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Autore: ballerinaclassica    01/06/2010    8 recensioni
Non era inciampato nei cadaveri dei compagni, né aveva sentire il sapore ferroso del sangue sulla lingua.
«Hai rischiato di farti ammazzare proprio a fine guerra. Per fortuna ti ho trovato e ti ho portato via dal campo. Sono stato bravo, non è vero?»
[ USA/UK ]
Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: America/Alfred F. Jones, Francia/Francis Bonnefoy, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti
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«Ho sete.»
«Secondo te dovrebbe interessarmi?»
«Sai, dovrei avere del vino, qui da qualche parte.»
«Questo mi interessa anche di meno, se possibile.»
«Dovresti imparare ad essere gentile, una buona volta. Non venire a piangere da me quando anche tu starai per morire di sete.»
Francis si alzò in piedi e diede un paio di pacche alla sua divisa militare. La polvere e il terriccio, assieme all'odore di sangue e polvere da sparo, venivano trasportati dal vento fin sopra e dentro la trincea. Arthur lo osservò e restò accovacciato, le spalle curve e entrambe le braccia strette attorno al fucile.
Non era molta la luce che riusciva a filtrare, eppure ce n'era abbastanza da costringere Francis a camminare chino, affinché la sua testa non diventasse il bersaglio di qualche tiratore tedesco. Arthur arricciò il naso; e dire che lui sperava che quella fosse la volta buona per toglierselo davanti.
Francis tornò da lui, con una bottiglia in mano, un po' polverosa e priva di etichetta. Arthur si sarebbe aspettato qualche vino francese di prima qualità, con quei nomi lunghi e complessi, pieni di accenti e di consonanti inutili. Mentre premeva la canna del fucile contro la spalla sinistra, gli occhi rimasero fissi su Francis, le sopracciglia aggrottate e le labbra serrate.
Probabilmente non c'erano nemmeno bicchieri. Arthur scosse la testa e ringraziò il fatto che per lo meno avessero ancora dei viveri, nonostante le pessime condizioni igieniche, la paura di un attacco improvviso, la vicinanza tra inglesi e francesi.
E in più faceva un freddo cane
Ma non uno di quei freddi cane che per lo meno si accompagnavano a un cielo limpido, era più uno di freddi cane in cui non vedi uno straccio di sole, ma soltanto nuvole e luce flebile, e in cui senti i vestiti bagnati e gelidi appiccicarti alla tua pelle a suon di umidità e aria pesante.
Non si trattava di un freddo qualunque, ma del freddo della guerra.
«Allora, Arthur Kirkland.»
Arthur sollevò un sopracciglio e lo guardò.
«Il tuo inglese fa veramente schifo.»
Francis sorrise, come se gli insulti scivolassero via da un orecchio all'altro. Ormai ci aveva fatto l'abitudine, all'astio che le bocche inglesi sputavano su quelle francesi e viceversa, nonostante fossero costrette a condividere lo stesso pane secco e ammuffito, la stessa zuppa fredda e insapore, lo stesso letto di fanghiglia e sassi.
«Lo so, lo so. E credimi, preferisco che continui a fare schifo, così che ognuno capisca che non sono inglese.»
Mentre Francis appoggiava la bottiglia alle labbra, Arthur lo osservava vagamente offeso, i piedi affondarono di più nel terriccio umido e una strana ruga comparve tra le sopracciglia.
«Ehi, francese.»
«Mh?»
«Lo bevi tutto, quel vino?»
Francis sorrise e gli porse il suo tesoro, Arthur la afferrò e ne bevve un sorso.
«La zona attorno al fiume Somme è bellissima.»
Arthur ascoltò in silenzio. Per quanto ne sapeva lui, la Francia in quegli anni era uno dei posti più pericolosi di tutta Europa.
«Una volta mio padre mi ha portato lungo il fiume, fino a vedere anche l'Avre.»
Per quanto ne sapeva lui, dei fiumi francesi non poteva importargliene proprio niente. Gli sarebbe bastato tornare a casa, magari con tutti e quattro gli arti, e rivedere la sua famiglia e i suoi amici (se erano ancora vivi), magari abbastanza presto, magari prima che il suo fratellino fosse abbastanza grande da potersi arruolare nella RAF.
«Inglese?»
«Che vuoi?»
«Mica vorrai finirti il mio vino..»
Arthur gli passò la bottiglia, qualcuno davanti a loro correva da un lato all'altro della trincea, portando un telefono. Era un ragazzo, poteva avere sì e no un ventina d'anni. Dalla bandiera cucita sul braccio sinistro, Arthur capì che era canadese. Avrebbe voluto chiedergli che succedeva, ma quello era già corso via, lasciando soltanto il lungo filo del telefono alle sue spalle.
«Secondo te è successo qualcosa?»
«Secondo me qualche tedesco vuole farsi spaccare il culo.»
Un soldato francese urlò un ordine in lingua madre, Arthur non capì e Francis tradusse per lui.
«Dice che a Verdun i tedeschi stanno avanzando. Dice che adesso noi dobbiamo attaccare qui, per mobilitare le loro truppe.»
«Ma è un suicidio! È un fronte di quaranta chilometri!»
Francis alzò le spalle, per fargli capire che gli ordini non arrivavano di certo da lui.
«Francesi del cazzo. Perché dobbiamo essere proprio noi a salvarvi il culo?»
Il canadese con il telefono tornò indietro correndo e urtò la bottiglia con un piede. Quella cadde; il vino, sulla terra scura, aveva il colore del sangue.



