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Autore: xXxOpheliac_382xXx    29/05/2010    0 recensioni
Delle donne innamorate di due folli giapponesi, dovranno mettersi contro i loro stessi amati per riconquistare la libertà persa per via di un'insensata dittatura.
Genere: Drammatico, Azione, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Women's sacrifice -
Battle for the liberty







Alessandra Bloise (Alexandra): professoressa di lettere, Giulio Cesare, Roma.

Chiara Laera (Yuuwa): professoressa di storia dell’arte, Giulio Cesare, Roma.
Lara Tosches (Linda): professoressa di inglese, Giulio Cesare, Roma.

Takanori Matsumoto (Ruki): dittatore ed esponente di rilievo della mafia giapponese.
Kouyou Takashima (Uruha):  ministro pubblica istruzione. Al fianco del dittatore.  Intenzionato a rivoltare la dittatura.
Yuu Shiroyama (Aoi):  senatore. Al fianco del dittatore, intenzionato a rivoltare la dittatura prendendo i poteri.
Ryo Suzuki (Reita): deputato. Fedele ad Uruha : Intenzionato a rivoltare la dittatura.
Yutaka Uke (Kai): magistrato al Consiglio Superiore della Magistratura.  Rivolterà la dittatura grazie al gruppo di politici antidittatoriali (Uruha, Reita).


Premetto che:
non sono al corrente di determinati argomenti politici e di tutto ciò che li concerne;
cercherò di dare spiegazioni logiche e magari anche storiche per quanto riguarda determinati accadimenti, nonostante la mia ignoranza, appunto;
i miei studi non hanno toccato fino in fondo le strutture di partiti politici, organi di uno Stato, gerarchie, come viene a formarsi una dittatura...
Da qui, tutte le difficoltà che incontrerò e i tempi lunghi che impiegherò per scrivere tale fan fiction.  L’idea è nata semplicemente perché era già tra i miei progetti la stesura di una fan fiction “in costume” (se tale questa si possa chiamare). La cosa che m’impressiona è come io mi ostini ad evitare un “rapporto” diretto, senza intoppi, con Ruki in ogni storia che scrivo in questo periodo.  In “Child of Venom” (che credo rimarrà ferma ancora per un po’) il rapporto tra la protagonista (io, come al solito) e lui, sarebbe impossibile da recuperare.  In “Osaka” avviene lo stesso.  La possibilità, però, in quest’ultima storia, di tentare di inserire un rapporto tra Linda e Ruki c’è, ma non me la sento. Mi sono chiesta il perché e ho dato risposta a tale domanda. Probabilmente la si può trovare nella one shot “Shiroki Yuutsu”.  Forse ritengo che ciò che realmente provo per lui superi quello che possa essere l’amare un Uruha come fidanzato, come uomo, come spalla dietro la quale una donna deve ripararsi e trovare rifugio. Mi sto aprendo ad un pubblico vasto (quello di EFP),  scrivendo ciò. Non mi spaventa:  ho imparato letteralmente a fregarmene di quello che la gente può pensare di questa semplice “cotta da star” (come molti l’hanno definita), in una comune adolescente.  
Alessandra Bloise è la mia adorata mamma (virtuale), e la interpreta anche in questa storia che vi accingete a leggere (a vostro rischio e pericolo, ricordo!).  Fan di Ruki (anche se non so come una persona come lei possa essere definita semplice fan),  ho deciso di affidarle la parte della donna completamente cieca per amore.
Chiara Laera è la persona più importante della mia vita. La mia stupenda migliore amica. Folle d’amore anche lei per lo spietato Yuu Shiroyama, capirà poi, come Alessandra, che i principi e i valori di uno Stato di diritto che si rispetti, non possono essere schiacciati da una dittatura nel suo complesso debole, senza forti radici.
Lara Tosches sono semplicemente io. Figlia di Alessandra, come già accennato prima, sarà l’unica a tenere gli occhi completamente aperti, già intenzionata fin dagli inizi a supportare Takashima nel suo piano di rivolta della dittatura, nonostante segretamente sia innamorata del dittatore.
Non ho ancora idea di come far avvenire determinati accadimenti, né di come debba svolgersi la storia. So solo in linea generale come dovrà andare a finire, quali principi muoveranno le tre e quali persone saranno disposte a sostenere per riportare la propria nazione, il proprio Stato, la propria dignità e libertà di esseri umani in quanto tali, agli anni precedenti l’insensata dittatura di un mafioso giapponese totalmente infelice e debole.

