lei.
Severus
Piton si sentiva in pace.
“E’
troppo tardi.”
La voce di lei risuonò, calma, nel corridoio
vuoto. Le parole, scandite
con lentezza, non suonavano come una domanda, ma piuttosto come
un’affermazione, una conclusione, la sintesi di
ciò che stava accadendo. E non
richiedevano una risposta.
Lily
gli si avvicinò, calma, sicura, totalmente
priva del turbamento che prima aveva incrinato la sua voce. Gli prese
una mano.
Il calore della sua pelle su quella fredda di lui fu più
piacevole di quanto
Severus si aspettasse. I contatti fisici, fra loro, erano sempre stati
pochi,ma
in quel periodo erano ulteriormente diminuiti. Improvvisamente lei lo
abbracciò. E Severus tornò bambino. Bambino, con
lei. A nove anni, quando
l’aveva vista per la prima volta. A undici, quando avevano
valicato le porte
della Sala Grande, insieme. A tredici, quando trascorrevano intere
giornate a
sperimentare nuove pozioni, da soli. A quindici, quando lei
l’aveva difeso dai
suoi stessi compagni di casa, in nome della loro amicizia.
Il
diciassettenne Severus inspirò il suo profumo, la
strinse fra le sue braccia, tentò di imprimere nella sua
mente il suo sorriso,
che in quel momento non poteva vedere. Dimenticò le lacrime,
il dolore,
l’amarezza e rinchiuse Lily, la sua Lily, il suo profumo, la
sua risata, i suoi
occhi in un piccolo anfratto del suo cuore. Gettò la chiave,
così da poter
conservare il suo ricordo, intatto per sempre.
Lily
si staccò da lui, con gli occhi lucidi e un
sorriso tremulo sulle labbra.
“Addio,
Sev.”
Fu
solo dopo che lei ebbe lasciato la stanza,
portandosi via la loro amicizia, che Severus si accorse che il suo
cuore non
batteva più.
Si
era portata via anche quello.
Hanno
pianto un po’.
Era
un’afosa giornata di Luglio. Severus Piton,
chiuso nella sua stanza nella sua cupa dimora di Spinner’s
End, sfogliava un
libro dalla copertina nera e consunta. I capelli neri, abbastanza
lunghi,
sfioravano la punta del naso, ma lui era talmente assorto nella lettura
del
manuale che non se ne accorse. Improvvisamente, alzò gli
occhi neri dal libro,
come se si fosse ricordato in quell’esatto istante di
qualcosa; spostò lo
sguardo all’orologio, chiuse con uno scatto il volume,
indossò il mantello nero
e uscì.
Aspettò
di essere arrivato alla fine della strada
per smaterializzarsi. Anche quel giorno, il punto di ritrovo sarebbe
stata
Villa Malfoy. Il maniero, collocato in cima alla collina, era stato
scelto come
base da Voldemort e i suoi seguaci fin dal principio
dell’estate: da quando
Lucius era entrato nelle grazie del Ministro, era diventato sempre
più facile
nascondere le malvagità e gli intrighi che si celavano sotto
l’aspetto di un
antico residuo della famosa casata.
Severus
si smaterializzò esattamente nel boschetto
antistante alla casa. Il camminare per qualche metro in quei radi
alberi gli
procurava un triste piacere che, in qualche modo, alleviava il peso di
quelle
giornate. All’inizio, era stato tutto più
difficile. Le urla, il dolore, le
preghiere, lo avevano tormentato con tutta la loro crudeltà:
capitava spesso
che, tornando nella sua tetra dimora, si chiedesse che senso avesse
tutto ciò,
e, per un momento, abbracciasse la vana speranza di fuggire, di
cambiare vita.
Speranza vana, appunto, come si rendeva conto quando arrivava davanti
al
portone di casa sua: lì, fissando con mestizia la serratura
argentata, senza
mai versare lacrime, ma con il desiderio di farlo, capiva che non
sarebbe più
potuto tornare indietro, che ormai era
troppo tardi.
Ma
poi si era
abituato.
