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Autore: samek    09/06/2010    4 recensioni
E’ una raccolta di 26 drabble – dai temi molto eterogenei –, ognunga di 100 parole esatte, scritte sul format dell’Alphabet Challenge.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Slash
Note: Raccolta, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Albeggiò su quella bocca, come il primo raggio di sole nella notte

Fandom: Sherlock Holmes;

Pairing: Holmes/Watson;

Rating: Pg15;

Genere: Angst, Introspettivo, Romantico… (un po’ tutti, a dire il vero);

Warning: Drabble, un pizzico di Crossover, Gen, Missing Moment di un po’ tutta la saga, Pre-Slash, Slash, una briciola di Tentacles!Holmes;

Summary: E’ una raccolta di 26 drabble – dai temi molto eterogenei –, ognunga di 100 parole esatte, scritte sul format dell’Alphabet Challenge.

Note: Scritta per l’iniziativa Alphabet Challenge di holmes_ita (a sua volta ispirata a quella ideata da pucchiko, e proposta su EFP). Il titolo, “Papery Pills of our Queer Story”, rispetta l’ultimo termine della sfida: scrivere una frase di 26 lettere, che racchiude il tema della raccolta, ed è un – pessimo, lo ammetto – gioco di parole. Infatti significa “pillole cartacee della nostra strana storia”, ma – come molti sanno – “queer” può essere inteso sia come “strano/strambo”, che come “omosessuale/gay”, ergo può essere anche letto come “pillole di carta della nostra storia omosessuale” – anche se la maggior parte non sono Slash.

 

DISCLAIMER: Tutti i personaggi delle saga di Sherlock Holmes non sono opera mia, bensì della mirabile penna di Sir Arthur Conan Doyle. Dato, però, che i diritti d’autore sono ormai scaduti, stappiamo tutti insieme lo spumante ed appropriamocene beatamente! XD Ah, ovviamente non mi paga nessuno, anche perché altrimenti il succitato autore si rivolterebbe nella tomba, poverello.

 

 

Papery Pills of our Queer Story

 

Albeggiò sulla sua bocca, come il primo raggio di sole nella notte. Cominciò con un’increspatura al centro, poi gli angoli si arcuarono verso l’alto e le labbra si distesero in un sorriso.

Un sorriso vero, che parve illuminargli tutto il viso, sino a raggiungere gli occhi grigi e penetranti, ben diverso dai sogghigni che regalava fin troppo spesso a chiunque lo incontrasse.

Ho visto quell’espressione poche volte, sul volto del mio amico Sherlock Holmes, ma ognuna di esse la porto nel cuore, come un ricordo prezioso. Quel giorno, ritrovandoci dopo tre anni di lontananza, non c’era nulla di più importante.

 

Baker Street giaceva languida, coperta dalla nebbia. Le finestre del nostro appartamento facevano a malapena capolino tra quella coltre brumosa, simili a fiammelle di candela nel buio della notte. Erano quelle del soggiorno, visibili grazie alle luci ancora accese.

Il dottor Watson, sapendo che ero fuori per un’indagine, doveva essere ancora sveglio, nonostante l’ora tarda. Lo immaginai seduto nella sua poltrona a cercare di leggere un buon libro, aspettando con ansia il mio arrivo.

Raggiunsi in fretta la porta e salii le scale canticchiando sommessamente. C’era qualcosa di rassicurante nel rientrare a casa, quando il mio insostituibile Boswell mi attendeva.

 

Cocaina in soluzione al sette percento. Riuscii a vedere gli innumerevoli segni di punture sul braccio di Holmes, mentre rimboccava la manica della camicia per iniettarsi quel veleno nelle vene. Potevo immaginare l’espressione vacua che avrebbero assunto i suoi occhi penetranti, quando la sostanza avrebbe cominciato a scavargli dentro, regalandogli un sogno artificiale.

Ormai non avevo più fiato per disapprovarlo.

D’un tratto, però, la siringa si fermò, l’ago rimase a qualche millimetro dalla pelle.

«Watson, lei sta tremando» la sua voce mi fece trasalire.

La siringa cadde a terra, quando Holmes lesse nel mio sguardo qualcosa che lo lasciò sgomento.