P.S. Non mi sono posta il problema di trovare il modo per far interloquire orientali ed italiani senza la questione “lingua diversa”.
Linda Rakuen



Capitolo 1

«Ragazzi, vi supplichiamo di combattere..», la donna mora venne interrotta da uno dei ragazzi che sedeva lei di fronte «Perché prof? Non era tutto finito? Non avevamo passato la crisi?». La donna scosse la testa con aria grave «No, Franco. Dicevo che noi tre», indicò le altre due che le erano accanto «noi tre, e tutto il corpo docenti di questa scuola... di tutte le scuole, vi chiediamo di combattere e di difendere con qualsiasi mezzo quello che uomini, donne, giovani, vecchi, hanno conquistato con la fatica, il dolore, il sangue:  la vostra libertà e la vostra dignità!». Dai banchi in quel momento si alzarono cori di “non lasciateci!” “Cosa dobbiamo fare? Come?!”. Quelle tre donne stavano lasciando trenta persone che ormai erano diventate i loro figli. Non avrebbero più potuto insegnare in quella scuola. Forse non avrebbero più potuto insegnare in qualsiasi scuola italiana. Si erano opposte in maniera tale da essere costrette ad abbandonare le loro cariche di professoresse di liceo. Non erano le più anziane, ma erano viste comunque come un’istituzione nel liceo Giulio Cesare di Roma. La donna (che era anche la più giovane delle tre), la quale aveva appena parlato ai ragazzi, insegnava inglese. Era la più affezionata ai suoi alunni, che la vedevano praticamente come un’amica: si studiava, e anche tanto, ma poi c’erano continui momenti per ridere e scherzare. Un discorso del genere, però, i ragazzi, pensavano che avrebbero potuto sentirlo solo da sua madre, che le era accanto. Una donna sulla quarantina, con un passato abbastanza travagliato. Insegnava lettere, ed era la più autoritaria e seriosa. Una brava persona, comunque, ben voluta da tutti. L’altra, invece, era sicuramente la più dolce tra le tre professoresse. Insegnava storia dell’arte e aveva giusto qualche anno in più rispetto alla docente d’inglese. Rimanevano ferme, appoggiate alla cattedra, a scrutare uno per uno i volti sgomenti, impauriti, confusi dei loro alunni. Si sentivano urla e trambusti dal corridoio. Urla di minaccia e porte sbattute con violenza. Le docenti annuivano, con aria rassegnata, come dei condannati a morte sul punto di essere sgozzati. Una ragazza seduta a un banco dell’ultima fila piangeva, mentre veniva abbracciata e consolata dall’amica che le stava accanto. Un altro si alzò di scatto, battendo le mani sul banco. Sembrava essere davvero incollerito, sul punto di scoppiare a piangere anche lui. Stava per dire, o meglio, gridare qualcosa, quando di colpo venne aperta la porta con violenza. Tanta violenza che per poco non veniva scardinata. Irruppero una decina di uomini impettiti nelle loro divise da militari. Avevano tutti delle armi tra le mani. Gli sguardi freddi, incattiviti. «Seduto!», gridò uno, puntando un fucile a pompa contro il ragazzo che si era appena alzato, il quale non riuscì a fare un solo movimento per la paura. L’insegnante d’inglese chiuse gli occhi. Non era paura, ma dolore. Dolore perché si stava tragicamente tornando ad un governo di un folle. Dolore perché chi era a capo di quello Stato, non l’aveva difeso, cedendo ai ricatti e al richiamo dei soldi. Non vi erano stati atti di forza, atti bellici prima di questo. Non vi erano state manipolazioni nel sistema politico, ma soltanto ricatti avvenuti per mezzo della scintillante e maledetta risorsa che fa impazzire gli uomini. Quell’odioso denaro, che li fa barcollare e perdere la ragione, come se fossero sotto l’effetto di un potente alcolico.
