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Autore: lullaby_89    30/05/2010    3 recensioni
Questa storia è nata per un contest.
Un'ambientazione dark di un amore per il proprio carnefice.
Amare il proprio carnefice non era semplice. L’amore si mischia all’odio e forse lo rende più forte perché non si riesce a farsene un‘idea.
Genere: Romantico, Dark, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
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Guardavo le stelle, la luna, il cielo nero come la pece.
Avevo bisogno di quella magia…

Era una necessità, un desiderio irrefrenabile che mi logorava l’anima.
In quella cella di cui conoscevo ogni pietra, le venature della roccia, le macchie di muschio che come per magia rimanevano immutate, solo la luna pareva donarmi un pizzico di pace. Illusoria, ma sempre serenità.
Quella paglia umidiccia intrecciata malamente doveva essere un letto, ma era una bestemmia definirlo tale, se ne stava solo lì, immobile, in quella nicchia buia.
Ma cosa non lo era lì?
Forse io.
Una macchia pallida su uno sfondo troppo nero.
Una personalità che piano piano si stava spegnendo, una fiammella bisognosa di ossigeno, ma ormai da tempo gli era stato negato.
Non avevo più un’anima, ormai non l’avevo da decenni. Sarebbe stato bello ricordarsi l’ultima volta in cui il mio cuore aveva avuto un battito.
Ma cosa importava adesso?
A chi era mai interessato? Strapparmi l’anima, portarmi via la vita, il calore umano…
Mi aveva resa come loro per divertimento, fregandosene della mia volontà, riducendomi ad un piccolo involucro vuoto. Una bambola di porcellana che piano piano stava perdendo lucentezza.
Ero la sua piccola marionetta i cui fili erano e saranno sempre stati nelle sue mani, avrebbe potuto fare di me ciò che voleva e lo avrebbe fatto senza rimorso.
La mia veste bianca deturpata da macchie cremisi danzava, volteggiava per quel demone dagli occhi rossi, colui che mi aveva portato via tutto lasciandomi senza un valido motivo per vivere.
Le mie labbra pronunciavano parole ad ogni suo ordine, il mio corpo rispondeva ad un suo solo cenno.
Alzando gli occhi al cielo sapevo che la luna era solo un riflesso bianco in un cielo rosso scuro, le mie iridi infernali, ma amavo guardarla perché mi regalava una sensazione di libertà.
Quella sensazione che non mi dava nient’altro in quel buco roccioso e freddo, a partire da quella porta di piombo scuro da cui puntualmente mi veniva servito il cibo, da cui la guardia arrivava e mi portava nella sua camera.
Una vita, no, non potevo chiamarla così.
Era una misera esistenza la mia, non potevo definirlo vivere quello che stavo facendo.
Io andavo avanti spinta da una forza insulsa, un motivo incomprensibile, stupido, molti avrebbero preferito la morte.
Ma forse io non lo ero già? Morta…
Il mio cuore non batteva, la mia pelle era più gelata della pietra su cui poggiavo, non trovavo pace come un fantasma intrappolato tra il mondo terreno e l’aldilà.
No. Non ero morta.
E No. Non ero viva.
Perché allora non ponevo fine a tutto questo strazio?
Adoravo quel mostro.
Amare il proprio carnefice non era semplice. L’amore si mischia all’odio e forse lo rende più forte perché non si riesce a farsene un‘idea.
Amore e odio.
Tanto diversi, tanto simili.
Lo amavo in silenzio, ma lo sapeva, l’aveva sempre saputo ed era soddisfatto, era ciò che voleva, che aveva sempre voluto. Vincere.
Stupida, l’avevo accontentato.
E piano piano mi ero concessa a lui, che mi strappava quella poca vita che mi era rimasta, riducendomi a quella che ero adesso. La sua bambola.
Quando mi voleva ero sua, e io mi sentivo di nuovo un’anima dentro.
Appagato, mi regalava il suo ghigno infernale e con un semplice gesto mi chiedeva di sparire, come se la mia presenza potesse causargli fastidio.
Di nuovo mi sentivo vuota.
Questo era il mio mondo, pieno di sofferenza e falsa felicità.

Avvertii i passi pesanti degli stivali della guardia, inconfondibili, lenti venivano verso la cella la cui porta era sempre aperta. Dove sarei mai potuta fuggire?
La porta si aprì lenta mostrandomi la luce fioca delle torce, era tremendamente fastidiosa per i miei occhi ormai così devoti al buio da detestarla.
