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Autore: Briseide    05/09/2005    7 recensioni
Sono stato io il primo a notarla.
Il primo a vederla, mentre tutti si limitavano a guardarla. [...]
Perché sei mia, mia piccola Narcissa, e senza di me, non vai da nessuna parte.
Genere: Dark | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Lucius Malfoy, Narcissa Malfoy
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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Falling away with you



Sono stato io il primo a notarla.
Il primo a vederla, mentre tutti si limitavano a guardarla.
Io il primo a capire veramente chi fosse e di cosa e di chi avesse bisogno.
Sono stato il primo a scoprire cosa le dava piacere, cosa la faceva sorridere e cosa adombrarsi, fino ad imbronciare le labbra e socchiudere gli occhi.
Ho scoperto piccoli segreti del suo corpo di cui tutti gli altri, persino sua madre che l’ha messa al mondo e suo padre che l’ha osservata per tutta la sua crescita per vantarsi della sua bellezza, non conoscevano l’esistenza.
E la prima volta che provai un certo piacere al minimo contatto, pelle contro pelle, è stata a causa sua.

Mia piccola Narcissa, luce dei miei occhi e piacere dei miei sensi. Sollievo delle mie labbra e sospiro del mio petto. Mia spina nel fianco, mio antidoto a qualsiasi veleno, mio sole. La mia piccola stella, ad illuminare il buio del mio mondo.

Quella prima volta, fu al ricevimento di casa Black. Uno dei tanti per tutti, uno dei pochi interessanti per me.
La luce della sala era soffusa, e tutti erano presi a nascondere le proprie carezze lascive, e le proprie trame da traditori, tra le note fosche di quella musica, e la scarsa illuminazione.
E lei era lì. Non in disparte, semplicemente lontana. Lontana da tutti gli altri, dall’altra gente.
Teneva un bicchiere di vetro sottile tra le mani, e le sue dita avvolgevano il collo elegante di quel bicchiere con una grazia insospettabile, quasi fossero state plasmate per tenere in mano quel bicchiere.
Sbagliato.
Più guardavo quelle mani e più mi rendevo conto che fossero fatte per me. La vidi voltarsi, per versare qualcosa nel bicchiere, e mi accorsi che avrei dovuto poggiare con delicatezza velata la mia mano in quella lieve incurvatura, appena accennata, della sua schiena, e poi con una lieve pressione accostarla a me, lasciare che appoggiasse una mano sulla mia spalla, lì proprio lì, dove c’era già il segno delle sue dita affusolate nel tessuto nero della giacca da ricevimento.
Ogni suo movimento, era finalizzato ad uno scopo, si muoveva con lentezza in quell’enorme spazio, riducendolo a quei pochi centimetri che le servivano per ogni movimento.
Spostava appena il piede e poi l’altro per avvicinarsi ad un tavolo, o parlare con qualcuno, e il mondo si riduceva a quelle mattonelle pregiate che lei accarezzava con quei passi piccoli, soffici, che non lasciavano la scia di alcun rumore, nonostante i tacchi che alzavano di poco la sua figura minuta.
Era lei, lì per me.
La mia Narcissa.

Sorrideva, distendendo di poco le labbra e curvandone un angolo, non lasciava mai intravedere il biancore dei suoi denti perfetti, una simmetria introvabile in quella natura che davanti a lei era imperfetta. Assottigliava gli occhi, e lasciava che le ciglia lunghe e scure ombrassero di poco la lucidità di quell’azzurro. E nel sorridere inclinava la testa verso sinistra, e nel farlo un boccolo biondo si attorcigliava sulla sua spalla, dopo una veloce discesa lungo il collo bianco e sottile. E si fermava lì, sulla sua spalla, o accarezzava il bordo del suo vestito, e si adagiava all’altezza di un seno. Perfetto per la mia mano.