Da
molto tempo, ormai, aveva rinunciato pure a quel
momentaneo sollievo dato dall’illusione di poter modificare
la propria
esistenza, e si era abbandonato a quello che la vita gli offriva. Aveva
gettato
le armi, e ora il suo corpo, vuoto, si trascinava brancolante
lì dove il suo
padrone gli comandava, lì dove compiva, ogni volta, il
proprio dovere. Non
sapeva se avrebbe avuto ancora la forza di reagire e, in fondo, non gli
importava. Era sempre stato un codardo, e lo sarebbe sempre stato.
A
tutto si abitua quel vigliacco che è l'uomo.
Aveva
scelto spontaneamente di non soffrire, né di
rammaricarsi per la propria condizione: la sua spiccata intelligenza lo
portava
a pensare che ne avrebbe patito troppo e troppo a lungo. Nonostante
questa sua ferrea
volontà di estraniarsi da quel mondo di emozioni spaventose,
un ostacolo si
frapponeva a questo suo obbiettivo. Ogni giorno, quando si svegliava,
sentiva
di aver sognato sempre la stessa cosa. Ogni mattina, quando si alzava,
la
sentiva nella sua mente, dentro di
sé.
Ogni sera, prima di coricarsi, poteva sentirla, nel cupo silenzio della
sua
casa. E ogni notte, quando chiudeva gli occhi, costituiva
l’ultimo suo
pensiero.
Era
una tortura. Erano passati anni, ormai. Quello
che al principio aveva considerato come un ricordo prezioso, un bene
degno di
essere gelosamente conservato nel suo cuore si era lentamente e
impercettibilmente trasformato in un peso, aggravato di giorno in
giorno dalla
vita che conduceva. Detestare ciò che prima aveva amato non
gli era mai apparso
più facile.
E
c’è una
chiave, la più grossa di tutte, tre volte le altre, con
ingegno dentato,
certamente non del cassettone… Dunque
c’è anche un qualche scrigno, o
bauletto…
Questo, sì, è curioso. I bauletti hanno tutti
simili chiavi. D’altro lato, come
è ignobile tutto ciò….
Severus
cercava una chiave. Non una chiave di
metallo, o di ottone. Aveva sempre pensato che fosse
d’argento, prezioso, come
lei, ma gelido, come lui.
Ma,
naturalmente, una chiave del genere non
esisteva. Cercava ogni giorno, da qualche anno a quella parte, una
chiave che
gli avrebbe permesso finalmente di aprire quel maledetto scrigno
riposto in un
angolo del suo cuore, e di gettare il contenuto in un qualche bidone
dell’immondizia, preferibilmente il più lontano
possibile. La cercava e la
desiderava, e l’intensità di questa brama era pari
soltanto al fastidio che gli
procurava.
Severus
entrò in uno stanzino buio, attraverso una
porticina piccola e stretta su un lato della casa. Un elfo domestico,
dallo
sguardo arcigno e palesemente poco cordiale, lo accolse con una
lanterna, e
senza neanche rivolgergli un saluto, come sarebbe stato
d’obbligo nei confronti
di un superiore, gli volse le spalle, aspettando che lui lo seguisse.
Severus
non si stupì dell’accoglienza fredda della
creatura: da quando l’Oscuro Signore
aveva scelto la dimora dei Malfoy come base, l’atmosfera che
regnava in quella
casa si era fatta sempre più pesante. I coniugi Malfoy non
dormivano più sonni
tranquilli, e ogni loro gesto era adombrato dal timore di essere
scoperti; da
quando poi avevano avuto un bambino, appena un anno prima, la
situazione era
ulteriormente peggiorata, e i loro timori si erano moltiplicati.
Severus e
l’elfo camminarono per alcuni minuti attraverso un intricato
dedalo di cunicoli,
finché non giunsero in un’ampia sala sotterranea,
illuminata fiocamente da
alcune torce: in qualche modo, anche se era soltanto metà
pomeriggio,
nell’oscurità dei sotterranei di casa Malfoy si
aveva sempre l’impressione che
fosse notte, ma ciò non dispiaceva troppo a Severus. Si era
ormai abituato a
vivere nel buio.