“Mangia Seline” la sua voce era dura, ma quasi sempre mi regalava un sorriso “Il conte ti vuole con sé stanotte”
Il mio corpo ebbe un sussulto.
Gioia o timore?
Felice di poter finalmente rivedere il mio personale demone, spaventata, perché consapevole di dover soffrire nuovamente.
Lasciò entrare la mia cena, gettò un vestito elegante di un blu cobalto pregiato, il burattinaio voleva la sua bambola vestita bene.
“Sai cosa devi fare”disse e mi lasciò sola nella mia confusione.
Dopo giorni mi mossi da quel giaciglio, i muscoli scattarono veloci quando il dolce odore della mia preda arrivò alle narici. Ero una cacciatrice e niente poteva provare il contrario.
Le mie zanne si allungarono e la sete si fece sentire.
La gola bruciava e chiedeva sollievo.
Occhi neri e spaventati mi guardavano immobili, avrebbe dovuto farmi tenerezza quel piccolo animale, ma io non provavo più niente.
Io ero la bambola di porcellana del mio padrone.
“Scusami piccolo, ma io devo sopravvivere per lui”

I tendaggi neri, arazzi elaborati, divani in seta e quel letto a baldacchino che aveva una sola funzione: quella di accontentare i vizi del mio padrone.
Quella camera era il mio inferno e paradiso personale.
Stravaccato sul divano in velluto nero c’era il diavolo in persona, bello e tentatore, dannato e sensuale, gli occhi rossi come il più perfetto dei rubini.
Se ne stava lì immobile con una gamba sinistra fasciata da uno stivale nero distesa e una poggiata sul pavimento con il tacco, la punta rivolta verso l’alto si muoveva in modo ipnotico.
Tutto di lui mi incantava.
La bocca era dischiusa e mostrava denti perfetti, due punte candide dei canini poggiavano sul labbro inferiore, un sorriso tentatore a cui nemmeno la castità in persona avrebbe saputo resistere.
Le mani, che prima erano intrecciate sul suo petto perfetto, coperto da una giacca nera come la notte, adesso mi invitavano a raggiungerlo.
Non aveva bisogno di dire niente, io ero la sua bambola e mi muoveva come voleva.
Il mio corpo rispondeva inconsciamente, e lo sentivo, non stava utilizzando il suo dono, la mia mente era libera da catene, quelle fredde e potenti restrizioni che aveva usato la prima volta. Quella notte da dimenticare.
La seta del vestito frusciava sul tappeto antico, il corsetto troppo stretto mi soffocava -se avessi avuto bisogno di respirare forse lo avrebbe fatto- ma adesso il mio respiro era accelerato, come sempre, come se fossi stata ancora umana.
Sfiorò con la sua mano d’avorio la cucitura del corsetto, piano, così lento da far star male, volevo di più.
“Il blu ti dona” la sua voce era una melodia, una sinfonia di violini perfettamente incordati.
Sussultai a quel suono soave e lui rise compiaciuto.
“Mi sei mancata…” questo me lo sussurrò all’orecchio.
In un millesimo di secondo si era alzato e stava davanti a me con le sue mani perfette sulla mia vita stretta da quella gabbia di stoffa lucida. Che sapevo non sarebbe rimasta sul mio corpo ancora a lungo.
Quando la sua bocca catturò la mia in un bacio, che di dolce e delicato non aveva niente, la porta per il paradiso mi si aprì di fronte invitandomi ad entrare. La passione e la forza che metteva in quel gesto mi mandava in estasi, era duro e cattivo, ma io lo amavo.
Mi massaggiava il labbro inferiore e poi vi passava la lingua fredda impossessandosi ancora una volta di quella peccatrice ingorda.
“Spogliami” mormorò mordicchiando il mio collo disteso per agevolare ogni suo desiderio, i denti affilati tracciavano arabeschi infuocati tagliandomi leggermente. Ogni goccia di sangue che usciva veniva scrupolosamente raccolta dalla sua lingua mentre io con frenesia sbottonavo la camicia viola che indossava.
La sfilai dai pantaloni e accarezzai dal basso verso l’alto quel corpo perfetto, bianco e resistente come il marmo che emanava un profumo soave, invitante.
Gemette quando tornai in basso ed iniziai ad aprire la fibbia della cintura e con essa anche i pantaloni, che però rimasero immobili sui suoi fianchi muscolosi.
“Calmati Seline…abbiamo tutta la notte per noi” sembrava un rimprovero, quella voce sempre decisa mi faceva venire i brividi.
