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Autore: _Mary    07/06/2010    11 recensioni
"“Sei splendida, Dromeda”. Cissy sorrideva alle mie spalle, sincera. Quello che lo specchio rifletteva, però, mi sembrava tutto fuorché splendido: una ragazza infilata in un elegante vestito bianco con una ridicola corona di fiori in testa, in piedi su uno sgabello che veniva continuamente aggirato dalla sarta, sorridente anche lei."
~ Seconda classificata al contest 'Colonne sonore dei film d'animazione Disney' indetto da Harriet sul forum di EFP.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio, Andromeda Black, Narcissa Malfoy | Coppie: Ted/Andromeda
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Gocce di pioggia'
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Note dell’autrice

Questa fanfiction partecipa al contest Colonne sonore dei film d’animazione Disney indetto da Harriet sul forum di EFP (le iscrizioni sono ancora aperte, se qualcuno fosse interessato). Si richiedeva di scegliere una canzone Disney e di costruirci sopra una fanfiction: io ho scelto ‘Riflesso’, tratta da Mulan, e come protagonista un personaggio che ho trovato adatto alla circostanza e che mi aveva già portato fortuna :D

E anche perché ho recentemente scoperto le Ted/Andromeda di whateverhappened, che sono stupende e che hanno fatto battere il mio cuoricino più che mai per questi due personaggi così ingiustamente bistrattati *-*

 

Detto questo, buona lettura!

 

DISCLAIMER: i personaggi non mi appartengono, sono tutti di JK Rowling. La fanfiction non ha scopo di lucro.

 

 

Through the looking-glass

 

 

“Sei splendida, Dromeda”.

Cissy sorrideva alle mie spalle, sincera. Quello che lo specchio rifletteva, però, mi sembrava tutto fuorché splendido: una ragazza infilata in un elegante vestito bianco con una ridicola corona di fiori in testa, in piedi su uno sgabello che veniva continuamente aggirato dalla sarta, sorridente anche lei.

“Ma certo che lo è” confermò quella, fermandosi ad ammirare il risultato.

Sentivo le mani tremare, mentre stringevano convulsamente un lembo di stoffa immacolata.

Certo che ero stupenda, incartata nel mio sudario.

La luce grigiastra di quella giornata di luglio entrava nella mia stanza come nebbia, attraverso le tende bianche. Fiori e bozze per le decorazioni erano sparsi un po’ ovunque, in accostamenti che avevano fatto raccapricciare mia madre, che avrebbe voluto che tutto fosse perfetto, il giorno del matrimonio della sua piccola Dromeda. La sarta era arrivata quella mattina da Parigi con un vestito che probabilmente costava quanto un piccolo appartamento nella Londra babbana; ma i miei genitori avrebbero fatto questo e altro per un’alleanza tra due delle più importanti famiglie Purosangue del mondo magico.

“Nostra madre sarà soddisfatta del suo lavoro, Madame, glielo garantisco. Neanche Bellatrix aveva un vestito del genere” continuò Narcissa, avvicinandosi e prendendo tra le sue dita sottili la stoffa dell’abito, prima di approvarla con un cenno del capo.

Ponso che sia una delle mie migliori creazioni” biascicò la sarta col suo pesante accento francese, aprendosi poi in un ghigno che non aveva proprio niente di elegante.

La osservai dallo specchio: sembrava un grosso avvoltoio rapace, con gli occhi piccoli e ravvicinati, il naso adunco, i capelli grigi raccolti in quello che avrebbe dovuto essere un elegante chignon, le mani dalle dita lunghe e sottili, avide.

“Ma lei, mademoiselle, non disce nulla? Forse preferirebbe un oltro abito?” chiese corrugando la fronte, probabilmente temendo già che ad una mia parola – o ad una mia smorfia di disappunto – potesse essere rispedita in Francia senza tanti complimenti e, cosa ancora peggiore, senza un soldo.

Io scossi la testa senza dire niente, non riuscendo a staccare gli occhi dallo specchio.

“No” risposi in un soffio. “Non ho mai visto un burattino vestito meglio”.

La sarta mi guardò senza capire. Cissy, invece, colse l’allusione. Vidi un lampo di rimprovero nel suo sguardo, prima che tornasse a sorridere forzatamente alla donna.