«Junichi, Junichi, ti prego!». Entrò nell’aula un uomo. Orientale anche lui, era vestito elegante. Si avvicinò al milite che aveva appena minacciato il ragazzo, poggiando una mano sul fucile. Sorridente, si avvicinò alle tre donne, arrivando di fronte la più anziana. Lei lo guardava più che disgustata. Fosse stata forte, da sola, senza tutti quegli uomini armati attorno, l’avrebbe schiacciato proprio come si fa con un verme strisciante. L’avrebbe ferito fisicamente, magari, in qualche modo, ma ancor di più, avrebbe desiderato farlo con le parole. «Qualche mese. Un paio d’anni, forse, se vi andrà bene. Ma il Paese è nostro! L’Italia è nostra! Loro se la riprenderanno», la donna indicò gli alunni, che assistevano alla scena senza batter ciglio «e voi ve ne tornerete nelle vostre case distrutti, sconfitti, pieni di vergogna! Oppure non ci tornerete!». Aveva pregato Dio di aiutarla a stare zitta, ma sapeva, che non ci sarebbe mai riuscita. L’uomo annuì e s’inchinò, come da tradizione orientale. Poi, quasi senza che lei se ne accorgesse, le baciò la mano, tornando a sorridere mentre si dirigeva verso la professoressa di storia dell’arte. Alla donna il sangue nelle vene aveva smesso di scorrere. Era rimasta turbata da quel gesto. Era rimasta turbata e ancor più disgustata di prima. L’altra, invece, per poco non scoppiava a piangere di fronte all’uomo che s’inchinò anche davanti a lei. Aveva paura, rispetto la più anziana. Si lasciò baciare la mano senza opporsi, senza riuscire poi a provare nulla, tranne quella paura che continuava ad attanagliarle lo stomaco. Quando l’uomo arrivò di fronte l’ultima insegnante la situazione fu del tutto diversa. Continuava a sorridere e lei lo guardava dall’alto in basso, impassibile. Non provava né paura o disgusto. Solo indifferenza. La tensione dei presenti era alle stelle. Non riuscivano a capire il motivo di quello interminabile scambio di sguardi tra i due. Sembrava essere una sfida a chi avrebbe ceduto prima a posare gli occhi su qualcos’altro. L’uomo finalmente s’inchinò, rimanendo in questa posizione ancora per qualche istante. Lei posò prima una mano sulla tasca dei pantaloni, poi osò portare l’altra su una guancia dell’uomo che ancora non accennava a muoversi. Un militare si avvicinò di scatto puntandole il fucile ad una tempia. La madre chiuse gli occhi, come se da un momento all’altro avesse potuto sentire lo sparo.
«Allontanati», ordinò l’uomo al milite, che a dir poco sorpreso, si distanziò immediatamente, senza obiettare. La donna sorrise «Grazie», sussurrò all’orecchio dell’orientale. Nessuna risposta. Con uno scatto fulmineo, lo prese per i capelli biondi, tirandolo, per poterlo guardare negli occhi. Sputagli in faccia, dannazione! pensò la madre che non si era ancora ripresa dallo spavento di poco prima. L’uomo continuava a dare ordine ai soldati di non intervenire. Lei tirò velocemente fuori dalla tasca un coltellino, puntandoglielo al collo. Sorrise anche lei, mentre lui continuava a fare lo stesso.
«Lara...?», sussurrò appena l’insegnante di storia dell’arte. Ora era sgomenta ed impaurita anche la più anziana. La tensione terminò finalmente, quando la donna conficcò il coltello nella cattedra.
«Grazie a lei, Tosches», rispose l’uomo dopo attimi interminabili di paura. L’insegnante annuì, lasciandolo andare. Lui si sistemò i capelli e la cravatta, mentre si accingeva a parlare alle tre «Un po’ più delicata la prossima volta, se è possibile. Verrete portate a Milano. Seguite gli altri docenti», concluse uscendo insieme ai militari. Rimasero tutti a fissare la porta. Chiara Laera, così si chiamava l’insegnante di storia dell’arte, finalmente, ebbe la possibilità di far scendere quelle lacrime. Pensava che si sarebbe trovata all’altro mondo qualche momento prima. Ora, aveva iniziato a pensare che, invece di opporsi alla dittatura, avrebbe potuto stare zitta, non badando ai sani principi imposti da uno Stato democratico. Sarebbe rimasta dietro la cattedra, certo, ma come avrebbe potuto insegnare? Professori, baroni, maestri ed anche educatrici della scuola dell’infanzia, non possono essere vincolati da alcuna dittatura. Non può essere imposto loro un metodo d’insegnamento basato sull’adorazione di un folle.