 

«Domani, domani e domani, s’insinua a piccoli passi, da un giorno e l’altro…»¹ recitava l’attore ed io mi distrassi un attimo, spostando lo sguardo su Holmes che, seduto accanto a me, si godeva lo spettacolo con gli occhi sognanti che riservava all’arte.

Osservando il mio amico, persi il resto del monologo. Solitamente era lui ad invitarmi a teatro, ma stavolta ero stato io ad acquistare i biglietti per “Macbeth”, quando mi ero accorto che Holmes non seguiva un caso da troppo tempo. Volevo fare tutto il possibile per tenere la sua mente lontana dalle droghe; l’avrei protetto da sé stesso.

 

Entusiasmante, ecco com’era lavorare insieme. Sono certo che il dottor Watson trovasse infinite scuse per non ammetterlo; come, ad esempio, il fatto che mi seguisse per proteggermi e per sincero interesse verso le mie indagini, ed io sono certo che fosse anche per quello… ma non solo.

Quando stavamo appostati al buio, armati, in attesa che il malvivente di turno facesse la sua mossa, o quando ci gettavamo nell’ennesimo inseguimento, potevo sentire l’adrenalina scorrere nel suo corpo come se fosse tutt’uno col mio. E lui – l’intrepido medico militare della guerra Afghana – ne aveva bisogno quanto e, forse più, di me.

 

Fuoco e fiamme divoravano la carta da parati, annerivano il parquet, bruciavano ogni ricordo. Potei immaginarle saziarsi delle cartelle che contenevano i resoconti dei miei casi, quelli risolti insieme a Watson e quelli che, tempo prima, avevo affrontato da solo. Ebbi l’impressione di poterle vedere deturpare i nostri alloggi, che avevano accolto i nostri straordinari e bizzarri clienti, ed osservato nascere e crescere il nostro rapporto.

Ma, in quel momento, non avevo tempo di pensarci; buttai via il giornale ed afferrai la veste da sacerdote, che quel giorno sarebbe stata il mio scudo.

Il dottore mi stava aspettando alla stazione.

 

Giochi di luce ed ombra, creati dal lume aranciato della candela, guizzarono sui mobili e tra le pieghe delle lenzuola. Accarezzarono la pelle nuda di Holmes, definendo ogni sporgenza spigolosa ed ogni lieve avvallamento. Riverberarono nei suoi occhi chiari, illuminandoli di scintille calde. S’intrecciarono tra i suoi capelli neri, quando v’insinuai le dita e sfiorarono le sue labbra sottili, quando le catturai con le mie.

«Dottore, lei è troppo distratto» mi rimproverò il mio amico, soffiandomi quelle parole sul collo, prima di rovesciarmi sul letto per riscuotermi da quella contemplazione, riportandomi nella piacevolissima realtà.

Poco dopo, semplicemente, smisi di pensare.

 

Hyde Park quel pomeriggio era un luogo luminoso, affollato e pregno di risate. Tuttavia Holmes, camminando accanto a me, non faceva altro che borbottare. Ero riuscito a convincerlo ad uscire con me, vista la splendida giornata e la noia che opprimeva il nostro appartamento, ma lui era d’umore decisamente scontroso, come capitava sempre quando non aveva nessuna indagine da seguire.

«Se perderemo un cliente, perché è arrivato mentre noi eravamo fuori, la riterrò l’unico responsabile, Watson» mi avvertì con considerevole asprezza, ma non riuscì a cancellare il mio sorriso. Infine, scosse il capo e le sue labbra si arcuarono riluttanti.

 

Inutili, fuorvianti, incontrollabili... quelle sensazioni, che provavo ogni qual volta Watson mi era troppo vicino, erano totalmente inutili. Eppure irrefrenabili, mi travolgevano con un’intensità sconcertante e, per quanto cercassi d’ignorarle, non riuscivo a cancellarle. Infingarde, mi spingevano sempre più verso di lui, come se fossi assuefatto dalla sua presenza – proprio io, che non avevo mai avuto bisogno di nessuno!

Il dottore ha spesso lodato la mia capacità di estraniarmi dalle situazioni e non farmi condizionare da esse, ma quando si trattava di quei sentimenti non ci riuscivo. Rimanevano lì, acquattati sul fondo del mio animo, latenti ma mai sopiti, inestinguibili.