“Mia sorella è un po’ stanca, Madame, non le presti troppa attenzione” sibilò con un sorriso che avrebbe dovuto farle dimenticare la mia maleducazione. La sarta annuì con fare comprensivo. Io, nonostante tutto, non potei trattenermi dal sorridere: anche Cissy, allora, doveva essere molto stanca. L’ipocrisia è un compito ventiquattr’ore su ventiquattro.*

“La accompagnerò da mia madre, Madame, è nella sala grande. Andromeda, tornerò subito”.

Calcò pesantemente l’ultima parola. Io non risposi. Quando sentii la porta della mia stanza che si chiudeva alle loro spalle, scesi dallo sgabello e mi sedetti, togliendomi stancamente la corona di fiori e iniziando a sciogliermi i capelli, intrecciati in un’acconciatura che niente avrebbe avuto da invidiare ad una di quelle parrucche babbane che avevo visto nelle raffigurazioni delle donne del Settecento, nei libri di zio Alphard.

Mi lasciai sorprendere da un mezzo sorriso al pensiero di mio zio. Non appena aveva saputo del matrimonio si era precipitato a casa nostra. L’avevo sentito litigare furiosamente con mio padre, rinchiusa nella mia stanza. Aveva affrontato i miei genitori urlandogli cose che avevo trovato molto coraggiose ed allo stesso tempo molto sciocche, ma gliene ero stata grata. Si era comportato così perché mi voleva bene.

E perché sapeva.

 

Chérie, sei preoccupata. No, pensierosa. Entrambe”.

I bagliori rossastri delle fiamme nel camino riuscivano a stento ad illuminare le pareti della stanza. Mio zio, seduto in poltrona, mi stava guardando attentamente.

Avevo sospirato.

“Ted” avevo detto, semplicemente. Zio Alphard aveva imprecato in francese con una veemenza che mi aveva fatto sorridere.

“Avete litigato? Hai scoperto che…?”.

“No, zio, niente del genere!” mi ero affrettata ad interromperlo, portandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

Zio aveva ripreso a fumare la pipa senza staccarmi gli occhi di dosso. Mi ero chiesta con una fitta al cuore se fosse deluso, se non avesse sperato per un momento che tutto si risolvesse così, semplicemente, senza fughe e tragedie.

“Vorrei che fosse più facile. Anche per lui. Tutto qui” avevo spiegato alzando le spalle.

Zio aveva sbuffato.

“Fino a prova contraria, Princesse, lui in questa storia non sta rischiando niente. Sei tu quella che potrebbe essere cacciata fuori di casa da un momento all’altro, lo sai questo?”.

“Ted non ti piace per niente, eh?” avevo sorriso, avvicinandomi ed abbracciandolo.

“Assolutamente no” aveva risposto con una smorfia.

Avevo ghignato.

“Non ero io quella preoccupata, pensierosa o entrambe?”

“Non ero io, cito testualmente, il ‘troll che non capisce i tuoi sentimenti’, ‘uno dei loro’, il ‘traditore’?” aveva ribattuto zio, sdegnato.

Avevo riso. Era bello parlare con lui, sembrava quasi di essere in una famiglia normale.

“Quel giorno ero arrabbiata, ti sarei grata se la smettessi di ricordarmi le parole che ti ho urlato contro”.

“E io ti sarei estremamente grato se decidessi di crescere e ti togliessi dalla testa quello lì”.

Zio aveva continuato a fissare le fiamme nel camino. Io avevo sbuffato lievemente.

“Ma so che sei l’essere più testardo che la famiglia Black abbia mai conosciuto. E le parole di questo troll” aveva detto con un sorriso amaro, indicandosi “non riusciranno a farti cambiare idea”.

Mi era seduta accanto a lui sul pavimento.

“E io so che, nonostante tu sia un vecchio brontolone, continuerai comunque a volermi bene come hai sempre fatto. Anche quando sarai tornato in Francia e non potrai più borbottare contro ‘l’orrendo, obbrobrioso, orribile clima inglese’ e contro le ragazze innamorate” avevo concluso sorridendo.

Zio Alphard aveva alzato gli occhi al cielo.

Bien, ça suffit. Siamo stati abbastanza melensi per oggi, n’est pas?”.

 

Provai a slacciarmi i bottoni sulla schiena che mi tenevano bloccata nel mio vestito da sposa, ma rinunciai. Forse, pensai, loro tentavano di tenermi prigioniera persino nei miei stessi vestiti.

Com’era strano: avevo saputo di matrimoni che rendevano felici ed io, per un cognome, non avrei potuto averne uno.