Posò le mani sulla mia vita accarezzandola piano per poi passare al seno strizzato in quel corsetto, sembrava ancora più prosperoso di quanto non era in realtà, e a lui piaceva, me lo ripeteva sempre.
Senza rendermene conto ero sotto di lui sul letto e la gonna del vestito non c’era più, lasciandomi solamente con la sottoveste chiara in pizzo. Così sparì anche il corsetto e il pizzo trasparente lasciava poco all’immaginazione.
Si tolse la giacca e la camicia, i pantaloni stavano ancora a fasciare le sue gambe muscolose oscurando parte della sua bellezza.
Aveva gli occhi lucidi e brillanti mentre il rosso rubino si trasformava in un nero pece, segno che l’eccitazione era arrivata al culmine, mi desiderava e questo mi rendeva felice.
Mi scrutava dall’alto a cavallo su di me, sulle mie cosce nude che sfregavano contro la stoffa morbida dei pantaloni e il freddo della pelle degli stivali che ancora indossava.
Si chinò con un ghigno maligno sul volto, le mie labbra aspettavano e desideravano le sue, ma quando posò le sue sul mio seno le mie si aprirono in un sospiro muto.
Insinuò le mani dietro la mia schiena e alzò il mio busto che si inarcò non appena i suoi denti entrarono nella carne tenera del seno, che per qualsiasi altra persona sarebbe stata impossibile da scalfire.
“Il tuo sangue è sempre il migliore” disse estasiato mentre si leccava le labbra.
La veste adesso era macchiata e le mie forze iniziavano a mancare, mi aveva nutrita solo per quello, per non uccidermi mentre mi prosciugava del mio sangue.
Mi strappò la sottoveste bruscamente e leccò la ferita ripulendola dal sangue, in pochi secondi si era già rimarginata e con forza ribaltò le posizioni, così mi ritrovai su di lui con la stoffa di pizzo sbrindellata, ormai non copriva più niente e lasciava il mio corpo candido allo scoperto.
Accarezzai quel petto centenario così attraente scendendo fino ai bottoni dei pantaloni che già avevo iniziato a sbottonare, con i palmi aperti accarezzai le su cosce tese e tirai giù la stoffa preziosa lasciandolo nudo e apparentemente vulnerabile.
Mi gettò rudemente sotto di lui e mi fece sua, come ogni volta, come voleva, quando desiderava e mai quando io ne avevo bisogno.
Era impensabile una cosa del genere, eppure io avevo bisogno del mio padrone, quando mi stringeva fino a farmi male, mi baciava con prepotenza o mi mordeva con quella bocca dalle labbra infuocate.
Di quella miserabile esistenza lui era la mia unica luce, l’appiglio un po’ precario a cui mi aggrappavo ogni volta che il mio corpo tentava di lasciarsi morire. Non volevo farlo solo perché c’era lui che qualche volta mi faceva sentire amata.
“Seline rimarrai qua, ho deciso” disse autoritario accarezzandomi la schiena mentre io ero sdraiata al suo fianco e piano massaggiavo il suo petto, la testa sulla sua spalla. Mi bloccai appena udii quella frase.
“Perché…” chiesi spaventata.
“Sei la mia amante migliore, non posso più lasciarti in quella cella, vivrai nel palazzo, ma sari sempre ciò che sei, una serva, la mia schiava” rise maligno.
Quando tutto sembrava cambiare improvvisamente la realtà veniva a schiaffeggiarti, ero la sua schiava, forse la preferita, ma ero solo un suo passatempo nelle notti in cui non aveva niente di meglio da fare.
“Mi hai dimostrato devozione e ti sottometti a tutto ciò che ti dico. Te lo meriti” sfiorò la mia coscia risalendo fino al seno schiacciato sul suo corpo statuario.
“Vieni qua” ordinò prendendomi per i fianchi e portandomi a cavallo sul suo bacino, mi strusciai lievemente facendolo gemere.
“Ho ragione, te lo meriti” ansimò mentre mi ero chinata a baciargli il volto ed il collo e intanto con le mani lo sfioravo e lo accarezzavo e le sue mani si facevano più presenti su di me.
“Sei la mia bambola…” mormorò afferrandomi per i fianchi e spingendomi su di sé per penetrarmi la seconda volta in quella notte, e sapevo che non sarebbe stata l’ultima.
Quel dolce e sadico conte era la mia unica ragione di vita.
Una vita senza senso.
Quella vita che forse adesso stava per migliorare.
  
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