Qualche
istante, e una porta, dinanzi a loro, si
aprì e Severus, senza esitare, si addentrò in
quella che sembrava una spoglia e
fredda stanza, in cui l’unico elemento decorativo era
costituito da un ampio
tavolo in marmo grigio, circondato da sedie dalle spalliere alte e
dritte. Al
fondo della stanza, a capotavola, si trovava una sedia diversa dalle
altre, più
simile a un trono, occupata in quel momento dall’Oscuro
Signore.
Un
paio di occhi gelidi si fermarono su Severus, che
senza porgere alcun saluto, avanzò fino a prendere posto
alla destra del suo
padrone. Gli altri Mangiamorte, almeno una quindicina, erano
già seduti, in
attesa che il Signore Oscuro prendesse la parola, mettendo fine al
silenzio.
“Buon
pomeriggio, signori.” Una voce viscida, simile
a quella di un serpente, sibilò nell’aria.
Severus, che in un primo momento
aveva provato timore di quel suono che trasudava una tale potenza e
malvagità,
ora non sentiva che un leggero brivido attraversagli la pelle. Il suo
ferreo
controllo delle emozioni gli aveva permesso di imparare a dominare
perfino la
sconfinata paura del proprio padrone, fino a trasformarla in un vago
senso di
irrequietezza.
“Vi
starete chiedendo perché mai ho deciso di
convocarvi qui prima del previsto, non è così,
Rodolphus?” chiese con un lieve
tono ironico. La settimana prima, Rodolphus Lestrange aveva commesso il
terribile errore di perdere il controllo della maledizione Imperius su
una
delle persone più influenti che lavoravano al Ministero, e
tutti, in quella
stanza, sapevano che aveva pagato cara quella sua mancanza, come
dimostravano
le occhiaie intorno agli occhi e l’innaturale pallore del
volto, segno di una
prolungata maledizione Cruciatus. A quanto pareva, la sua tortura non
era
ancora finita.
Rodolphus
aprì le labbra per balbettare qualcosa, ma
non fece in tempo a trovare una risposta che Voldemort lo precedette.
“Dobbiamo
tutti ringraziare Severus. E’ grazie a lui
che oggi avremo la possibilità di festeggiare tutti assieme
la buona notizia”.
Quindici
volti pallidi e visibilmente impauriti si
posarono su Severus, il quale aveva una vaga idea di ciò di
cui il suo padrone
stava parlando, anche se non riusciva a capire come il suo contributo
avesse
potuto portare a “buone notizie”.
“Ma
prima, se non vi dispiace, qualche piccolo
divertimento, per iniziare.” Severus alzò appena
gli occhi verso il volto del
Signore Oscuro. Solitamente, non si spingeva a tanto, limitandosi ad
ascoltare
la sua voce in rispettoso silenzio, senza mai alzare lo sguardo. Dal
momento
che il suo padrone, tuttavia, sembrava rivelare un’inconsueta
letizia, decise
di rischiare.
Il
volto del Signore Oscuro, innaturalmente pallido,
era trasfigurato da un ghigno crudele, che rivelava una feroce
felicità. I suoi
occhi, neri e gelidi, non trasmettevano altro che un’intensa
e folle crudeltà,
ma allo stesso tempo un’illimitata potenza che avrebbe fatto
morire di paura
chiunque avesse osato incrociare il suo sguardo. Non era un caso,
dunque, che
tutti i Mangiamorte fissassero intensamente il grigio marmo del tavolo.
Voldemort
batté le mani, un gesto per lui del tutto
inconsueto. Severus sentì un rumore secco, come di una
bottiglia appena
stappata, provenire da sopra le loro teste e, come una quindicina di
altri Mangiamorte,
alzò lo sguardo. Era la prima volta che, durante una
riunione, accadeva una
cosa simile: da una botola nel soffitto scese una gabbia, in cui
giaceva una
donna semisvenuta, di circa vent’anni, il cui braccio
fuoriusciva appena dalle
sbarre metalliche. I capelli, biondi e scarmigliati, le coprivano il
viso. In
generale, la sua figura era abbandonata in una posizione
così scomposta che
Severus si chiese se non fosse già morta.
“Signori,
permettete che vi presenti Marlene
McKinnon.” Disse Voldemort, con una lieve sfumatura
sarcastica nella voce.
Tutti i presenti trattenevano il respiro.
