«Ho
sete.»
«Secondo te dovrebbe interessarmi?»
«Sai, dovrei
avere del vino, qui da qualche parte.»
«Questo mi interessa
anche di meno, se possibile.»
«Dovresti imparare ad essere
gentile, una buona volta. Non venire a piangere da me quando anche tu
starai per morire di sete.»
Francis si alzò in piedi e diede un
paio di pacche alla sua divisa militare. La polvere e il terriccio,
assieme all'odore di sangue e polvere da sparo, venivano trasportati
dal vento fin sopra e dentro la trincea. Arthur lo osservò e
restò
accovacciato, le spalle curve e entrambe le braccia strette attorno
al fucile.
Non era molta la luce che riusciva a filtrare, eppure
ce n'era abbastanza da costringere Francis a camminare chino,
affinché la sua testa non diventasse il bersaglio di qualche
tiratore tedesco. Arthur arricciò il naso; e dire che lui
sperava
che quella fosse la volta buona per toglierselo davanti.
Francis
tornò da lui, con una bottiglia in mano, un po' polverosa e
priva di
etichetta. Arthur si sarebbe aspettato qualche vino francese di prima
qualità, con quei nomi lunghi e complessi, pieni di accenti
e di
consonanti inutili. Mentre premeva la canna del fucile contro la
spalla sinistra, gli occhi rimasero fissi su Francis, le sopracciglia
aggrottate e le labbra serrate.
Probabilmente non c'erano nemmeno
bicchieri. Arthur scosse la testa e ringraziò il fatto che
per lo
meno avessero ancora dei viveri, nonostante le pessime condizioni
igieniche, la paura di un attacco improvviso, la vicinanza tra
inglesi e francesi.
E in più faceva un freddo cane
Ma non uno
di quei freddi cane che per lo meno si accompagnavano a un cielo
limpido, era più uno di freddi cane in cui non vedi uno
straccio di
sole, ma soltanto nuvole e luce flebile, e in cui senti i vestiti
bagnati e gelidi appiccicarti alla tua pelle a suon di
umidità e
aria pesante.
Non si trattava di un freddo qualunque, ma del
freddo della guerra.
«Allora, Arthur Kirkland.»
Arthur
sollevò un sopracciglio e lo guardò.
«Il tuo inglese fa
veramente schifo.»
Francis sorrise, come se gli insulti
scivolassero via da un orecchio all'altro. Ormai ci aveva fatto
l'abitudine, all'astio che le bocche inglesi sputavano su quelle
francesi e viceversa, nonostante fossero costrette a condividere lo
stesso pane secco e ammuffito, la stessa zuppa fredda e insapore, lo
stesso letto di fanghiglia e sassi.
«Lo so, lo so. E credimi,
preferisco che continui a fare schifo, così che ognuno
capisca che
non sono inglese.»
Mentre Francis appoggiava la bottiglia alle
labbra, Arthur lo osservava vagamente offeso, i piedi affondarono di
più nel terriccio umido e una strana ruga comparve tra le
sopracciglia.
«Ehi, francese.»
«Mh?»
«Lo bevi tutto,
quel vino?»
Francis sorrise e gli porse il suo tesoro, Arthur la
afferrò e ne bevve un sorso.
«La zona attorno al fiume Somme è
bellissima.»
Arthur ascoltò in silenzio. Per quanto ne sapeva
lui, la Francia in quegli anni era uno dei posti più
pericolosi di
tutta Europa.
«Una volta mio padre mi ha portato lungo il fiume,
fino a vedere anche l'Avre.»
Per quanto ne sapeva lui, dei fiumi
francesi non poteva importargliene proprio niente. Gli sarebbe
bastato tornare a casa, magari con tutti e quattro gli arti, e
rivedere la sua famiglia e i suoi amici (se erano ancora vivi),
magari abbastanza presto, magari prima che il suo fratellino fosse
abbastanza grande da potersi arruolare nella RAF.
«Inglese?»
«Che
vuoi?»
«Mica vorrai finirti il mio vino..»
Arthur gli passò
la bottiglia, qualcuno davanti a loro correva da un lato all'altro
della trincea, portando un telefono. Era un ragazzo, poteva avere
sì
e no un ventina d'anni. Dalla bandiera cucita sul braccio sinistro,
Arthur capì che era canadese. Avrebbe voluto chiedergli che
succedeva, ma quello era già corso via, lasciando soltanto
il lungo
filo del telefono alle sue spalle.
«Secondo te è successo
qualcosa?»
«Secondo me qualche tedesco vuole farsi spaccare il
culo.»
Un soldato francese urlò un ordine in lingua madre,
Arthur non capì e Francis tradusse per lui.
«Dice che a Verdun
i tedeschi stanno avanzando. Dice che adesso noi dobbiamo attaccare
qui, per mobilitare le loro truppe.»
«Ma è un suicidio! È un
fronte di quaranta chilometri!»