Parlava, e le parole scivolavano leggere su quelle labbra appena colorate, e con un soffio raggiungevano chi le era di fronte, intento a guardare le sue labbra, perdendosi quel gioco di luce che i suoi occhi gli rivolgevano, ironici testimoni di quanto fosse debole il controllo della mente umana alla passione e al desiderio.
Di tanto in tanto spostava il bicchiere, e faceva oscillare il liquido ambrato che c’era dentro. Si scontrava contro quelle prigioni trasparenti, a seconda della sua voglia del momento. Giocare con il bicchiere, giocare con le labbra, giocare con lo sguardo, giocare con chi le era di fronte senza avvisarlo di essere partecipe di quel gioco.
Le erano tutti intorno, senza però circondarla. Lei sembrava non accorgersi del girotondo di occhi e di pensieri che si agitavano intorno a lei. L’intera sala le ruotava intorno, a lei e al candore dei suoi diciotto anni, appena compiuti. Tutti a guardare lei.
Ma io potevo vedere le loro mani allungarsi, cercare di sfiorarla, di rubarle un po’ di quella luce appena nata, e il ritrarle indietro quasi scottati, un attimo dopo il loro tentativo, e non potevo fare a meno di sorridere, senza neanche volerlo nascondere. Nessuno l’avrebbe mai raggiunta, perché lei era mia, era lì per me, e avrebbe smesso di levare quello sguardo su un altro uomo non appena l’avessi sfiorata io.
Me ne stavo lì, a guardarla in silenzio, quando compresi che aspettava me. Da sempre forse, o da dieci minuti, da quando quelle parole cariche di falso miele l’avevano annoiata, magari.

E mentre lasciavo il mio bicchiere nelle mani del primo di passaggio, che avessi offerto qualcosa ad un conoscente o avessi lasciato il proprio lavoro nelle mani di un maggiordomo non aveva importanza, e mi facevo sempre più vicino, sentivo degli sguardi sul mio collo, e sapevo chi erano.
Erano tutti gli uomini di quella sala, vecchi assassini, anziani traditori, non più giovani perversi, che vedevano farmi sempre più vicino, e avvicinarsi al tempo stesso a loro la consapevolezza rabbiosa che tra poco sarebbero morti, e non l’avrebbero avuta mai, la mia Narcissa. Che non avrebbero mai avuto neanche il pretesto per tenerla vicino a loro, o per toccarla. E leggevo nei movimenti nervosi delle loro mani, che lo sfiorarla non era abbastanza, per gente come loro. E non lo era neanche per me.

Quando finalmente la toccai, e poggiai la mia mano nell’incurvatura della sua schiena, e sentii le sue dita accarezzare la stoffa della giacca e serrarsi leggere sulla mia spalla, mi domandai come facesse quella gente a voler vivere ancora quando una creatura come la mia Narcissa sarebbe dovuta morire. E come facevo io stesso a non temere di sopravviverle. Sarebbe stato il male peggiore, peggiore persino della sua morte.
Ma intanto era ancora lì, poggiata contro di me, e se la musica fosse finita, il problema non ci avrebbe neanche lontanamente sfiorato. Eravamo noi a condurci, nessuna musica.

Quella pelle sarebbe scivolata contro la mia come seta. La potevo sentire, con la punta delle dita, scivolare vellutata sotto il mio tocco sfuggente e dignitoso. Non avrei avuto bisogno di stringerla all’inizio – come in quel momento – perché il mio corpo era fatto per accogliere il suo. Era per me. Narcissa, era per me.
Quel corpo su di me, contro di me, dentro di me… ovunque, ovunque fosse possibile e ovunque anche non lo fosse. Lei c’era, per me.
Quel collo lo avrei riempito di baci, veloci, fuggenti forse, umidi baci di piacere e di una devozione tenuta ben nascosta.


Era mia, mia e solo mia.
In tanti avrebbero cercato di strapparmela, di riportarla nel loro mondo. Ma io non l’avrei permesso, e lei non avrebbe cercato di seguirli. Voleva essere mia, aveva lasciato che io la trovassi, che la sfiorassi e che incatenassi i nostri sguardi anche senza alcuna parola di miele.
Da quel momento, non sarei stato più niente, se lei non ci fosse stata. Avevamo smesso di essere due metà.
Eravamo una cosa sola, e senza di lei io non ero me, e senza di me… la mia Narcissa non era lei.
E saremmo impazziti, a quel pensiero, e nel rendercene conto. Impazziti dalla rabbia e dal dolore della lontananza alla quale ci saremmo forzati per cercare di scappare a quell’evidenza e a quella ferita al proprio orgoglio al quale saremmo stati sottoposti. Ammettere di aver bisogno di lei.
Allontanarla, ma senza vederla andare realmente via.
Smettere di vederla, e guardarla soltanto.
Violentarsi con quella gelosia feroce.
Prendere il suo corpo con forza e possessione e il suo concedersi senza remore e senza orgoglio, per cercare di non provare alcun piacere, a convincerci che tutto quel bisogno l’uno dell’altra in realtà non lo avevamo.