“Cos’è
questo comportamento Marlene? Non si salutano
più gli ospiti? “ La sua voce cambiò
totalmente tono, diventando in qualche
modo irata. Con un movimento della bacchetta, Marlene riprese
conoscenza, e
sollevò debolmente la testa. Guardò in basso,
roteando gli occhi, mentre il
terrore si faceva largo dentro di lei. Le poche forze che le rimanevano
le
fecero afferrare le sbarre, e girò la testa più e
più volte, presa dalla
disperazione, in cerca di una via d’uscita. Era in trappola,
e un debole gemito
uscì dalle sue labbra, che presero a tremare. Era vestita
con qualche cencio
sporco e consunto, ed era visibilmente magra e denutrita. Severus si
chiese da
quanto tempo la tenessero lì prigioniera.
“Marlene
fa parte, o meglio, faceva parte,
dell’Ordine della Fenice, non è così,
Marlene?” chiese Voldemort con un tono
estremamente cordiale. Qualche Mangiamorte si mosse nervosamente sulla
propria
sedia.
La
ragazza sembrò svegliarsi proprio in
quell’attimo. Fissò Voldemort con un misto di
paura e disprezzo, che,
considerata la sua posizione, rivelava una notevole dose di coraggio, o
semplicemente di rassegnazione.
Il
Signore Oscuro non attese una sua risposta. Si limitò
a fissare con aria beata i presenti.
“Marlene
ci ha notevolmente aiutati, ieri,
confermando involontariamente ciò che già Severus
mi aveva riferito. Dobbiamo
molto a entrambi, e volevo darvi la possibilità di
ringraziare anche la nostra
preziosa ospite in modo adeguato.”
Fissò
a uno a uno i presenti, scrutando le loro
espressioni.
“Chi
vuole avere l’onore?” Non attendeva una
risposta. Sarebbe stato l’Oscuro Signore a decidere.
Severus
pregò mentalmente di non essere scelto. Fino
a quel momento, non era mai toccato a lui.
“Severus.”
Un soffio, un sibilo, e tutte le speranze
del giovane Piton, tutto ciò che rimaneva della sua
umanità, fu distrutto.
Fino
a quel momento, non aveva mai ucciso nessuno.
Voldemort
lo fissò attentamente, mentre si alzava
dalla sedia e impugnava la bacchetta, tentando simultaneamente di non
pensare a
ciò che stava per fare e di mascherare le sue emozioni
dietro una fredda
impassibilità.
Solo
in quel momento Marlene sembrò capire ciò che
stava per succedere, e il suo spirito di sopravvivenza ebbe la meglio
sul suo
animo battagliero. Cominciò a dimenarsi e a stringere
convulsamente le sbarre
della gabbia, mentre lacrime di disperazione le rigavano il volto. Il
suo
sguardo, che vagava frettolosamente in cerca di una via
d’uscita, si posò su Severus,
che riconobbe come il suo carnefice. Severus, dal canto suo,
tentò di non
fissare quegli occhi, che, imploranti, reclamavano di vivere.
“No,
no!” I movimenti della giovane si erano fatti
spasmodici, e sembrava in preda ad un’incontrollabile pazzia.
“No,
ti prego, ti scongiuro, no!” La sua voce, rotta
dal pianto e dalla paura, obbligò Severus ad alzare gli
occhi.
Era
bella, pensò. Era giovane. Meritava di vivere.
Non era una codarda, non era una vigliacca, non si era abituata al
male. Aveva
lottato, e ora meritava di vivere.
Delitto.
“Avada
Kedavra.”
Delitto.
Il
suo corpo aveva fatto ciò che il suo cuore non
aveva avuto il coraggio di compiere. La sua mano si era alzata, le sue
labbra
avevano scandito quelle parole, i suoi occhi erano rimasti fissi, duri
e vuoti,
sul corpo della ragazza che si era afflosciato come un fiore spezzato
da un
aratro. Intanto, dentro di sé, urlava di disperazione.
Delitto.
“Ottimo,
Severus.” L’Oscuro Signore non attese
neanche che la minuscola gabbia fosse risalita attraverso la botola per
scomparire nel soffitto.
“Ora
non vi farò attendere oltre, per comunicarvi la
splendida notizia. Si tratta della profezia, che Severus mi ha riferito
qualche
tempo fa. Un’informazione alquanto preziosa, oserei dire.