Alla fine quel ragazzo americano era stato gentile. Lo aveva aiutato, gli aveva pulito il viso sporco con la manica della giacca e lo aveva raccolto da terra. Aveva un accento strano, non sembrava quello del New England, dove suo padre lo aveva portato qualche anno prima.
Qualche ora più tardi gli avrebbe detto di essere dell'Illinois.
Quando Arthur aprì gli occhi, si rese conto di non essere ad Amiens, nascosto nella trincea, ma in un edificio. Non sentiva il rumore delle mitragliatrici, né le orecchie rimbombare dopo lo scoppio di una granata. Probabilmente lo avevano portato via.
L'ultima cosa che ricordava, erano i soldati tedeschi che spezzavano le linee e si ritiravano, mentre lui, assieme ad un migliaio di cadaveri, restava sdraiato per terra, senza essere molto cosciente del suo corpo. Ricordava che qualcuno lo aveva sollevato, essendosi miracolosamente accorto che c'erano persone vive, inglesi, francesi e americane.
«Ti senti meglio?»
Arthur mosse la testa verso destra, accanto a lui c'era un soldato. Sembrava stesse bene, ad eccezione per un cerotto sullo zigomo.
Annuì debolmente e richiuse gli occhi.
«Hai rischiato di farti ammazzare proprio a fine guerra. Per fortuna ti ho trovato e ti ho portato via dal campo. Sono stato bravo, non è vero?»
Se si aspettava una pacca sulla spalla, allora poteva scordarsela. Arthur sentiva il rumore sordo di qualcosa che pizzicava nella sua, di spalla, probabilmente si trattava del punto in cui il proiettile era affondato, ad Amiens.
Arthur si limitò ad annuire, mentre il soldato lo osservava con aria curiosa, il naso arricciato e gli occhiali che rischiavano di scivolare via da un momento all'altro.
«Comunque io mi chiamo Alfred e vengo da Springfield, Illinois. Piacere!»
«Arthur, da Liverpool.»
Sentì Alfred mormorare qualcosa, forse cercando un argomento di cui parlare. Arthur avrebbe preferito starsene a letto, ad occhi chiusi, e riposare. Lui, in quanto americano, non aveva assistito alla parte più tragica della guerra, non era inciampato nei cadaveri dei compagni, né aveva sentire il sapore ferroso del sangue sulla lingua, non era stato sbattuto per terra, quando Francis, a pochi metri da lui, aveva calpestato una mina.
«Senti, se non sai come tornare in Inghilterra, posso portartici io! Mio padre si trova lì adesso, e dice che dovrà rimanerci ancora per molto.»
Americani del cazzo, che volevano fare gli eroi in ogni situazione.
«Non lo so, io-»
«Ahahah! Lo so, sei stanco! Hai bisogno di tempo per pensarci! In fondo voi inglesi siete così tardi a capire le cose!»
Il rumore della sedia che strisciava sul pavimento, i passi di Alfred e la porta che si apriva e chiudeva.



«Come va il braccio?»
«Un po' meglio, grazie.»
«Mi fa piacere.»
Arthur appoggiò il gomito sano contro la ringhiera della nave. Una decina di metri sotto di loro, il canale della Manica sembra essere calmo, forse per aiutare i soldati britannici a tornare a casa.
«C'è la tua famiglia, a Liverpool?»
Arthur annuì, continuando a fissare il mare.
«Mio fratello è troppo piccolo per entrare nell'esercito, ha soltanto dodici anni.»
«Mio fratello non so nemmeno se sia vivo, lui era a Somme.»
«C'ero anche io. È stato un inferno...»
«Secondo te è vivo? Stava coi canadesi.»
«I canadesi erano pochi... Non lo so. Non sai come rintracciarlo?»
«Se è ancora in Francia... No.»
Arthur fece spallucce. Lui aveva visto migliaia di compagni morire, cosa ne poteva sapere del fratello di Alfred? Pregava solo che almeno fosse tutto intero, quando lo avrebbero spedito a casa avvolto nella bandiera (qualora fosse morto, qualora avessero ritrovato il suo corpo). Perché più di una volta lui aveva dovuto assistere alla scena pietosa in cui si dovevano ritrovare tutti i pezzi di un cadavere e capitava che non si ritrovassero, e nel caso in cui ci fosse un braccio che avanzava, allora spesso non combaciava con quello che mancava al morto. Era raccapricciante e le prime volte lo aveva costretto a chinarsi per terra e a vomitare bile.
Chiuse gli occhi, sentì il braccio di Alfred avvolgergli le spalle.
«Non dovrei chiedertelo nemmeno, magari fa ancora male pensarci.»