Francis alzò le spalle, per
fargli capire che gli ordini non arrivavano di certo da
lui.
«Francesi del cazzo. Perché dobbiamo essere
proprio noi a
salvarvi il culo?»
Il canadese con il telefono tornò indietro
correndo e urtò la bottiglia con un piede. Quella cadde; il
vino,
sulla terra scura, aveva il colore del sangue.
Alla
fine quel ragazzo americano era stato gentile. Lo aveva aiutato, gli
aveva pulito il viso sporco con la manica della giacca e lo aveva
raccolto da terra. Aveva un accento strano, non sembrava quello del
New England, dove suo padre lo aveva portato qualche anno prima.
Qualche ora più tardi gli avrebbe detto di essere
dell'Illinois.
Quando Arthur aprì gli occhi, si rese conto di non
essere ad Amiens, nascosto nella trincea, ma in un edificio. Non
sentiva il rumore delle mitragliatrici, né le orecchie
rimbombare
dopo lo scoppio di una granata. Probabilmente lo avevano portato
via.
L'ultima cosa che ricordava, erano i soldati tedeschi che
spezzavano le linee e si ritiravano, mentre lui, assieme ad un
migliaio di cadaveri, restava sdraiato per terra, senza essere molto
cosciente del suo corpo. Ricordava che qualcuno lo aveva sollevato,
essendosi miracolosamente accorto che c'erano persone vive, inglesi,
francesi e americane.
«Ti senti meglio?»
Arthur mosse la
testa verso destra, accanto a lui c'era un soldato. Sembrava stesse
bene, ad eccezione per un cerotto sullo zigomo.
Annuì debolmente
e richiuse gli occhi.
«Hai rischiato di farti ammazzare proprio a
fine guerra. Per fortuna ti ho trovato e ti ho portato via dal campo.
Sono stato bravo, non è vero?»
Se si aspettava una pacca sulla
spalla, allora poteva scordarsela. Arthur sentiva il rumore sordo di
qualcosa che pizzicava nella sua, di spalla, probabilmente si
trattava del punto in cui il proiettile era affondato, ad
Amiens.
Arthur si limitò ad annuire, mentre il soldato lo
osservava con aria curiosa, il naso arricciato e gli occhiali che
rischiavano di scivolare via da un momento all'altro.
«Comunque
io mi chiamo Alfred e vengo da Springfield, Illinois.
Piacere!»
«Arthur, da Liverpool.»
Sentì Alfred mormorare
qualcosa, forse cercando un argomento di cui parlare. Arthur avrebbe
preferito starsene a letto, ad occhi chiusi, e riposare. Lui, in
quanto americano, non aveva assistito alla parte più tragica
della
guerra, non era inciampato nei cadaveri dei compagni, né aveva
sentire il sapore ferroso del sangue sulla lingua, non era stato
sbattuto per terra, quando Francis, a pochi metri da lui, aveva
calpestato una mina.
«Senti, se non sai come tornare in
Inghilterra, posso portartici io! Mio padre si trova lì
adesso, e
dice che dovrà rimanerci ancora per molto.»
Americani del cazzo,
che volevano fare gli eroi in ogni situazione.
«Non lo so,
io-»
«Ahahah! Lo so, sei stanco! Hai bisogno di tempo per
pensarci! In fondo voi inglesi siete così tardi a capire le
cose!»
Il rumore della sedia che strisciava sul pavimento, i
passi di Alfred e la porta che si apriva e chiudeva.
«Come
va il braccio?»
«Un po' meglio, grazie.»
«Mi fa
piacere.»
Arthur appoggiò il gomito sano contro la ringhiera
della nave. Una decina di metri sotto di loro, il canale della Manica
sembra essere calmo, forse per aiutare i soldati britannici a tornare
a casa.
«C'è la tua famiglia, a Liverpool?»
Arthur annuì,
continuando a fissare il mare.
«Mio fratello è troppo piccolo
per entrare nell'esercito, ha soltanto dodici anni.»
«Mio
fratello non so nemmeno se sia vivo, lui era a Somme.»
«C'ero
anche io. È stato un inferno...»
«Secondo te è vivo? Stava coi
canadesi.»
«I canadesi erano pochi... Non lo so. Non sai come
rintracciarlo?»
«Se è ancora in Francia... No.»
Arthur fece
spallucce. Lui aveva visto migliaia di compagni morire, cosa ne
poteva sapere del fratello di Alfred? Pregava solo che almeno fosse
tutto intero, quando lo avrebbero spedito a casa avvolto nella
bandiera (qualora fosse morto, qualora avessero ritrovato il suo
corpo). Perché più di una volta lui aveva dovuto
assistere alla
scena pietosa in cui si dovevano ritrovare tutti i pezzi di un cadavere
e capitava che non si ritrovassero, e nel caso in cui ci fosse un
braccio che avanzava, allora spesso non combaciava con quello che
mancava al morto. Era raccapricciante e le prime volte lo aveva
costretto a chinarsi per terra e a vomitare bile.