E poi, avremmo smesso. A pochi passi dalla morte per consunzione forse.
Quando la prospettiva di una morte lontani l’uno dall’altra ci avrebbe atterriti.
Eravamo lì, stretti seppur solo appoggiati, perché volevamo esserci.
A che scopo vivere una vita con la sua sola presenza accanto, senza averla veramente, e morire così?
Senza il suo sapore tra le labbra, le sue lacrime sulla pelle, il suo odore sul corpo, i suoi gemiti di piacere nelle orecchie, il suo respiro contro il mio?
Mi sembrava di impazzire alla sola idea che fosse possibile che accadesse una cosa del genere, e quando lei avrebbe creduto di morire sul serio, nel pensare che io rimanessi così lontano, in quell’angoscia, sarebbe tornata e io l’avrei cercata. Lei avrebbe fatto un piccolo e traballante passo in avanti, nel silenzio dei suoi passi, e io le sarei andato incontro.

Quel ballo, quella prima volta che la vidi, era solo il primo passo di quel cammino di dolore e follia che ci aspettava. Ma dopo tutto, avremmo trovato anche noi la nostra felicità, che non avremmo mai chiamato con questo nome.
Lei, la mia tristezza e la mia felicità, l’unica in grado di rendermi triste e quasi felice allo stesso modo.
Avrei poggiato le mie dita contro le sue tempie, e tenuta sollevata la sua testa, così. Nel silenzio dei nostri sguardi. E l’avrei vista e guardata, per la semplice voglia di farlo. E quando la notte non sarebbe riuscita a dormire, avrei preso quel viso tra le mani e lo avrei portato al mio petto, appoggiato quella fronte contro di me, le avrei permesso di ascoltare il sangue pulsare nel mio cuore, senza dirle che lei ne era in parte il motivo.
Mi sarei sentito ridicolo, patetico, e fuori di me. Ma mi sarei fatto piacere quel disprezzo momentaneo e forse le avrei baciato i capelli e l’avrei costretta a dormire, se non ci fosse più riuscita da sola.
Ma la cosa più importante, è che lei era mia.

So i`ll love whatever you become
and forget the reckless things we've done
i think our lives have just begun
i think our lives have just begun


And i'll feel my world crumbling
i'll feel my life crumbling
i'll feel my soul crumbling away
and falling away
falling away with you <

Falling away with you – The Muse –


E quando le nostre fantasie malate, e i piaceri lasciati sbiadire, cancellati con quell’orgoglio che ferisce e che protegge, sarebbero andati persi, allora l’avrei stretta a me, l’avrei abbracciata per la prima volta e chiuso gli occhi insieme a lei, nello stesso momento anziché aspettare che fosse lei a socchiuderli e poi ad abbassare quelle bellissime ciglia, le avrei donato ancora un po’ di piacere e ne avrei ricevuto in dono altro da lei, le avrei baciato i capelli, e gli occhi, e le labbra, e il collo, accarezzato la sua pelle, soffiato sul suo cuore che intanto avrebbe iniziato a gelarsi, e poi sarei caduto, precipitato come tutte le nostre convinzioni e la nostra vita, e l’avrei portata con me, perché da sola, senza di me, non sarebbe stata niente di quello che era.
E la mia Narcissa era tutto, e doveva rimanere tale.

E allora, mia piccola Narcissa, quell’ultima notte alla fine cercherò di rimanere sveglio, nonostante gli occhi chiusi insieme a te, ti terrò accanto a me, e spererò per la prima ed ultima volta nella mia vita, di non dimenticare niente di te in quella notte, perché chissà se poi ti rivedrò ancora, dopo.
Magari penserò che abbiamo sbagliato. Tutto o qualcosa, ma anche noi abbiamo sbagliato.
E sentirò il mio respiro frammentarsi, la tua mano scivolare dalla mia, ma la riafferrerò rapidamente e con un gesto quasi disperato prima che possa cadere del tutto e io non riuscire più a ritrovarla, sentirò la mia vita, i miei pensieri, i miei ricordi, sgretolarsi, forse anche quell’anima malata e grigia che ho sempre dubitato di avere, si sgretolerà tutto, ma non tu, che sei mia e lo rimarrai per sempre, e tutto, tutto si frammenterà anche i miei occhi, e allora cadrò, cadrò con te.
Perché sei mia, mia piccola Narcissa, e senza di me, non vai da nessuna parte.




Fine.

  
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