Il padre di Alfred si era dimostrato veramente gentile. Aveva permesso ad Alfred di accompagnarlo di persona fino a Liverpool, in un vagone di prima classe. Uno di quelli con i sedili morbidi e comodi, soprattutto puliti, in cui loro due erano separati dal resto dei passeggeri, e potevano parlare in santa pace.
Arthur appoggiò la fronte contro il finestrino, mentre la Cornovaglia, chilometro dopo chilometro, scorreva velocemente sotto le rotaie.
«A che pensi?»
Alfred aveva il viso vicino al suo. Quando Arthur si voltò, si ritrovò praticamente a pochi centimetri dalla sua faccia.
«Al fatto che mi manca casa. Mi manca perfino quella peste di mio fratello.»
«Come si chiama tuo fratello?»
«Peter. Lui ha-»
«Ha dodici anni, me lo hai detto.»
Alfred sorrise, Arthur si sentì vagamente in imbarazzo, ad averlo così vicino. Allungò le gambe sul pavimento del treno, magari per tentare di scivolare via in qualche modo, ed Alfred gli poggiò la mano su un fianco.
Effettivamente, adesso che Alfred lo aiutava a rendersene conto, era da un po' che non stava con qualcuno, né che lo baciava. Non era andato a scuola abbastanza spesso per conoscere una ragazza carina, ma aveva lavorato così tanto tra gli operai della fabbrica di stoviglie (che durante la guerra aveva cominciato a produrre pezzi di carro armato) per capire che a lui interessavano di più i ragazzi. Eppure non ne aveva mai baciato uno.
Ovviamente non aveva intenzione di cominciare con Alfred, che sarebbe presto partito per Londra e poi per... E poi per...
Le labbra di Alfred erano umide, in contrasto con le sue appena secche. La sua testa lo spingeva ad affondare la nuca nel sedile, le sue mani si spostavano dai fianchi, allo stomaco, al petto, alla guancia e la accarezzavano dolcemente. Arthur chiuse gli occhi quasi automaticamente (anche perché il rischio di essere accecato dagli occhiali di Alfred diventava sempre più forte).
La mente si spente, le immagini sparirono, il rumore del treno divenne soltanto un flebile fruscio che proveniva dal fondo del cervello.
Quando Alfred si staccò, Arthur cadde di nuovo nella realtà.
«Era da un po' che volevo farlo...»
Alfred sembrava imbarazzato. Non l'aveva mai visto così, di solito era tronfio e spavaldo, fiero di essere un soldato americano che portava rispetto verso la patria e che aiutava l'Europa.
«Cosa?»
Arthur lo vide trattenere a stento una risata.
«Come sarebbe a dire “cosa”?!»
«Ah, intendi
questo
«Non dirmi che era il tuo primo bacio...»
Arthur arrossì di colpo, sentì le orecchie in fiamme e l'adrenalina aumentare, il cuore che batteva forte e la sudorazione che diventava gelida.
«Sa dà il caso che io abbia appena combattuto una guerra, non so se tu te ne sia accorto.»
«Certo che me ne sono accorto.»
«Perché stai sorridendo, stupido americano?»
«Sai, credo che resterò a Liverpool un paio di settimane.»
Arthur sollevò un sopracciglio con aria emblematica, Alfred strinse la presa sulla sua guancia.
«Voi americani, credete sempre di essere i benvenuti. Ti giuro, se avessi di nuovo il mio fucile tra le mani a quest'ora tu-»
Alfred non seppe mai che cosa gli sarebbe successo “a quest'ora”. Perché la testa di Arthur sbatté contro il finestrino con un rumore sordo, e le sue mani gli accarezzarono velocemente la schiena. Le labbra erano perfettamente in accordo tra loro, mentre Arthur taceva e apriva la bocca per sentire la sua lingua.
Chiuse gli occhi, ancora, e le immagini della guerra sparivano e si susseguivano quelle di Alfred in ospedale, di Alfred sulla nave, di Alfred che gli sorrideva dopo aver convinto suo padre. In uno scompartimento nascosto della memoria, c'era la bottiglia vuota e la macchia di vino che sembrava sangue. Si trasformava in un ricordo, mentre lui tornava a Liverpool felice di sapere che suo fratello non si era ancora arruolato nella RAF.










Vorrei ringraziare la mia adorata "merda", che adora contraddirmi. ewe
Questa storia l'ho scritta in un'ora credo, senza pensare alla trama, senza pensare a nulla. Non so, non mi convince nemmeno molto.
Ma a voi il giudizio<3

   
 
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