Quello con Ted era stato un sogno. Mi ero illusa di poter davvero avere una vita con lui. Ed era stata l’illusione più bella della mia vita: chiudendo gli occhi potevo immaginare di stare ancora tra le sue braccia, e potevo quasi vedere il suo sorriso, sentire i suoi baci sulle mia labbra, le sue carezze sulla mia pelle, il suo profumo.

Ma non avrei potuto lasciare davvero la mia famiglia: li avrei persi se avessi fatto ciò che avrei voluto. Per un cognome, non avrei mai potuto avere la felicità che avevo assaporato durante il mio ultimo anno a Hogwarts. Quella felicità fatta di segreto, nascosta agli occhi del mondo e visibile soltanto alle stelle, alla notte chiara, al soffio furtivo del vento che ci carezzava quando stavamo a Hogsmeade, nel vicolo più appartato che eravamo riusciti a trovare.

Quella felicità alla quale l’Andromeda nello specchio aveva rinunciato.

 

“Ti sposi?”.

Avevo annuito senza trovare la voce necessaria ad altre spiegazioni.

“Quest’estate” avevo mormorato. Ted mi aveva abbracciata senza dire un’altra parola.

“Andrà tutto bene. Troveremo una soluzione, Dromeda”.

“No. Non la troveremo”.

Ted mi aveva guardata negli occhi. Io non avevo potuto sostenere il suo sguardo.

“Cosa vuoi dire, Andromeda?” aveva mormorato, cauto, costringendomi ad alzare lo sguardo. Avevo le lacrime agli occhi.

“Vieni via con me. Ho un lavoro ed una casa. Staremo insieme” aveva sussurrato, scuotendomi per le spalle.

Avevo scosso la testa.

“Non posso deluderli” avevo risposto. “Non posso”.

Ted non si era mosso di un centimetro.

“Ti dispiace perderli? Non vuoi lasciarli?”

Non avevo detto niente.

“Non posso lasciarli, Ted”.

Ted aveva ritratto le mani come se si fosse scottato.

Non avevo avuto il coraggio di rimanere. Gli avevo voltato le spalle, ma il vento di dicembre non era stato tanto clemente da impedirmi di sentire la sua ultima frase:

“Sei davvero tu, Andromeda? O sei solo il suo riflesso?”

 

“Mi spieghi cosa vorresti ottenere?”

Mia sorella entrò furiosa in camera mia.

“Prego?” chiesi inarcando un sopracciglio. “Non mi sembra di aver fatto qualcosa di male, no?” ribattei, rivolgendole un sorriso sprezzante.

“Non hai fatto niente, Dromeda, è questo il punto!” sibilò Narcissa, trafiggendomi con lo sguardo.

Io le risi in faccia.

“Oh, allora devo aggiungere il non fare niente alla lista delle cose da non fare. Fammi pensare, magari tra il ribellarsi ad un matrimonio che non voglio e il rispondere alle provocazioni dei parenti idioti?” chiesi alzandomi in piedi.

“È il tuo matrimonio questo, Dromeda, è tanto chiedere un po’ di entusiasmo?”

“Non l’ho scelto io questo matrimonio!” urlai, scaraventando la corona di fiori per terra. Cissy arretrò di un paio di passi. “Perché dovrei mostrare entusiasmo? Tu lo faresti?” sibilai, trafiggendola con lo sguardo.

Cissy sembrò spaventata dalla mia esplosione.

“Farei quello che vuole la mia famiglia, Dromeda” rispose cautamente.

Mi abbandonai a sedere sul letto, reggendomi al baldacchino, non riuscendo a trattenere una risata di morte.

“Già. Faresti quello che vogliono i Black” dissi scuotendo la testa. “E se io non lo facessi, invece, mi troverei tutto il clan contro, non è così?” continuai.

Scoppiai in lacrime. Mi succedeva spesso nell’ultimo periodo, e puntualmente dopo ogni esplosione mi davo della stupida. Per aver lasciato Ted, prima di tutto. Per aver deciso di seguire l’Andromeda dello specchio, un’Andromeda in cui non mi riconoscevo e in cui non mi sarei mai riconosciuta, un’ombra ingannevole, un riflesso distorto di me, piuttosto che il mio cuore.

Il cuore. Possederne uno in una famiglia come la mia poteva risultare fatale.

Narcissa prese un profondo sospiro. Si sedette accanto a me e cominciò lentamente a slacciare i bottoni del mio vestito.

“Ecco. Va già meglio, vero?” chiese dopo avermi allentato il busto.