 

«Je ne regrette rien, mon cher ami»² sussurrò Holmes al mio orecchio, in una fredda sera d’inverno.

«Cos’è che non rimpiange, vecchio mio?» gli domandai, interpretando correttamente quelle poche parole, seppur il mio francese non fosse affatto dei migliori.

«Tante cose. Averla incontrata, tanto per cominciare, averla coinvolto nella mia vita e nel mio lavoro… non mi dispiace nemmeno d’averla ingannata, Watson, perché è servito a proteggerla. Forse mi detesterà ed in tal caso non potrei biasimarla, perché so di meritarmelo, ma comunque non rinnego le mie scelte. Così come sono felice di averla nuovamente qui, al mio fianco, dottore».

 

K.K.K. – il Ku Kluz Klan. Cinque innocui semi d’arancio non mi erano mai parsi tanto inquietanti.

La storia che il giovane Openshaw ci aveva raccontato in quella sera tempestosa, era la più grottesca che avessi mai sentito. La mattina dopo, apprendere della sua morte fu un duro colpo, specie per Holmes, il quale – profondamente commosso – si senti ferito nell’orgoglio.

Indagò per tutta la giornata, ed infine vendicò il nostro cliente inviando ai colpevoli altrettanti piccoli semi.

Quei messaggeri di sventura, però, non giunsero in tempo. Vennero preceduti dalla mano del destino, che affondò il veliero su cui viaggiavano i criminali.

 

Lentamente, come le prime gocce di un fragoroso temporale – lì, nella privacy dello scompartimento vuoto del tremo che mi stava riportando a casa – le lacrime cominciarono a rotolarmi sul viso.

Continuavo a rivedere le impronte sul terreno umido di Reinchenbach, le tracce della colluttazione, e stringevo in mano il biglietto lasciatomi dal mio amico.

Avevo l’impressione che una parte di me fosse rimasta sul ciglio del baratro, in attesa del suo ritorno, o peggio… vi fosse caduta dentro. Perché, fin da quando lo conoscevo, un frammento di Holmes mi era entrato nel cuore, ed ora mi era stato brutalmente strappato.

 

Mani grandi, forti, callose, dalle dita lunghe e affusolate, capaci di un tocco deciso ed al contempo sorprendentemente delicato.

Mani curate, determinate eppure gentili, implacabili se necessario, ma mai brusche o violente.

Mani da soldato.

Mani da medico.

Poteva esistere un’incoerenza maggiore? Osservando i gesti di Watson, me lo chiedevo spesso. Quelle mani, che probabilmente avevano tolto tante vite quante ne avevano salvate, erano le uniche alle quali mi sarei affidato totalmente e dalle quali mi sarei lasciato ammonire.

Mani così contraddittorie e, nonostante ciò, così perfette… trovavo che non vi fosse niente di più rassicurante, eccitante e speciale.

 

Nascosti nel buio della casa vuota dirimpettaia al nostro vecchio appartamento, Watson scrutò la finestra del salotto, oltre le cui tende era chiaramente visibile una sagoma identica alla mia.

La sua mano si mosse nell’ombra, cercando un contatto col mio corpo, come se temesse che fosse tutto un sogno, troppo assurdo per essere reale. Artigliò la stoffa del mio gilet, ed istintivamente la coprii con la mia.

Infine, quando si voltò al mio indirizzo, posando lo sguardo sulle nostre dita intrecciate e risalendo sino al mio viso, nemmeno l’oscurità riuscì a mascherare lo stupore che permeava i suoi occhi chiari.

 

Orrori indicibili impregnano i sogni di un ex-soldato, esplosioni che implodono nel suo mondo onirico, incubi che prendono la forma di corpi esanimi e familiari – amici, nemici, uomini, donne, vecchi, bambini –, sanguinanti, irrecuperabili.

Certe notti l’orrore è semplicemente troppo per rimanere confinato in quell’universo impalpabile, ed emerge dalla bocca in un grido agghiacciante, che raggelerebbe il più impavido degli uomini.

Proprio allora le note penetranti di un violino dipanano, come una lenta nenia, le ombre più fitte.

