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Autore: trullitrulli    09/06/2010    7 recensioni
Raccontato dagli occhi della protagonista, Psyche, la mortale che ardì d'essere bella come Afrodite e di cui Eros osò innamorarsi.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Eros e Psyche


Passai la notte in un angolo della stanza.
Le ancelle sediziose mi schermivano continuamente, mi minacciavano, mi facevano smorfie, ed io, ancora più spaventata nel mio animo già spaventato, mi raggomitolavo nel mio cantuccio, immobile, se non che tremavo per i singhiozzi.
Lentamente cominciò a pesar loro la stanchezza di quella giornata. Si accoccolarono insieme sul divanetto, abbracciate con la famigliarità di due sorelle, e si addormentarono pacificamente.
Assonnata, mi stavo assopendo quando sentii la porta sbattere.
Sussultai e mi guardai intorno in quel buio da cantina.
Nell’oscurità c’era un ombra ancora più scura, si diresse verso la finestra e scostò quel che restava delle pesanti tende per lasciar passare un po’ di luce.
Apparve l’immagine di Cupido, che si voltò verso di me con un viso sereno.
Si avvicinò e ad ogni passo quel viso diventava lentamente una smorfia beffarda e violenta.
Lo guardai spaventata. Cercai di fuggire, ma qualcosa mi distruggeva la libertà dei movimenti.
Mi afferrò per le braccia, mi costrinse ad alzarmi, ma solo per gettarmi a terra di nuovo.
Mi picchiò, mi pestò sotto ai piedi, mi frustò, mi sollevò strillante per i capelli e mi schiaffeggiò, poi mi gettò ancora a terra e riprese da capo. Mentre infieriva sul mio corpo con pestoni violenti i suoi capelli dorati diventavano lunghi e boccolosi, gli cresceva un seno grande e morbido, il corpo gli si snelliva in vita, si allargava lungo i fianchi e le sue labbra da donna strillavano volgarità adatte solo a uno scaricatore del Pireo*.
Mi prese un tremito nervoso e mi svegliai.
Irrigidita, dolorante, spaventata dal sogno, mi sollevai faticosamente e subito mi accorsi di essere sul pavimento e di essere stata svegliata da urla angoscianti.
Ricordai immediatamente la situazione. L’urlo proveniva da dietro un muro della stanza su cui era stato appeso un arazzo intessuto delle scene della nascita di Afrodite.
Le urla peggiorarono.
Mi domandai se non ci fosse qualche altro sventurato, oltre a me, che Afrodite aveva rinchiuso qui dentro, e mentre me lo chiedevo da dietro la parete sentii urlare il mio nome.
-Psiche! Psiche! Psiche!- urlava la voce.
-Sono qui!- picchiai sul muro con il pugno –Sono qui!- mi misi a picchiare con entrambi i pugni –Aiutami! Aiutami! Mi senti?! Per gli dei!! Se mi conosci, aiutami!-
Le mie urla e quelle dello sventurato svegliarono Tristezza, che a sua volta svegliò Angoscia con uno scossone.
Mentre cercavo di farmi rispondere da quella voce disperata le sentii afferrarmi per le spalle e trascinarmi via.
-Zitta! Zitta! Brutta puttana! Fa silenzio!- disse Angoscia tirandomi via dal muro con uno strattone più deciso, mentre continuavo a urlare –Per gli dei! Per gli dei! Costui mi conosce! Sa chi sono! Chi c’è la?! Chi nasconde Afrodite??! No! Lasciami! Lasciami! No! No!- (Angoscia, con una mano sulla mia testa, mi costrinse a inginocchiarmi. Mi alzò il peplo tra i miei disperati “No! No!” fino a scoprirmi la schiena, in modo che Tristezza potesse sferzare a segno le verga) No! No!!- le mie grida salirono alle stelle quando sentii arrivare il primo colpo, seguito da molti altri.
Durò finché le ancelle non sentirono ritornare il sonno.
Mi lasciarono dove mi avevano torturato e se ne tornarono a dormire.