Chiuse gli
occhi, sentì il braccio di Alfred avvolgergli le spalle.
«Non
dovrei chiedertelo nemmeno, magari fa ancora male pensarci.»
Il
padre di Alfred si era dimostrato veramente gentile. Aveva permesso
ad Alfred di accompagnarlo di persona fino a Liverpool, in un vagone
di prima classe. Uno di quelli con i sedili morbidi e comodi,
soprattutto puliti, in cui loro due erano separati dal resto dei
passeggeri, e potevano parlare in santa pace.
Arthur appoggiò la
fronte contro il finestrino, mentre la Cornovaglia, chilometro dopo
chilometro, scorreva velocemente sotto le rotaie.
«A che
pensi?»
Alfred aveva il viso vicino al suo. Quando Arthur si
voltò, si ritrovò praticamente a pochi centimetri
dalla sua
faccia.
«Al fatto che mi manca casa. Mi manca perfino quella
peste di mio fratello.»
«Come si chiama tuo fratello?»
«Peter.
Lui ha-»
«Ha dodici anni, me lo hai detto.»
Alfred sorrise,
Arthur si sentì vagamente in imbarazzo, ad averlo
così vicino.
Allungò le gambe sul pavimento del treno, magari per tentare
di
scivolare via in qualche modo, ed Alfred gli poggiò la mano
su un
fianco.
Effettivamente, adesso che Alfred lo aiutava a rendersene
conto, era da un po' che non stava con qualcuno, né che lo
baciava.
Non era andato a scuola abbastanza spesso per conoscere una ragazza
carina, ma aveva lavorato così tanto tra gli operai della
fabbrica
di stoviglie (che durante la guerra aveva cominciato a produrre pezzi
di carro armato) per capire che a lui interessavano di più i
ragazzi. Eppure non ne aveva mai baciato uno.
Ovviamente non aveva
intenzione di cominciare con Alfred, che sarebbe presto partito per
Londra e poi per... E poi per...
Le labbra di Alfred erano umide,
in contrasto con le sue appena secche. La sua testa lo spingeva ad
affondare la nuca nel sedile, le sue mani si spostavano dai fianchi,
allo stomaco, al petto, alla guancia e la accarezzavano dolcemente.
Arthur chiuse gli occhi quasi automaticamente (anche perché
il
rischio di essere accecato dagli occhiali di Alfred diventava sempre
più forte).
La mente si spente, le immagini sparirono, il rumore
del treno divenne soltanto un flebile fruscio che proveniva dal fondo
del cervello.
Quando Alfred si staccò, Arthur cadde di nuovo
nella realtà.
«Era da un po' che volevo farlo...»
Alfred
sembrava imbarazzato. Non l'aveva mai visto così, di solito
era
tronfio e spavaldo, fiero di essere un soldato americano che portava
rispetto verso la patria e che aiutava l'Europa.
«Cosa?»
Arthur
lo vide trattenere a stento una risata.
«Come sarebbe a dire
“cosa”?!»
«Ah, intendi questo?»
«Non
dirmi che era il tuo primo bacio...»
Arthur arrossì di colpo,
sentì le orecchie in fiamme e l'adrenalina aumentare, il
cuore che
batteva forte e la sudorazione che diventava gelida.
«Sa dà il
caso che io abbia appena combattuto una guerra, non so se tu te ne
sia accorto.»
«Certo che me ne sono accorto.»
«Perché stai
sorridendo, stupido americano?»
«Sai, credo che resterò a
Liverpool un paio di settimane.»
Arthur sollevò un sopracciglio
con aria emblematica, Alfred strinse la presa sulla sua guancia.
«Voi americani, credete sempre di essere i benvenuti. Ti
giuro,
se avessi di nuovo il mio fucile tra le mani a quest'ora tu-»
Alfred
non seppe mai che cosa gli sarebbe successo “a
quest'ora”. Perché
la testa di Arthur sbatté contro il finestrino con un rumore
sordo,
e le sue mani gli accarezzarono velocemente la schiena. Le labbra
erano perfettamente in accordo tra loro, mentre Arthur taceva e
apriva la bocca per sentire la sua lingua.
Chiuse gli occhi,
ancora, e le immagini della guerra sparivano e si susseguivano quelle
di Alfred in ospedale, di Alfred sulla nave, di Alfred che gli
sorrideva dopo aver convinto suo padre. In uno scompartimento
nascosto della memoria, c'era la bottiglia vuota e la macchia di vino
che sembrava sangue. Si trasformava in un ricordo, mentre lui tornava
a Liverpool felice di sapere che suo fratello non si era ancora
arruolato nella RAF.
Vorrei ringraziare la mia adorata "merda", che
adora contraddirmi. ewe
Questa storia l'ho scritta in un'ora credo, senza pensare alla trama,
senza pensare a nulla. Non so, non mi convince nemmeno molto.
Ma a voi il giudizio<3