Watson soffoca il suo respiro sincopato, tendendo le orecchie, mentre Holmes – seduto sul pavimento fuori dalla sua porta – continua imperterrito a suonare.

 

Puntai lo sguardo allarmato su per la tromba delle scale e chiusi circospetto la porta di casa, quando risuonò un sonoro “BANG!”. Impugnai il bastone come fosse un’arma, salendo silenziosamente i gradini che portavano al nostro appartamento, poi mi scagliai contro la porta, spalancandola con una spallata e facendo irruzione in salotto, con le braccia alzate, pronto a colpire il malvivente.

«Santo cielo! Che le prende, Watson?!» esclamò il mio amico, con la pistola in mano.

Dovetti racimolare tutta la pazienza che possedevo, rendendomi conto che Holmes si era rimesso a fare pratica di tiro al bersaglio dentro casa.

 

 Qualcosa strisciò alla mia sinistra, lo vidi con la coda dell’occhio, poi lo sentii arricciarsi attorno al mio polso. Distolsi lo sguardo dalle pagine di “I Delitti della Rue Morgue”, posandolo sul tentacolo di Holmes che mi faceva da bracciale e dopo incrociai i suoi occhi grigi.

Lui mi sfilò il libro di mano e, accendendosi la pipa, si stese sul divano posando la testa sulle mie ginocchia. «La porta è chiusa a chiave» mi informò, prevenendo la mia domanda.

«Bene» asserii, poi intrecciai le dita tra i suoi capelli e, spostando il volume sul bracciolo, ripresi serenamente a leggere.

 

 Rumori sospetti destarono il mio sonno. Allarmato, scesi le scale, scontrandomi con Holmes.

Udimmo ancora quel fracasso, quindi schiudemmo la porta del salotto e scorgemmo la sagoma di un ragazzino che strattonava un pezzo di stoffa impigliato alla credenza. Mi parve uno degli Irregolari, ma poi, grazie alla luce dei lampioni, mi accorsi di non conoscerlo affatto.

Spalancammo la porta, lui sobbalzò e, involontariamente, liberò lo straccio agognato. Feci per apostrofarlo, ma il ladruncolo esclamò: «Mi scuso per il baccano, signori. Ho ripreso la mia ombra, quindi posso andare. Buonanotte!» Infine, balzò sul davanzale della finestra e spiccò il volo.

 

Scrutai con avidità quel volto affilato, incredulo di trovarmi nuovamente lì, di fronte al mio amico più caro.

«Caro vecchio Watson! Unico punto fisso in un’epoca in mutamento…»³ sussurrò Holmes, presagendo tempesta all’orizzonte.

Non lo vedevo da anni e volevo sapere tutto, ogni cosa che gli era accaduta in America e che lo aveva infine riportato in patria. Non mi importava che fosse notte fonda, o che avessimo una pericolosa spia chiusa in macchina, mi sentivo vent’anni di meno e tutto ciò che desideravo era chiacchierare con lui, fumare e, magari, ascoltarlo suonare il violino, come ai vecchi tempi.

 

Trassi un respiro profondo ed espirai pesantemente, non appena chiusi il mio vecchio baule della campagna militare. All’interno, riposavano placidamente tutti i miei taccuini, in cui avevo vergato i resoconti delle avventure di Holmes e mie. Le cronache dei nostri anni d’oro.

Separarmi da loro era un po’ come osservare i miei figli allontanarsi per andare al college, sapendo che nel frattempo la casa – la mia libreria – sarebbe rimasta inesorabilmente vuota; ma era necessario che venissero conservati in banca, contenevano troppi scandali ed informazioni compromettenti. Forse un giorno lì avrei riportati alla luce, ma fino ad allora sarebbero rimasti nascosti.

 

Urla d’incitamento mi circondavano, giungendo dalla folla assiepata attorno alla staccionata che delimitava l’arena.

Incassai un pugno dell’avversario – un buon diavolo della stazza d’un toro – e parai il seguente. Stavo giocando come il gatto col topo.  Sorrisi, permettendogli d’allontanarsi per riprendere fiato e fu allora che, alle sue spalle, scorsi il dottor Watson.