Il giorno dopo, appena albeggiava, Afrodite entrò a piccoli passi.
Le ancelle stavano rassettando tutto in previsione del suo arrivo.
Io me ne stavo tutta in un gomitolo lì dove ero stata frustata, con i capelli sparsi per terra.
Afrodite ordinò alle due ancelle di svegliarmi e loro mi svegliarono con un sacco di ceffoni.
Quando mi risentii per il dolore delle sberle, non capendo, balzai a sedere tentando si schermirmi dai colpi con le braccia.
-Adesso basta- disse Afrodite, trattenendo le serve.
Poi fisso il suo sguardo su di me, misera, più terrorizzata e imbarazzata di prima.
-Zeus! Fai schifo!- disse mentre un tremito di pianto mi assaliva tutto il viso -È inutile che fai tremare quel labbro di sotto, non tentare di muovermi a compassione!–
-Io? Io signora? N-non sto tentando di mu-muoverla a com…mi vien da piangere solo per il bruciore delle piaghe sulla schiena. Io…- piagnucolai.
-Risparmiami i tuoi piagnistei- si diresse verso un mobiletto dove era posato un vaso di terracotta decorata, con dei bellissimi gigli bianchi dentro.
Venere sollevò il vaso e rovesciò l’acqua e i fiori per terra.
Schioccò le dita e tre servitori portarono diversi sacchi di grano.
Venere prese da ogni sacco un pugno di grano di genere diverso e lo mise nel vaso. Lo mescolò con le dita e poi me lo porse.
-To’. Ecco il tuo primo servizio in questa casa. Se mio figlio vuole una sposa, ebbene, questa deve essere abile e paziente. Separa il grano di ciascuna specie e raccoglilo in mucchietti. Fammi trovare tutto fatto prima di sera. Voi due (si rivolse alle ancelle) prendetevi una pausa. Chiudetele la porta a chiave…ah si, anche la finestra. Non deve assolutamente suicidarsi. Io intanto me ne vado a un pranzo di nozze. Oggi sono allegra, ho deciso che il matrimonio sarà un successo, e anche unione dei due sposi. Ah come mi sento allegra- e la sua figura seducente veleggiò fuori dalla stanza accompagnata dalle soddisfatte ancelle.
Rimasta sola, non ebbi neppure il coraggio di mettere le mani in quel mucchietto di semi e rimasi lì come una scema.
Mi accorsi che per la camera passeggiava una piccola formichina. La formichina si arrampicò sul vasetto fino ad arrivare in cima, dove strabordavano i semi. Rimase un attimo ferma, muovendo apparentemente senza senso le sue antennuccie piccole piccole.
Ad un tratto, dal piccolo spazio tra la finestra e il pavimento, sbucò un esercito di formichine che avanzavano in tante file indiane.
Il pavimento era talmente fitto di insetti da non riuscire più a vedere le trame del marmo.
Le formichine arrivavano vicino a me, si arrampicavano sul vaso, lottando tra loro per farsi strada, e ognuna prendeva su di se un seme e lo depositava accanto al vaso, chi in un posto chi in un altro.
Dopo la prima sorpresa mi accorsi che stavano formando un mucchietto per ogni specie di grano.
Il vasetto a poco a poco divenne vuoto. Io ero stupita e gratissima.
Volevo ringraziarle ma non riuscivo a dir nulla.
Quando si avvicinava il tramonto le formichine avevano appena finito e come erano venute si ritiravano.
Sulla cima del vasetto era rimasta una sola formichina. Le sorrisi.
Evidentemente era il miglior ringraziamento che la formichina potesse desiderare perché agitò le antenne e se ne andò.
Venere non sarebbe tornata subito.
Allora mi appressai al muro dell’arazzo di Venere per capire chi fosse il prigioniero che conosceva il mio nome.
Bussai leggermente.
Silenzio.
Bussai un po’ più forte e chiamai –C’è nessuno che sente?- per un po' nessuno mi rispose e dovetti urlare per molto tempo prima di ottenere una reazione.
-Chi è là?- rispose una voce maschile, sorpresa.
-Una prigioniera. Sono Psiche!-
-Psiche!? Proprio Psiche!?- da come parlava sembrava gli battesse forte il cuore.
-Si. Non ci sono motivi per cui dovrei fingere di essere Psiche! Sono Psiche davvero! Chi sei?-
-Sono Eros! Sono nell’altra stanza!-
Sentii un tuffo al cuore ed una nuova gioia euforica nel sentire quella voce.
-Eros! Amore! Amore! Sei qui!- dissi facendo vagare freneticamente le mani sulla superfice del muro, forse in cerca di un buco o di un tranello che aprisse un passaggio.
-Shhhh, zitta, tutte le ancelle di mia madre hanno una stanza ad appena due porte dalla tua!-
-Ti tiene chiuso là dentro per forza?- bisbigliai, ancora emozionata.
-No, ci devo stare per guarire dalla piaga di quello sciagurato schizzo di cera, Psiche- disse con una sfumatura di
rimprovero.
-Mi dispiace, mi dispiace, non credere che non mi dispiaccia. Io non…-
-Lo so Psiche, so bene che è stato più forte di te. Sei una sciocca curiosona- continuò ora con comprensione ora con tenerezza.
-Io non posso uscire da qui! Cosa è successo ieri notte? Perché urlavi?-
-Urlavo? Ieri notte io dormivo molto profondamente, sogni agitati, per via del dolore-
-Allora urlavi! Mi hai svegliato! Urlavi il mio nome con voce deformata dalla disperazione!-
-Ero nel delirio, forse. Avevi delle carceriere? Le ho svegliate?-
-No. Io mi sono messa a urlare e a cercare di farmi rispondere da te battendo i pugni sulla parete, e così le ho svegliate io-
-E che ti hanno fatto?-
-Mi hanno frustato-
Eros rimase in silenzio, poi nella stanza si sentirono dei rumori, come se qualcosa stesse sbattendo da tutte le parti.
-Ma che fai?!-
-Cerco di raggiungere la porta-
-Ma no! Sei malato! Resta a letto. Si sente che continui a perdere l’equilibrio e a rovesciare oggetti-
Eros, rassegnato, sbuffò e si sedette con un tonfo di materasso.
-Appena guarisco ti porto via da lì-
Mentre parlava improvvisamente sentii il rumore delle chiavi che giravano due volte nella serratura della porta. Spaventata mi affrettai ad assumere l’aria più innocente possibile.
Afrodite entrò barcollando, inciampò nello strascico del suo vestito, ma si mantenne in equilibrio appoggiandosi con tutto il peso alla maniglia.
Aveva un aria terribile: le guance rosse, le labbra umide, occhi mobili e allegri come il vino che aveva buttato giù, i cui fumi le erano abbondantemente saliti alla testa.
Nonostante fosse ubriaca, incoronata di rose e coperta di ghirlande un po’ stracciate sul collo, sul petto, attorno alle braccia e alle gambe, appena mi vide si ricordò subito della mia prova e cercò in giro per vedere se avessi finito.
Appena vide il grano diviso diligentemente in mucchietti, per quell’umore incostante che hanno gli ubriachi, si infuriò subito e, prendendo a calci il vasetto e i mucchietti, sparse tutto il lavoro delle formiche sul pavimento.
-Bestia! Vermetto che non sei altro! Questa non è mica opera delle tue mani! Che ti credi? Di darmela a bere così!- si avvicinò a me, che ero in piedi vicino all’arazzo, terrorizzata. Con uno spintone mi mise con le spalle al muro, mi afferrò per il collo del vestito, mi sollevò da terra e mi premette contro la parete.
-Qui c’è entrato di sicuro quello a cui tu sei piaciuta! Per la vostra rovina! Dico…dico…Giusto?! Che figlio mi è toccato! Che razza di… che razza di...! Imbrogliona-che-non-sei-altro!-
Vaneggiava e ad ogni parola mi sbatteva contro il muro come se volesse farlo crollare.
Dopo un po' mi lasciò a terra, con l’impressione di essermi rotta qualche costola.
Afrodite non riusciva neanche a parlare senza che la lingua la tradisse per via dell’ubriachezza, così, infuriata, si tirò fuori un avanzo di pane che le era rimasto nel vestito e me lo getto sgarbatamente contro.
-Mangia! Domani avrai una prova due volte più difficile!-