Con mio grande sollievo potei tornare a respirare. Annuii.

“Dromeda, devi stare al tuo posto. È il tuo dovere come figlia, sposarti ed avere dei bambini. Lo sai che non puoi fare altrimenti”.

Non risposi. Avevo affrontato centinaia di volte un discorso del genere, e si era concluso sempre con la frase “Sei una Black, Andromeda, non puoi permetterti certe idee”. Evidentemente ‘essere una Black’ significava non avere il bene dell’intelletto.

Nell’ultimo periodo sembrava che l’Andromeda nello specchio stesse perdendo sempre più punti. Quasi non ricordavo più perché avessi deciso di accontentare la mia famiglia. Soffocavo quando pensavo a ciò che sarebbe avvenuto dopo la cerimonia. Una cerimonia in cui qualcuno mi avrebbe presa a braccetto e condotta all’altare, prima di mettere la mia mano in quelle di qualcuno che non amavo e non avrei mai amato.

Narcissa si era allontanata ed era tornata con una spazzola.

“Hai dei capelli bellissimi, Dromeda. Dovresti curarli di più, lo sai quanto ci tiene la mamma” disse, cominciando a spazzolarli lentamente.

Feci un mezzo sorriso.

“Pensi che se glieli vendessi il loro prezzo sarebbe sufficiente a liberarmi?” chiesi amaramente.

“So che non lo pensi davvero”.

“Non sai quanto ti sbagli” risposi con una decisione che non avevo mai provato.

Mi ero chiesta a lungo se avessi fatto bene a seguire quel riflesso che non mi somigliava. Mi ero chiesta come sarebbe stato guardarsi allo specchio di casa Tonks. Mi ero chiesta quale luce avrei potuto vedere nei miei occhi, mi ero chiesta se in un ambiente diverso avrei sorriso di più, se Ted avrebbe continuato ad amare me per come ero e non per come avrebbe voluto che fossi. Mi ero chiesta se avessi fatto bene a scegliere di vivere come un burattino nelle mani di qualcun altro.

In quel momento ebbi la risposta.

Mi voltai a guardare Narcissa: si era stesa sul letto, stanca. I suoi bellissimi occhi erano chiusi, e i capelli biondi erano liberi sulla coperta rossa. Provai un’improvvisa tenerezza nel vederla così: per un momento mi sembrò di vedere di nuovo la bambina che era stata, quella che aveva paura dei tuoni e correva nella mia stanza, la notte, tremante, e non la ragazza fredda e distante che era negli ultimi tempi.

Anche lei doveva aver provato una sensazione simile. Sorrise debolmente.

“Canta una ninna nanna per me, Dromeda. Come quando eravamo piccole” mormorò, sempre ad occhi chiusi.

Sorrisi a mia volta, triste. Le presi una mano e cominciai a carezzargliela lentamente. Mormorai una canzone dolce e triste che le avevo sussurrato in altri tempi, quando le alleanze familiari ed i nostri caratteri così diversi non ci avevano ancora rese due estranee. Per un po’ mi sembrò che persino il tempo si fosse fermato, per permettermi di fingere che tutto andasse bene e che oltre la porta della mia stanza non ci fosse niente. Né un domani, né doveri, né ossessioni, né guerra.

Poggiai le dita sulla fronte pallida di Narcissa, mentre lei scivolava quietamente nel sonno.

Poi, piano, mi allontanai dal letto per guardarmi nello specchio. La gonna si era piegata e stropicciata, e i capelli sciolti avevano preso nuovamente la loro solita piega indefinita. Mi accorsi che una delle mie mani stringeva ancora una piega della gonna bianca, e la ritrassi di scatto, disgustata dal contatto con quel vestito che mi avrebbe portato solo dolore.

Ed ebbi paura.

Ebbi paura di vedermi vecchia accanto a qualcuno che non avevo mai sopportato. Ebbi paura di vedermi costretta in un abito che non sentivo mio. Ebbi paura della mia precedente esitazione, delle mie risposte alle lettere di Ted in cui mi era stata offerta la fuga, della nebbia in cui mi ero mossa fino a quel momento. La nebbia che io stessa avevo creato per proteggermi e per impormi di non vedere dove stessi finendo.

Decisi. E, per un attimo, mi sembrò di vedere Bellatrix nello specchio: lo sguardo spaurito era scomparso, e nella figura al di là della cornice vedevo una determinazione che avevo ammirato solamente nella mia sorella maggiore.