«Sei un’idiota,  maledizione!». Abbandonarono tutti i loro pensieri per assistere alla scena dell’insegnante di lettere dare un sonoro ceffone alla figlia, la quale, non proferì parola. «Potevi essere ammazzata! Non peggiorare una situazione già grave! Almeno noi dobbiamo rimanere tutte su questa maledetta Terra! Incosciente! Pensa prima di agire! Non una, ma mille volte!» «Non hai visto la croce voluta per stemma del regime da Matsumoto?! La portava rovesciata sia al collo che sul petto!». Madre e figlia iniziarono a gridarsi addosso, e nessuna delle due voleva ascoltare le ragioni dell’altra. Nel frattempo, Chiara, aveva consigliato ai suoi alunni di lasciare la scuola. E così fecero. Un’altra aula adesso era vuota. Peccato che non sarebbe più tornata come prima quella scuola. Andò a sedersi dietro la cattedra. La cattedra di quella classe dove, insieme alle sue due colleghe, aveva insegnato già per quattro anni. Stava a guardare madre e figlia che ancora litigavano, come due bambine.
«Signore, vi prego di abbandonare la scuola». L’uomo di poco prima si era affacciato alla porta. Aveva sempre quel sorriso beffardo e tranquillo stampato in faccia. Le due smisero di gridare per prestare attenzione a quello che sicuramente era un altro componente di uno dei clan più potenti della Yakuza. Una era quasi impaurita, l’altra ancora indifferente, anzi, tranquilla. Dal primo momento Lara, non aveva visto fonte di minaccia in quel giapponese, per qualche strano motivo. Oltre le buone maniere, lo stemma rovesciato del regime di Matsumoto -il dittatore che ormai stava manipolando l’Italia da soli due giorni-, gli davano una certa aria di una specie di Schindler del nuovo millennio. Almeno lei, lo vedeva così. Il paragone col famoso nazista non è un caso: Oskar Schindler era uno dei suoi idoli storici insieme al “Che”.  
Così, uscì per prima la madre, Alessandra, tenendo la testa alta, cercando di essere quasi “sprezzante del pericolo”. L’orientale la seguiva con lo sguardo sorridendo quasi intenerito. A Chiara, invece, già tremavano le gambe. Era arrivata accanto alla collega rimasta nell’aula, non esprimendo la minima intenzione di voler sorpassare quella soglia da sola. Lara sorrideva all’uomo che le guardava ancora più addolcito. No, non era una persona cattiva, lei poteva metterci le mani sul fuoco. Spinse l’amica verso la porta. Istintivamente Chiara gridò quasi terrorizzata. «Oh! Prego!», disse l’uomo impacciato facendosi da parte. La donna era rimasta a guardarlo con gli occhi spalancati. Poi a passo svelto uscì dall’aula gridando un qualcosa come «Bloise, salvami!». Dal volto di Lara era sparito il sorriso. Si diresse anche lei verso la porta. L’orientale stava a guardarla e non sorrideva più, proprio come lei. Riprese a farlo solo quando lei si fermò sulla soglia a fissarlo «Cosa l’ha spinta a comportarsi così, poco fa?», le domandò «Nulla», rispose Lara piatta «Fosse stato davvero nulla, adesso lei potrebbe essere in un altro luogo, lo sa, vero?» «Certamente, solo che un governo come quello in cui è crollata l’Italia non fa affidamento su persone che sono contro il regime dittatoriale». Sorrise all’uomo. Lui fece lo stesso «Poi mi dovrà spiegare cosa ci faceva con un coltello nella tasca dei pantaloni». Lara fece spallucce e si accinse a raggiungere le scale alla fine del grande corridoio.
   
 
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