Appena l’aurora si spinse innanzi con il suo cocchio Afrodite entrò nella mia stanza.
Scacciò fuori Angoscia e Tristezza, che mi avevano controllato anche quella notte, si diresse verso la finestra e la spalancò.
Poi venne nella mia direzione, mi afferrò per un braccio e mi trascinò verso la finestra col piglio di una che mi volesse buttare giù.
Invece mi mise, spaventata e tremante, davanti alla vista di un’immensità di alberi stesa su tutte le colline all’orizzonte.
-Distingui in questa distesa il limitare della foresta? Laggiù, lo vedi quel lago?-
Ero sul punto di sciogliermi in suppliche e grida, ma quando sentii la forzata gentilezza di quella domanda mi rilassai un poco e feci cenno di si.
-In quel punto pascolano delle splendide pecore, che hanno la lana d’oro. Voglio che tu mi porti da là al più presto, in qualunque modo tu riesca a procurartelo, ammazzandoti, se è necessario, un fiocco di lana di quel prezioso vello. È tutto chiaro come il sole?-
-Si- pronunciai flebilmente.


Ero scesa dalle rocce dell’Olimpo. Naturalmente Afrodite non mi aveva portato nel bosco sollevandomi col vento, ma avevo dovuto scarpinare un bel po’ per la montagna e la foresta.
Avevo acconsentito a scendere non perché mi ci avessero costretta, ma perché ardivo di porre fine alle mie sofferenze gettandomi al più presto nel lago.
Era mezzodì, il sole era cocente, sotto il peplo ero tutta sudata.
Mi trovavo sull’altra sponda del lago rispetto a dove pascolavano le pecore d’oro.
Avevo sentito parlare di quelle pecore: avevano corna molto appuntite, fronti dure come le pietre, e persino morsi avvelenati. Attaccavano qualunque creatura umana vedessero.
C’era una tratto melmoso della riva, pieno di canne, suonatrici delle melodie del vento: dovevo superarlo per gettarmi nella zona più profonda del lago e annegare.
Mi misi a spostare le canne con le braccia.
Ad un tratto un soffio lieve le fece suonare a lungo e dolcemente e nella loro melodia distinsi una voce più sottile di quella del vento.
-Nooooooooooo- cantavano tranquillamente.
-Psichheeeeeee, noooooooo. Nooooon esseeeere scioooooooca. Peeeeer prendeeeeere laaa laaaaanaaaaaa aspettaaaaaa laaaaa seeera, quaaaaando le peeeeeercoooooooreeeeeeee saaaaaraaaanoooo andaaate viiiiaaaaa, trooooooooveraaaaaai batuffooooooli doooooratiiiiiii traaaaa iiiii raaaaaaaamiiiiiiii eeeee iiiii cespuuuuuuugliiiiii-
Ascoltai ciò che capii dai lunghi mormorii delle canne, e mi misi all’ombra di un platano ad aspettare la sera.
Quando le pecore se ne furono andate mi misi a cercare tra i bassi rami, come mi avevano suggerito le canne, e trovai molti fiocchi morbidi e dorati. Li raccolsi tutti nel vestito e mi rimisi sulla strada dell’Olimpo.


-Imbrogliona! Anche di quest’opera prodigiosa io so chi è l’autore segreto! C’è sempre lo zampino di quel mio figlio indegno! Sto seriamente pensando di diseredarlo! Niente più poteri! Niente più alucce per andare in giro per il mondo a innamorarsi di insipide e insignificanti fanciulle! Ma dove ha gli occhi quel mio figlio!-
Avevo ancora in mano i fiocchi vaporosi mentre Afrodite si era completamente dimenticata di me e andava parlando a se stessa degli errori che aveva fatto crescendo il suo figliolo, e di quanto lo avesse viziato, e di quanto lei lo avesse sempre accontentato, e dei suoi dispetti e della sua ingratitudine…
-Ah! Mi fa sempre perdere il filo! Quel brigante! Ecco! Torniamo a te!- disse come ricadendo nella realtà.
-È il tramonto, è vero, ma per una maga come te non sarà difficile portare a termine anche questa prova. Voglio sapere se sei davvero dotata di animo audace e di straordinaria prudenza-
Mi ricondusse strattonandomi alla finestra.
-
Vedi la cima di quell’erto monte, che sovrasta quella montagna altissima e dirupata- mi additò, non troppo lontano, un monte scosceso fin quasi ad apparire verticale -Da quella cima scaturiscono le acque oscure di una nera sorgente, e raccogliendosi in fondo alla valle vicina, scendono a irrigare la palude Stigia e ad alimentare la cupa corrente di Cocito. Tu devi salire fino al punto dove la sorgente scaturisce freddissima dalla terra e riportarmi questa piccola urna piena di quell’acqua-
Mi porse un vasetto di cristallo colorato aggiungendo –Vedremo, vedremo. Non osare tornare con questo vasetto vuoto!- nei suoi occhi passò un lampo maligno e sanguinario e i lati della bocca si tirarono su in un sorriso orribile.