Non mi tolsi neanche il vestito, avrei solo perso tempo. Sapevo che l’avrei sporcato e strappato, correndo, e quel pensiero mi diede la forza di dirigermi verso la porta ed aprirla: avrei distrutto così il simbolo della mia prigionia, avviandomi verso la libertà.

Prima di uscire dalla mia stanza mi voltai un’ultima volta, salutando quella parte di me che sarebbe stata custodita lì per sempre.

Salutando Narcissa, sperando che fosse felice nella semi-vita che aveva scelto.

Salutando la ragazza insicura che aveva quasi deciso di sacrificare se stessa per ideali che non le appartenevano. Salutando quel che rimaneva di Andromeda Black.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Credits:

-Il titolo si ispira, neanche tanto velatamente, a ‘Through the looking-glass and what Alice found there’, di Lewis Carroll, tradotto in italiano come ‘Alice nello specchio’ et similia.

Alcune parole della sarta sono storpiate proprio perché lei è francese, ovviamente.

*cit. da William Somerset Maugham.

 

 

 

Altre note dell’autrice

Questa è la seconda fanfiction che scrivo su Andromeda. Ne ho in cantiere una terza che la vede come co-protagonista, che sarà pubblicata verso agosto, e due piccine picciò che probabilmente non vedranno mai la luce.

Qualcuno forse noterà che Alphard è ricomparso, dopo l’apparizione in ‘Nido di Ragni’: non ne vuole proprio sapere di lasciarmi in pace :P

E, ultimo ma non meno importante, avviso per gli eventuali lettori di passaggio che stanno seguendo la mia long ‘Rowena Ravenclaw’: il nuovo capitolo arriverà a breve, devo solo scrivere la parte di Mandy :D

 

Ne approfitto anche per ringraziare quelli che hanno messo tra Preferite/Ricordate le mie precedenti one-shot – alle recensioni ho già risposto via e-mail :D

 

Intanto, ricordate che una recensione rende felice me e fa acquistare punti a voi – e, cosa ancora migliore, non deve essere necessariamente positiva, dato che non sono ancora arrivata a sbranare nessuno per una critica 8D

 

Un abbraccio,

Ilaria





Edit del 4 luglio 2010:

Sono usciti i risultati del contest di Harriet, e… beh, con mia grande sorpresa e gioia questa fanfiction si è classificata seconda, con un giudizio che mi ha davvero fatta arrossire.

Lo riporto, nel caso in cui qualcuno fosse interessato:

 

“Riflesso” da “Mulan” accompagna i pensieri di Andromeda Black, alle porte di un matrimonio deciso dalla famiglia.

 

Forma e lessico corretti, stile piacevole, con alcuni momenti particolarmente azzeccati, sprazzi che mi hanno dato la sensazione di “molto riuscito”.

Storia scorrevole, con una struttura ben congegnata.

Ho apprezzato moltissimo l’idea di mostrarci Andromeda nel momento in cui si trova a dover scegliere se sacrificare la sua felicità alle regole della famiglia, oppure ribellarsi e gettarsi in un futuro più difficile, ma sicuramente più felice. Buona la costruzione della storia, alternata tra presente e flashback: non ci sono grandi eventi, ma ci sono grandi pensieri e riflessioni, e questa cose sono ben congegnate e scandiscono il ritmo della storia.

Notevole l’idea di far partire tutto dalla prova dell’abito da sposa e dal riflesso di lei nello specchio, con quell’abito indosso: la ragazza nello specchio diventa “l’altra lei”, quella che spinge Andromeda a fare la sua scelta definitiva. Bello anche il rapporto tra le sorelle, plausibili i riferimenti al modo di pensare e di agire dei membri della famiglia Black, così legati ai loro concetti di purezza, e al modo soffocante di considerare l’appartenenza alla famiglia.

Il tema è perfettamente rintracciabile nella storia e le dà la sua impronta.

A livello di gradimento personale, l’ho apprezzata molto, forse perché parla di un personaggio che amo in un modo che ho trovato molto congeniale alla mia maniera di vedere ed interpretare Andromeda e la famiglia Black. Un altro punto a favore di questa storia, per quanto riguarda il mio gusto, va allo stile: come ho già detto, in alcuni passaggi ho avvertito quella sorta di “scatto” che avviene quando le parole filano proprio bene e senti che ti stanno davvero comunicando qualcosa, ti stanno sorprendendo.

   
 
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