Ora, come sapete,
sono state fatte delle ricerche.”
Le
parole di Voldemort risuonavano nelle orecchie di
Severus come un’eco lontano. Di cosa stava parlando?
“Sono
felice di annunciare che abbiamo finalmente il
nome di quel bambino, il Prescelto” aggiunse Voldemort, con
un ghigno
sarcastico. “che dovrebbe, diciamo, essere il mio rivale in
un lontano futuro.”
Sventolò la mano pallida e ossuta per aria, quasi a indicare
la mancanza di sostanzialità
di queste affermazioni.
“Si
tratta sfortunatamente, di una famiglia ben
protetta, ma non credo che sarà difficile sistemare il
pargolo e i suoi
genitori. Soprattutto da quando siamo a conoscenza della loro
abitazione,
grazie all’aiuto di un collaboratore
insospettabile.”
Un
lieve pizzicorio si diffuse all’altezza della
nuca di Severus. Il suo cervello, momentaneamente fuori uso per
ciò che era
appena successo, ricominciò a funzionare e a elaborare
ciò che aveva appena
sentito.
“Si
chiama Harry. Nome grazioso, non trovate?” Il
tono canzonatorio nella voce del loro padrone spinse alcuni fra i
Mangiamorte a
sogghignare. Dall’altra parte del tavolo, Bellatrix represse
a stento una
risata.
Severus
si fissò le mani, sudate, che lui vedeva
macchiate di sangue.
Delitto.
“Harry
Potter, figlio di quel sudicio traditore
della razza purosangue, e di quella nata-babbana, Evans.”
Evans.
Evans.
Evans.
Lily.
E castigo.
Severus
non aveva idea di ciò che stava accadendo
lì, in quella stanza. Per quanto ne sapeva, poteva regnare
il perfetto silenzio
o una tempesta infernale, ma tutto ciò che riusciva a
sentire, in quel momento,
era il battito del suo cuore, e un vorticoso ronzio nelle orecchie. La
sua
vista era offuscata, i suoi sensi annebbiati. Ma
il rumore sovrastava ormai tutto, e cresceva, cresceva ancora, senza
fine. Aumentava, sempre di più, senza che lui
potesse fare nulla per
fermarlo. Una parte del suo corpo, quella meglio addestrata,
tentò di
riprendere il controllo dei suoi lineamenti, e di disegnare sul suo
volto una
maschera di impassibilità. Il terrore lo colse. Era possibile che non sentissero? Quel
nome, il suo nome, era stato per
lui un fulmine a
ciel sereno. E ora, dentro il suo cuore, si scatenava una tempesta.
Severus
rimase per qualche istante a fissare le
venature del marmo sotto le sue mani, meravigliato che non stessero
tremando.
Quando riprese il controllo di una parte dei suoi sensi, si accorse che
un
mormorio si era diffuso nella stanza, suscitato
dall’improvvisa rivelazione e
delle conseguenze che essa avrebbe comportato. Non aveva il coraggio di
alzare
lo sguardo e di fissare i presenti. Era sicuro che il suo padrone, o
forse
anche alcuni degli stessi Mangiamorte, avessero notato il terrore e
l’angoscia
che per qualche istante avevano regnato sul suo volto, o che almeno, se
per
qualche fortunato caso non se ne fossero accorti, da un momento
all’altro qualcuno
si sarebbe levato in piedi chiedendo la ragione di tutto quel
trambusto. Perché
allora nessuno lo faceva? Perché se ne stavano
lì, fermi, con espressioni impassibili,
al massimo felici per la recente notizia? Perché nessuno era
sconvolto dal
frastuono della tempesta?
Il
corpo di Severus si mosse autonomamente quando
Voldemort congedò i suoi seguaci con un semplice gesto della
mano. In un
niente, si ritrovò nel boschetto di fronte a casa Malfoy,
senza avere la più
pallida idea di come era finito lì.
“Non
c’è tempo
da perdere. Agiremo presto, prima che scoprano i nostri
piani.”