Quando giunsi nelle vicinanze della cima, subito mi accorsi della mortale difficoltà dell’impresa.
Infatti una rupe altissima, scoscesa e inaccessibile rovesciava dal mezzo di una spaccatura quell’acqua spaventosa che, penetrando per certi passaggi stretti e angusti, si precipitava fuori per le fenditure e scorreva giù lungo il declivio, cadendo invisibile nella valle vicina.
Accanto ad essa, a destra e a sinistra, le facevano la guardia dei terribile draghi che strisciavano e tendevano il collo negli anfratti della roccia, con gli occhi sempre aperti e le pupille eternamente intente alla luce.
Sentii quelle acque, che avevano il dono della parola urlarmi “Vattene!” “Stai attenta” “Non avvicinarti”.
Dentro di me sentii l’eco della minaccia “Farai una brutta fine”, che mi continuavo a ripetere da quando mi ero messa in cammino.
Pietrificata davanti a tante difficoltà, atterrita dalla mole di un impresa così impossibile, ero lì presente col corpo, ma non con la mente, che delirava spaventata, combattuta tra la paura per i draghi e quella per Afrodite.
Dovevo decidere in che direzione procedere, se tornare indietro e morire frustata a sangue o andare avanti e morire in un boccone per i draghi.
Ogni volta che pensavo ad una delle minacce questa mi sembrava la più terribile ed ero pronta a decidermi di affrontare l’altra, ma quando il pensiero si soffermava sull’altra ne era spaventatissimo e ritornava sulla decisione di affrontare la prima, che aveva appena scartato.
Ero persino priva dell’unico sollievo che mi dava piangere.
Ma la sventura della mia anima innocente non sfuggì agli occhi profondi della Provvidenza.
Sopra di me sentii il verso dell’uccello regale del sommo Zeus, l’aquila.
Alzai il viso e la vidi planare su di me ad ali spiegate.
Mi atterrò davanti, puntando quella sua testa bianca e quei suoi occhi acuti su di me, così che non c’erano dubbi su chi il fato volesse aiutare.
Era quasi un miracolo che le aquile si avvicinassero ai comuni mortali.
Se lo facevano, si avvicinavano solo a gente cara agli dei, e a quelli che visitavano portavano l’auspicio del favore di Zeus.
-Son qui per onorare la potenza di Eros aiutando te- disse l’aquila dignitosamente; era un uccello enorme e maestoso anche quando non volava –ricordo bene che Eros scelse me per rapire per conto di Zeus il coppiere Frigio, di cui si era innamorato. Aimè! Hai un impresa ardua bella Psiche. Purtroppo sei ingenua e ignara di queste cose. Quell’acqua è spaventosa e tremenda, non potresti neppure toccarla con le dita. Non ricordi che queste sono le acque temute dagli dei? Non hai mai sentito che, come voi giurate sugli dei, gli dei giurano sulle acque dello Stige, che vengono da questa sorgente? Dammi un po’ quella brocca-
Ero rimasta ad ascoltarla senza parlare e dunque le porsi il vasetto di cristallo.
L’aquila lo prese nel becco e volò in alto, scomparendo.
La aspettai per pochi minuti, poi essa ritornò con il vaso colorato pieno.
-Sei un essere meraviglioso! Stupendo! Come hai fatto!??- gridai prendendo il vasetto e tentando di abbracciare l’aquila per la felicità.
L’aquila si scostò dignitosamente, sbattendo le ali per scacciare i miei abbracci.
-I draghi hanno tentato attaccarmi, ma a io mi sono scostato, poi li ho beccati e gli ho detto, col vasetto nel becco, che ero stato mandato ad attingere acqua da Afrodite. Loro, con la soggezione che hanno degli dei, non hanno fatto una piega, ed io mi sono potuto avvicinare all’acqua-
-Grazie! Grazie! Grazie! Non so davvero come ringraziarti! Sarai l’uccello che venererò più di tutti. Farò sempre sacrifici in nome di Zeus e delle sue aquile!- dissi e la leggerezza che mi sentivo addosso per essere stata sollevata da un compito tanto titanico mi rendeva euforica.


Neppure quell’acqua riuscì a soddisfare la dea.
-Mi resta solo da credere- disse ironicamente –che tu sei una strega capace di vere magie! Dunque tu superi ogni ostacolo con la stessa facilita con cui scavalchi un muricciolo. Bene. Posso allora assegnarti l’ultima prova, bamboletta mia-
Prese il vaso che le avevo portato con l'acqua dello Stige, lo scoperchiò e versò l’acqua nel vaso di alcune rose, che appassirono immediatamente.
Dunque mi porse l'oggetto.
-Va all’Inferno, domani- disse –e dì a Persefone: “Afrodite ti prega di mandarle un poco della tua bellezza, almeno quanta ne serve per una sola breve giornata. Perché quella che aveva l’ha tutta consumata e finita per curare il figlio ammalato”. E vedi di spicciarti perché devo spalmarmela prima di andare al consiglio degli dei. Non permetterò mica che tu e il mio figliolo mi facciate apparire più brutta tormentandomi con le vostre ragazzate!-