Il mio amico seguiva l’incontro con apprensione ed io non potevo permettermi di perdere, o avrei deluso sia lui, che aveva puntato una cospicua quota su di me, che la nostra padrona di casa, la quale attendeva l’affitto.

Il colpo seguente mandò il mio sfidante a tappeto.

 

Verde e rame si estendevano per chilometri nella brughiera, incendiati dal tramonto.

Mi diressi verso la casupola preistorica che in quei giorni mi dava riparo e, stando bene attento a dove mettevo i piedi, riflettei sulle ultime informazioni scoperte in merito al caso Baskerville.

Fu allora che notai, schiacciata sul terreno, un’inconfondibile cicca di sigaretta. Sorrisi inconsciamente, Watson mi aveva trovato, ne ero certo – anche se, con tutta probabilità, non sapeva che l’abitante della brughiera ero io – ed ero sicuro che mi attendesse armato, dentro al mio rifugio.

Già pregustavo l’espressione stupita che si sarebbe dipinta sul suo volto.

 

«Wagner a Covent Garden, questa sera alle otto. E’ libero, dottore?» proposi quel pomeriggio, bussando alla porta del mio amico.

Watson mi accolse in casa con il consueto entusiasmo, e salutai cortesemente sua moglie, con la quale scambiai uno sguardo circospetto.

Era seccante dovermi sentire un intruso e guadagnarmi con le unghie e con i denti quello che, sino ad alcuni mesi prima, sarebbe stato naturale. Uscire con il mio coinquilino, una volta, era all’ordine del giorno, mentre ora dovevo quasi chiedere il permesso di rubare il suo tempo alla sua signora.

Quello stesso tempo che, in passato, mi apparteneva.

 

Xilografie abbandonate in un cassetto, immagini del passato in cui pensavo – con la tipica arroganza giovanile – che fossimo immortali.

Le trovai per caso, mentre riordinavo uno scaffale e rimasi per diversi minuti ad osservare gli Holmes e Watson del ritratto: due gentiluomini trentenni, appena arrivati in Baker Street.

Ricordai il momento in cui venne scattata, alla fine di una delle nostre prime indagini; il fotografo ci aveva colto di sorpresa, ritraendoci in totale naturalezza.

Perfino in quell’incisione, il mio sguardo non era rivolto alla camera, bensì al mio collega. Fin da allora subivo irrimediabilmente il fascino del mio misterioso coinquilino.

 

Yarder e giocatori di rugby sono accomunati da una sola grande caratteristica: le condizioni in cui versa il campo dopo il loro passaggio.

L’ispettore Lestrade ci aveva inviato un telegramma, pregandoci di raggiungerlo al più presto.  Scesi dalla carrozza ed osservai con disappunto le impronte contaminate dal passaggio degli agenti, sapendo che Holmes non le avrebbe affatto gradite. Infatti, notai un cipiglio seccato fargli subito capolino sul volto.

«Come pensa sia andata la partita?» ironizzai, picchiettando a terra con il bastone.

«C’è scappato il morto» replicò il mio amico nel medesimo tono, indicando il cadavere a qualche metro da noi.

 

Zoppicando, Watson raggiunse il divano, dove lo aiutai a stendersi.

Dopo un’accesa discussione, l’avevo convinto a farsi visitare da un medico, il quale aveva ricucito la ferita che Evans il killer gli aveva inferto.

Tuttavia, non vi era modo di sbrogliare la matassa di rabbia, dolo ed apprensione che s’era insediata nelle mie viscere. In quel momento, mi destavo più che mai per aver esposto il mio Boswell ad un tale pericolo, ben sapendo quanto quella truffa dei tre Garrideb fosse rischiosa.

«Ne valeva la pena, Holmes» sussurrò il dottore, come se riuscisse a leggermi dentro, posando la fronte sulla mia.

 

FINE.

 

Note finali:

¹. Tratto, per l’appunto, dal “Macbeth” di William Shakespeare.

². In francese: “Io non rimpiango nulla, mio caro amico”. (Ringrazio la mia adorata beta per il suggerimento).

³. Estrapolato dal racconto originale “L’ultimo saluto – Un epilogo” di Sir Arthur Conan Doyle.

   
 
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