Le
parole che Voldemort aveva pronunciato, e che il
suo cervello aveva memorizzato, lo colpirono, spazzando via,
momentaneamente,
ogni altro pensiero. Presto? Quanto presto? Quanto tempo le sarebbe
rimasto
ancora da vivere?
Severus
vacillò, e tese la mano ossuta verso uno
degli alberi, cercando un appiglio. Non poteva essere. Ciò
che più lo lasciava
attonito era la sua stessa debolezza. Anni e anni trascorsi a tentare
di dimenticare,
di estraniarsi da quel mondo di emozioni che l’avrebbe fatto
solo soffrire, di
trovare la chiave per liberare finalmente quel ricordo che tanto lo
torturava…
Tutto invano. Era bastato un nome, un vago accenno, come un fulmine
improvviso,
per farlo capitolare.
Si
appoggiò con la schiena al tronco dell’albero,
scivolando lentamente verso il basso, fino a sedersi sulla terra
spoglia. Si
prese la testa fra le mani.
Hanno
pianto un po’.
Non
aveva mai pianto.
Quando le lacrime cominciarono a scorrergli lungo le guance, la sua
prima
impressione fu di assoluta sorpresa. Quello non era lui: non era il
cinico,
freddo e spietato braccio destro dell’Oscuro Signore, quello
che piangeva in un
bosco solitario, a terra, con il capo abbassato.
Ma
poi si sono abituati.
Si
era abituato alla sua misera esistenza, e si era
anche abituato a tenere dentro di sé il suo doloroso
ricordo, senza potersene
liberare. Ma ora, avrebbe mai potuto abituarsi a questo? Avrebbe
davvero potuto
sopportare il rimorso? Sarebbe davvero riuscito a vivere in un mondo in
cui lei
non viveva?
A
tutto si abitua quel vigliacco che è l'uomo.
Sarebbe
davvero stato così codardo?
Non
sapeva quanto tempo era passato da quando aveva
cominciato a piangere. Dopo quello che gli era parso un centinaio
d’anni, o
forse di più, alzò lo sguardo, e si
ritrovò a fissare il tetro paesaggio che lo
circondava. Non aveva mai visto niente di più triste. Aveva
visto qualcosa di
più spaventoso, certo, e sicuramente qualcosa di
più doloroso, ma non aveva mai
provato il sentimento di quieta tristezza che quel luogo sembrava
suscitare in
lui. Nonostante ciò, sarebbe voluto rimanere lì,
seduto per terra, per sempre.
Tornare nel mondo, avrebbe significato tornare in una realtà
in cui lei sarebbe
sicuramente morta, e in cui lui era uno spietato assassino. Severus si
ritrovò
a pensare a quella ragazza, Marlene. Chissà se lei aveva mai
provato tanta
tristezza. Quel che era certo era che, a causa sua, non
l’avrebbe provata mai
più.
Severus
non aveva avuto scelta. L’aveva uccisa, ma
non di sua volontà. La ragazza, sarebbe morta comunque, per
mano di qualcun
altro. Ma solo in quel momento Severus pensò a un
particolare che non aveva
considerato, di cui si accorse con stupore: uccidendola, non aveva
condannato
soltanto lei, ma anche se stesso.
E
ora, per qualche strana volontà del Destino, aveva
scoperto di essere anche la causa della morte dell’unica cosa
che per lui
avesse un senso, in quel mondo. Severus non credeva nel Destino, ma in
quel
momento, mentre pensava, decise che, se davvero esisteva, sapeva essere
davvero
crudele.
La
sua voce gli esplose nella testa, colpendolo come
mille pugnali. La sua risata, calda, sincera, lo fece rabbrividire.
Ripensò al
loro ultimo incontro. Lei era venuta da lui, lo aveva abbracciato, gli
aveva
detto addio. Aveva scelto di volgere le spalle al male, e insieme ad
esso, a
lui. Lei aveva fatto una scelta, quella più coraggiosa.
Marlene
McKinnon non aveva avuto il privilegio di
scegliere quando morire, ma sicuramente aveva scelto il come, molto
tempo
prima, quando si era schierata contro Voldemort e i suoi seguaci.
Perché
lui non avrebbe potuto fare lo stesso?
In
quel momento, uno strano pensiero attraversò la
mente di Severus: forse, il Destino non era poi così
malvagio come sembrava.