Capii di essere arrivata all’estremo della sfortuna.
Afrodite voleva che mi andassi a gettare direttamente nelle bracci della morte; era questo il significato della prova ingrata che mi aveva assegnato.
Non sapevo come arrivare all’Inferno, l’unico modo che conoscevo era morire, ed Afrodite probabilmente lo sapeva.
Nessuna formichina, nessuna canna di fiume, ne una maestosa aquila avrebbero potuto aiutarmi di nuovo.
Così andai su una rupe altissima, volevo tentare di suicidarmi di nuovo, sperando che questa fosse la volta buona, quando la rupe cominciò a parlare.
-Disgraziata! Perché vuoi ammazzarti buttandoti giù? Perché senza reagire ti lasci sopraffare da questa terribile ma anche ultima prova?-
Comprensibilmente la mia bellezza e la mia triste sorte impietosivano tutti, e tutti mi aiutavano, persino un’inanimata Rupe.
-Che dovrei fare! Le entrate del Tartaro io non le conosco!- urlai al vento.
-Oh, ma dai! È solo una scusa per buttarti e farla finita! Sai benissimo che quando, con la morte, la tua anima si sarà separata dal corpo affonderai negli infermi e non potrai più tornare indietro. I tuoi tormenti non avranno sollievo così, Psiche! Ascolta bene come entrare nell’Inferno…-


La Rupe aveva parlato a Bora, e gli aveva detto di sollevarmi per portarmi ad una città non lontana da lì, Sparta.
Bora mi abbandonò all’entrata della città.
Mi ero accorta di avere delle monetine in una tasca della veste; dovevano essere rimaste per caso durante tutte le mie avventure, dalla notte che Eros era scappato fino a quel momento.
Potei comprare quel che mi serviva per il viaggio agli inferi: due focacce d’orzo impastate con vino e miele e un sacca per mettere dentro queste e il vasetto vuoto di Afrodite. Mi rimanevano alcune monetine.
Al confine di Sparta cercai, come mi aveva suggerito la Rupe, un promontorio di nome Tenaro, in un luogo fuori mano e ben nascosto.
Li, secondo le sue istruzioni, si sarebbe dovuta intravvedere una spaccatura profonda nella terra, da cui sarebbero dovuti salire fumi e puzza di zolfo.
La trovai. Cercando di non mettere i piedi in fallo, riuscii a calarmi giù, con quei goffi movimenti che mi permetteva il lungo peplo stracciato.
Calandomi per le pareti diseguali di quella spaccatura, ad un tratto sotto il piede sentii qualcosa di simile a un pavimento roccioso.
Poggiai anche l’altro piede su quella base solida, mi voltai e vidi la porta degli inferi, un arco basso e nero come l’ossidiana.
Dietro l’entrata c’era una strada impraticabile piena di rovi spinosi e ragnatele.
Mi infilai due monetine in bocca, come mi aveva suggerito la voce della Rupe, poi mi incamminai per quella strada destinata ai morti.
Le spine mi graffiavano le cavigie e dalle ferite mi sgocciolava del sangue. Alcuni morti saltavano fuori dai rovi per leccare le misere gocce rosse dal sentiero.
Dopo un po’ di camminare incontrai il fiume infernale il cui traghettatore era Caronte, l’esattore dell’Inferno, un dio che non fa nulla per nulla.
Persino i poveri che non possedevano niente se non le loro ossa dovevano provvedersi dei soldi per il viaggio all’Inferno.
“Infatti anche all’Inferno è viva l’avarizia!"
aveva borbottato sinistramente la Rupe, mentre mi spiegava come attraversare il fiume "Se le anime non si presentano con i soldi in bocca non gli danno neppure il permesso di crepare”
-Caronte! Caronte! Ci sono delle anime quaggiù!- dissi sventolando un braccio nella sua direzione.
Caronte, evidentemente abituato al silenzio e al lamento dei morti, si voltò subito, sorpreso da quelle parole urlate e di senso compiuto.
Si avvicinò con la sua barcaccia, era un vecchio magro e alto, col viso magro di teschio coperto da un cappuccio.
Quando la barca fu a riva si chinò su di me (aveva la bocca simile a una caverna da quanto era sdentata) e mi sorrise di un sorriso orribile.
-Non mi importa se sei viva o se sei morta- disse –Ma se vuoi traghettare devi avere qualcosa per me, ragazzina- e tese la mano col palmo all’insù.
Io mi infilai le dita in bocca, presi una delle due monetine da sotto la lingua e gliela misi nel palmo della mano.
Non persi tempo a salire sulla sua barca, adeguandomi al silenzio dei morti.
Portati da una lenta corrente vidi nel fiume galleggiare un vecchio, che mi chiese mormorando e tendendomi le braccia di accoglierlo nella barca.
La Rupe mi aveva avvisato che questo era un tranello di Afrodite, perciò ignorai il vecchio, per quanto pietoso.
I morti infatti non parlano se il sangue non gli ha infuso un po’ di vita.
Caronte riversò brutalmente le anime sulla riva opposta, io scesi dopo di loro, attenta a non bagnarmi con le acque infernali.
Camminando per un breve tratto incontrai un enorme cane con tre teste tutte identiche e di proporzioni più grosse rispetto al corpo, la cui bava colante allagava il terreno sotto di lui.
Con i suoi latrati assordanti rintronava le orecchie dei morti, terrorizzandoli, ma non potendo fargli nulla poiché erano incorporei. In tal modo faceva la guardia alla soglia del nero atrio di Persefone.
Mi avvicinai a lui con le mani sulle orecchie, e a debita distanza gli gettai una delle due focacce. Il mostruoso e informe cane si placò subito e, impegnato a divorare la focaccia, mi lasciò passare.
Feci tutto con estrema sicurezza perché seguivo alla lettera le istruzioni della Rupe e mi fidavo ciecamente delle sue parole.
Nell’atrio c’erano i troni di pietra di Ade e Persefone.
Colsi la pensosa Persefone in un momento in cui era senza il suo sposo, seduta su uno dei troni gemelli, con le braccia stese sui braccioli.
Mi era stato detto che mi avrebbe accolto con molta urbanità. I re dei morti accolgono chiunque nella loro casa infernale. Chi, chiedo, è più ospitale della morte?
Chi accoglie chiunque nella propria casa?
-Cara fanciulla, ma tu sei una viva!- disse Persefone, alzandosi tutta agitata dal suo scranno –cosa ci fai qui? Porti un po’ della bellezza di quel mondo in questa valle di rovi, di lacrime e di morti che non cercano altro che il sangue, pallido ricordo della vita? Ti invito a parlare- disse Persefone, dalle lunghe chiome nere e dagli occhi dolci di pietà per tutto ciò che aveva visto in quel luogo cavernoso.
-Regina- dissi inginocchiandomi, con le mani unite e il capo chinato –T-ti…prego, non farmi alcun male. Vengo qui per conto di Afrodite, che ti porta i suoi omaggi e mi manda a chiederti un favore, perché solo tu sei…sei…in grado…- dissi con la voce che cominciava a spezzarsi e la sicurezza che vacillava.
-Non temere, bel fiore della terra di mia madre Cerere, parla liberamente- disse con gran gentilezza la Regina degli Inferi.
-Sono qui perché Afrodite ti chiede di prestarle un po’ della tua bellezza, giusto quella che serve per il resto di questa breve giornata sulla terra. T-ti prego…- in mezzo alla frase mi sfuggì un singhiozzo al pensiero di quel che mi avrebbe fatto Afrodite –mi…mi punirà se…se…-
-Oh, no, non piangere, su, su. Dolce umana, non è necessario che tu mi preghi o mi impietosisca…io…te ne darò un po’ sicuramente- scese i gradini del suo trono e fece per cingermi in un abbraccio, ma la Rupe mi aveva raccomandato di non farmi toccare, così mi scostai.
-Vuoi…vuoi…mangiare qualcosa?- chiese con tono incerto. Era la domanda traditrice da cui la Rupe mi aveva detto di guardarmi. Chi mangia il cibo dell’Inferno resta là per sempre.
Non era colpa di Persefone, non era sua intenzione trattenermi là; erano semplicemente gli ordini del suo sovrano, una legge applicata con tutti. Stava a me evitarla. Era nella natura di quel luogo cercare di trattenere ogni cosa che entrasse e di non farla più uscire.
-No, no, non voglio nulla, ho le mie focacce- dissi e dalla sacca tirai fuori il vasetto e glielo porsi –Vi prego, potreste mettere la vostra bellezza qui dentro?- chiesi.
-Certo- disse e sorrise dolcemente, osservandomi distratta.
Prese il vasetto ed uscì dalla stanza.
Ritornò col vasetto chiuso.
-Tu mi hai ricordato la mia casa natia, ti ringrazio sentitamente- fece di nuovo per allungarmi una carezza, ma io mi ritrassi umilmente, lei ritirò tacitamente la mano e continuò -Purtroppo in questo periodo abito in questa dimora, ormai è già autunno cara, e io sto qui, con Ade…- fece un breve sorriso –Ti auguro buona fortuna-
-Grazie-
-Mi raccomando!- disse severamente –Non aprire mai, mai, mai quel vasetto di bellezza. Fidati della mia parola, e non aprirlo. Ora va. Hai tutto quel che ti serve per tornare?-
-Si- dissi, mi inchinai e mi avviai per la soglia.
Risalii tutta la strada, placai il cane tricefalo con la seconda focaccia, ignorai i richiami di ogni morto che tendeva la mano per cercare aiuto e pagai l’avaro traghettatore con la seconda moneta che avevo in bocca.
Attraversai la soglia del mondo dei vivi, accompagnata dalle urla di invidia e disperazione dei morti che mi videro uscire.
Risalii la spaccatura della terra.
Finalmente rividi la luce, talmente intensa che mi fece male agli occhi.
Dalla gioia di essere tornata dall’Inferno sentii un incredibile, rinnovata felicità di vivere
L’Olimpo non era lontano, potevo raggiungerlo entro fine giornata, ma durante la strada, sebbene avessi fretta e fossi contenta di concludere il mio mandato, fui presa da una temeraria curiosità.
Tirai fuori il vasetto dalla sacca, lo guardavo come se potessi vederci dentro senza aprirlo.
“Come potrei non servirmi almeno un pochino di bellezza divina?” pensai “Sarei più bella agli occhi dei mio amato Eros. Perché dovrebbe sprecarla Afrodite, che è già bellissima? Sicuramente non si accorgerà se…” questa curiosità mi assillò per tutto il viaggio. Quando riuscivo a scacciarla lei ritornava dopo un po’, con nuovi argomenti a suo favore, e ogni volte io ero sempre più tentata di assecondarla.
Alla fine il desiderio fu irresistibile e la resistenza troppo debole per frenarmi.
Aprii il piccolo coperchio e sbirciai nel vasetto per vedere che forma dovesse avere la bellezza.
Mi accorsi che dentro non c’era proprio niente, solo del sonno, un sonno infernale proveniente dallo Stige.
Da un vasetto che sembrava vuoto cominciò ad uscire del fumo, come da una pentola che bolle di cose disgustose. Il fumo formò una nebbia attorno a me e mi sentii stanca come se dovessi recuperare il sonno di mille anni.
Mi scordai chi ero, e che cosa stavo facendo. Mi limitai a cercare un giaciglio e a poggiare il vasetto accanto a me (avevo come il nebuloso presentimento che fosse importante!). Mi addormentai di colpo, di un sonno profondo in cui cadono solo i cadaveri.