Forse, gli stava dando una seconda possibilità. Forse, la
morte di Marlene
avrebbe avuto un senso. Forse.
Si
alzò. Non sapeva esattamente che cosa avrebbe
fatto, ma una forza inestinguibile sembrava essersi impossessata del
suo corpo
e della sua mente, e non sembrava voler scendere a compromessi con la
paura del
suo padrone. Se avesse preso posizione contro di lui, sarebbe morto, e
lo
sapeva. Ma, almeno, avrebbe scelto il come, e sicuramente sarebbe stato
un
“come” molto più grandioso di quello che
aveva sempre immaginato per sé:
sarebbe morto per salvare l’unica cosa che, a parer suo,
rendeva il mondo un
posto migliore. Sarebbe morto come Marlene.
Cominciò
a camminare a grandi passi, improvvisamente
dimentico della tristezza provata appena qualche attimo prima. Non
sapeva dove
stava andando, ma camminava con un’inquietante euforia e
determinazione, che lo
spingevano a non fermarsi più.
È
questo il
coraggio, dunque,
pensò, con
sincera curiosità, è
questo che si prova
quando si lotta per qualcuno.
La
notte stava lentamente calando sul paesaggio.
Enormi nubi avevano occupato l’intero cielo, e un temporale
sembrava in arrivo.
Conosceva l’indirizzo, dal momento che Voldemort
l’aveva rivelato alla
riunione, avvisando i Mangiamorte di tenersi pronti a
un’eventuale incursione. Difficilmente
un qualche aiuto sarebbe stato utile all’Oscuro Signore, ma
era essenziale che
i suoi seguaci si occupassero degli Auror, nel caso ce ne fossero
stati, mentre
lui pensava a eliminare il bambino e i suoi genitori.
Severus
si materializzò al fondo di una stradina di
Godric’s Hollow. Una marea di dubbi lo assalirono.
L’ultima volta che l’aveva
vista, lei l’aveva rinnegato per sempre: cosa gli faceva
pensare che lei gli
avrebbe creduto? Quale garanzia poteva offrirle? Oltre a questi dubbi,
si sentì
preso da un’ondata di panico: era possibile che il Signore
Oscuro gli avesse
letto nella mente, o avesse in qualche modo previsto le sue azioni?
Era
già troppo
tardi?
Le
sue gambe, però,
continuavano a camminare. Qualsiasi dubbio, qualsiasi timore avesse,
per la
prima volta in vita sua si sentiva sicuro su dove voleva andare, sulla
sua
scelta. E, per qualche assurda ragione, qualcosa gli diceva che avrebbe
trovato
la sua chiave d’argento una volta per tutte.
Sopra
di sé, sentì i
tuoni lacerare il cielo. Lampi illuminavano a tratti la strada.
Fulmini,
pensò tranquillo, cogliendo in
quell’attimo la triste ironia. La sua, era stata una giornata
di fulmini a ciel
sereno. Quella sua scelta, però, quel suo personalissimo
fulmine, era stato il
più gradito di tutti.
Man
mano che si
avvicinava al numero esatto, i dubbi e i timori si dissolvevano, e
passo dopo
passo sentiva crescere dentro di sé un vago sentimento di
mite euforia. Era
come una resurrezione. Si rese conto che non gli sarebbe importato
più di tanto
l’esito delle sue azioni, in fondo non voleva sapere come
sarebbe andata a
finire. Da qualche parte, dentro di sé, sapeva che quel
gesto, da parte sua,
era il suo lieto fine. Aveva scelto di non essere un codardo, aveva
scelto lei,
e niente l’avrebbe mai reso più felice.
Alla
fine, si ritrovò
immobile davanti alla porta di quella che doveva essere la sua casa.
Salì
qualche gradino, e trattenne il respiro. Un lieve sorriso gli
increspò le
labbra quando notò la serratura dal colore argenteo. Forse,
il Destino esisteva
davvero.
Suonò.
In quei pochi
attimi che seguirono, ripensò a lei, alla sua risata, al suo
profumo, alla sua
voce. Severus Piton si sentiva in pace.
La
porta si aprì, e il
giovane alzò gli occhi. Sorrise.
Aveva
trovato la chiave.