Sentii il sonno sparire lentamente dal mio corpo come al risveglio da una lunga notte.
Quando aprii gli occhi vidi le foglie che avevo usato come guanciale.
Mi rigirai nel mio giaciglio e vidi una figura d’uomo, molto giovane, che fendeva la nebbia con le braccia per scacciarla da me.
Non so come riuscì ad acchiapparla tutta e a rimetterla nel contenitore da cui io l’avevo tirata fuori.
Quando l’ uomo si girò e lo guardai bene in viso mi svegliai completamente come se mi avessero gettato dell’acqua fredda in faccia.
Basita non riuscii a dire o a fare niente, se non a provare un profondo stupore e una profonda dolcezza, mentre Eros mi si avvicinava con in mano il vasetto di Afrodite.
-Ah Psiche!- disse lui esasperato con quella sua solita voce un po’ di rimprovero e un po’ di scherzo che amavo tanto –Sei di nuovo caduta vittima della curiosità! Speriamo che questa seconda volta ti serva di lezione più della prima- si abbassò alla mia altezza e mi baciò la bocca.
-Vedi che sono guarito dalla mia piaga? Mi sento incredibilmente bene. Ma ora va a finire la prova che ti ha dato mia madre. Io penso a supplicare Zeus-
-Supplicare….Zeus…- feci eco, ancora un po’ frastornata dalla nebbia soporifera.
-Tu aspetta un oretta o due e vedrai cosa un dio riesce a fare in questo breve tempo- mi porse il vasetto, si alzò, spiegò le ali rinvigorite dal riposo e spiccò il volo più veloce e meraviglioso che mai.



Mi sembrava di essere ritornata ai primi tempi in cui Eros mi aveva accolto nel suo palazzo divino, tanto alte erano le vette della mia felicità.
Ogni volta che pensavo che lui era guarito e che mi aveva salvata avevo voglia di gridare di gioia, di correre, di cantare, di mettere la forza inesauribile del mio amore in qualche attività.
Scalai di nuovo l’Olimpo.
Quando incontrai di nuovo un’Afrodite sbigottita sulla soglia le schiaffai in faccia un gran sorriso e le porsi il dono di Persefone.
Afrodite somigliava così tanto a suo figlio che quasi quasi sentii amore anche per lei.
All’improvviso squillarono le trombe del cielo, che ci distolsero da un momento di imbarazzante silenzio in cui Afrodite stava elaborando qualcosa da dire.
Dalla vetta dell'Olimpo scese Hermes, il messaggero dai piedi alati, il più intelligente degli dei, il furbo, il viaggiatore, il ladro.
Atterrò davanti ad Afrodite e le porse un rotolo.
-Afrodite! Bellezza degli dei! Porto un messaggio da Zeus, è molto urgente. Chi non si radunerà sul punto più alto del monte Olimpo prima di sera riceverà una salatissima multa. E chi è costei che è tanto bella da esser degna di un dio? Forse le Grazie non sono tre, ma quattro?-
Come in ogni momento di imbarazzo mi ritrovai a fissare il pavimento e a lambiccarmi il cervello per rispondere.
-Oh! Ho capito! È lei! L’amante di Eros! Fortunato! Anche tu devi presentarti. Si parlerà di te- aggiunse Hermes.
-Che ha a che fare lei col nostro concilio?- chiese indispettita Afrodite.
Hermes fece un sorriso veloce e furbesco, un sorriso che lasciava intendere di sapere molte cose, ma di non voler dire di più.
Spiccò il volo con i suoi calzari alati verso la cima del monte.

Afrodite chiamò Bora e Bora ci sollevò fino alla dimora di Zeus.
Atterrammo in una sala ampia e circolare con uno sbuffo di vento, al centro della quale c’era il trono del Padre di tutti gli dei.
Attorno allo scranno del grande signore dei cieli c’erano quelli di tutti gli altri dei.
Afrodite occupò il suo posto, lasciandomi sola in mezzo alla sala, proprio davanti al seggio di Zeus.
Alla destra di Zeus c’era Eros, che mi indicava al potente dio e confabulava con lui mentre tutti gli altri dei arrivavano da ogni parte della Grecia e si sedevano ai loro posti.
Quando Zeus smise di parlare con Eros e tutta la sala fu piena, il capo degli dei mi fece cenno con la mano di avvicinarmi e disse con la voce profonda del tuono –Vieni-
Le viscere mi si liquefecero a quel comando secco.
Esitante mi avvicinai al dio, tentando di ignorare che, se avesse voluto, avrebbe potuto incenerirmi con la forza di uno sguardo bieco.
Quando gli fui abbastanza vicino mi guardò con piglio severo ed io mi inginocchiai in segno di rispetto.
-Non inginocchiarti!-
Balzai subito in piedi. Tutto il teatro delle riunioni del cielo era pieno e stava assistendo alla mia vergogna.
-Eros è lei? La riconosci?-
Eros sorrise –Non c’è nessuno, né sull’Olimpo, né sulla terra, che le assomigli!-
-Bene, allora non possiamo sbagliare. Tutti gli dei facciano attenzione! Ho qualcosa da dire per conto del mio signor figlio Eros!- disse con tono un po’ scherzoso e un po’ minaccioso.
Si schiarì la voce e parlò:- O dei, coscritti nell’albo delle Muse, tutti sapete che questo ragazzo- e additò Eros –è cresciuto praticamente nelle mie mani. Ormai costui si è scelto una sposa, chiaramente dopo aver ben soddisfatto tutti i suoi ardori giovanili, ma questo fu un altro tempo, un'altra era. Come ho già detto e ribadisco egli si è già scelta la sua ragazza, e l’ha anche privata della verginità: se la tenga, se la sposi, e tra le braccia di Psiche goda eternamente l’amore. Non accetterò nessuna protesta!- poi si rivolse ad Afrodite, la quale era diventata rossa come una fragola ed era stata
esattamente sul punto si esplodere in proteste.
-Zitta figlia! Capisco il tuo dispiacere! Tu non vuoi che il matrimonio si celebri tra persone di diverso rango. Un dio e un mortale! Ma certo! Hai ragione! Nemmeno io mi sognerei una cosa simile! Ed ecco perché…- in quel momento entrò un coppiere un una coppa così colma di ambrosia che il liquido divino sgocciolava dall’orlo –provvediamo immantinente a rendere questa bellissima fanciulla immortale-
Eros sbatte le ali per l’entusiasmo e fece un gran sorriso nella mia direzione.
Per la sala del concilio si diffuse un brusio di approvazione.
Io spalancai gli occhi per la sorpresa e fissai la coppa come se al posto suo sul vassoio ci fosse uno strumento chirurgico con cui mi avrebbero asportato qualche cosa.
Io, immortale...
Io era una ragazza semplice, modesta. Non avevo mai nutrito sogni tanto rosei.
Mi era sempre sembrato assurdo persino immaginare una cosa simile, e dunque non ci sono parole umane per descrivere l’incredibile paura e l’incredibile gioia che provai nel vedermi offrire quella coppa.
Eros scese dallo scranno ci Zeus, mi si mise accanto e mi prese la mano per farmi coraggio.
-Come hai fatto?- domandai
Eros si avvicinò al mio orecchio e bisbigliò –
Vedi…gli ho spiegato la situazione, l’ho pregato, gli ho raccontato tutto ciò che avevi passato affinché stessimo insieme e lui ha detto, cito a memoria: “In considerazione del fatto che ti ho cresciuto io, e per non venir meno alla mia nota bontà, farò tutto quello che mi hai chiesto tu. Ma in cambio, se ci fosse qualche fanciulla particolarmente bella sulla terra, sai bene qual è il tuo dovere: portarmela qui in cambio del piacere che ti faccio!”-
Scoppiai a ridere e lo baciai sulle labbra.
Zeus prese la coppa dal vassoio del coppiere, scese dal suo scranno e si diresse verso di noi.
Mi porse la coppa con quelle sue grandi mani e tuonò allegro –Bevi, Psiche, e sii immortale! Eros non sarà mai sciolto dal vincolo che lo unisce a te, e mi par di capire- diede un occhiata agli occhi innamorati con cui Eros mi guardava –che lui nemmeno lo voglia. Da oggi voi due siete sposi per tutta l’eternità!-

Subito dopo venne servito un ricco pranzo di nozze. Lo sposo era posto sul seggio più alto, e tra le sue braccia teneva Psiche.
Poi veniva Giove con la sua Giunone, e poi di seguito, in ordine, tutti gli altri dei.
Fu offerto il nettare, che è il vino degli dei: a Giove lo serviva quel pastore fanciullo, suo coppiere, agli altri Bacco. Vulcano cuoceva il pranzo, le Ore spandevano tutt’intorno una pioggia di rose e di altri fiori colorati, le Grazie spandevano profumi e le Muse facevano risuonare i loro canti armoniosi. Poi Apollo cantò accompagnandosi con la cetra, Venere danzò graziosamente in una danza leggiadra: si era formata come un’orchestra, dove le Muse cantavano in coro e suonavano i flauti, mentre Satiro e Panisco soffiavano nella zampogna.
Così Psiche divenne sposa di Amore secondo le prescrizioni del rito, e quando il tempo per il parto fu terminato nacque loro una figlia che noi chiamiamo Voluttà.*

…Fine.

*Il Pireo è il porto di Atene, questà città è celebre per la sua potenza navale e le sue mura, che vennero distrutte alla fine della guerra del Peloponneso, quando vinsero gli Spartani.

*Da “Le metamorfosi” o “L’asino d’oro” di Lucio Apuleio.

Non ho parole per scusarmi di tutte le battute che ho preso dal testo originale di “Amore e Psiche”. Naturalmente la maggior parte sono di mia invenzione, diciamo che 1/8 delle frasi dette dai personaggi le ho prese dalla nota opera.
Scusatemi anche per il capitolo infinito. Ho fatto di tutto per mettere quello che restava da raccontare in un solo capitolo. Altrimenti avrei dovuto farne cinque e avevo già promesso che Eros avrebbe salvato Psiche in questo capitolo. Non potevo rimangiarmelo.
Sentite, lo so che il capitolo è lungo, ma potreste recensire, almeno.

Ringrazio sentitamente

- ilary_chan (che ha messo la storia tra i preferiti)
-MissProngs (che ha messo la storia tra quelle da ricordare)

e...

 - Michelegiolo 
 - Sachi Mitsuki

 - Selhin 
 - simplyunica 
- uranian7

( che hanno messo la storia tra le seguite)

Ecco, ho finito. Tutto è stato detto, tutto è stato fatto, non mi pare ci sia più nulla da spiegare.
Vi saluto. Resto in ansiosa attesa che la mia dea Ispirazione venga a sussurrarmi all’orecchio qualche altra idea. Tremate, tremate!

Bye Bye

trullitrulli.

Sachi Mitsuki:
Eco e Pan erano già presenti nel mito originale. Naturalmente ne ho dovuti togliere altri, come Giunone e Demetra. Nel mito Psiche si recava prima nel santuario di Cerere e poi nel santuario di Era per chiedere ospitalità e aiuto. Le due dee, per non attirarsi l'ira di Afrodite, le rifiutano ogni aiuto. Questa parte mi è sembrata superflua e l'ho tolta, dando spazio al dialogo con Pan.
Grazie dei complimenti, sono contenta che ti sia piaciuta le fic.

Norine:
Strano che Eco faccia a tutti tenerezza, non avevo pensato che potesse dare una qualche impressione, l'avevmo messa così, era appena una comparsa, perchè Pan doveva fare qualcosa quando incontrava Psiche. Si forse ho esagerato a far predere a calci Psiche, ma in questo capitolo ho fatto di peggio, con le frustate e gli schiaffi e Afrodite che la solleva per il collo del peplo e la sballotta da tutte le parti. Insomma, diciamo che Afrodite non gliel'ha lasciata superare gratis. Grazie anche a te per la recensione.

  
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