Eros
e Psyche
Passai la
notte in un angolo della stanza.
Le
ancelle sediziose mi schermivano continuamente, mi minacciavano, mi
facevano
smorfie, ed io, ancora più spaventata nel mio animo
già spaventato, mi
raggomitolavo nel mio cantuccio, immobile, se non che tremavo per
i singhiozzi.
Lentamente
cominciò a pesar loro la stanchezza di quella giornata. Si
accoccolarono
insieme sul divanetto, abbracciate con la famigliarità di
due sorelle, e si
addormentarono pacificamente.
Assonnata,
mi stavo assopendo quando sentii la porta sbattere.
Sussultai
e mi guardai intorno in quel buio da cantina.
Nell’oscurità
c’era un ombra ancora più scura, si diresse verso
la finestra e scostò quel che
restava delle pesanti tende per lasciar passare un
po’ di luce.
Apparve
l’immagine di Cupido, che si voltò verso di me con
un viso sereno.
Si
avvicinò e ad ogni passo quel viso diventava lentamente una
smorfia beffarda e
violenta.
Lo
guardai spaventata. Cercai di fuggire, ma qualcosa mi distruggeva la
libertà
dei movimenti.
Mi
afferrò per le braccia, mi costrinse ad alzarmi, ma solo per
gettarmi a terra
di nuovo.
Mi
picchiò, mi pestò sotto ai piedi, mi
frustò, mi sollevò strillante per i
capelli e mi schiaffeggiò, poi mi gettò ancora a
terra e riprese da capo. Mentre infieriva sul mio corpo con pestoni
violenti i suoi capelli dorati diventavano lunghi e boccolosi, gli
cresceva un seno grande e
morbido, il corpo gli si snelliva in vita, si allargava lungo i fianchi
e le sue labbra da donna strillavano volgarità adatte solo a
uno
scaricatore del Pireo*.
Mi prese
un tremito nervoso e mi svegliai.
Irrigidita,
dolorante, spaventata dal sogno, mi sollevai faticosamente e subito mi
accorsi di essere sul pavimento
e di essere stata svegliata da urla angoscianti.
Ricordai
immediatamente la situazione. L’urlo proveniva da dietro un
muro della stanza
su cui era stato appeso un arazzo intessuto delle scene della nascita
di
Afrodite.
Le urla
peggiorarono.
Mi
domandai se non ci fosse qualche altro sventurato, oltre a me, che
Afrodite
aveva rinchiuso qui dentro, e mentre me lo chiedevo da dietro la parete
sentii
urlare il mio nome.
-Psiche!
Psiche! Psiche!- urlava la voce.
-Sono
qui!- picchiai sul muro con il pugno –Sono qui!- mi misi a
picchiare con
entrambi i pugni –Aiutami! Aiutami! Mi senti?! Per gli dei!!
Se mi conosci,
aiutami!-
Le mie
urla e quelle dello sventurato svegliarono Tristezza, che a sua volta
svegliò
Angoscia con uno scossone.
Mentre cercavo di farmi rispondere da quella voce disperata le sentii
afferrarmi per le spalle e trascinarmi via.
-Zitta!
Zitta! Brutta puttana! Fa silenzio!- disse Angoscia tirandomi via dal
muro con
uno strattone più deciso, mentre continuavo a urlare –Per gli dei!
Per gli dei! Costui mi conosce!
Sa chi sono! Chi c’è la?! Chi nasconde Afrodite??!
No! Lasciami! Lasciami! No!
No!- (Angoscia, con una mano sulla mia testa, mi costrinse a
inginocchiarmi. Mi alzò il peplo tra i miei disperati
“No! No!” fino a scoprirmi la schiena, in modo
che Tristezza potesse sferzare a segno le verga) No! No!!- le mie grida salirono alle
stelle quando
sentii arrivare il primo colpo, seguito da molti altri.
Durò
finché le ancelle non sentirono ritornare il sonno.
Mi
lasciarono dove mi avevano torturato e se ne tornarono a dormire.
Il giorno
dopo, appena albeggiava, Afrodite entrò a piccoli passi.
Le
ancelle stavano rassettando tutto in previsione del suo arrivo.
Io me ne
stavo tutta in un gomitolo lì dove ero stata frustata, con i
capelli sparsi per
terra.
Afrodite
ordinò alle due ancelle di svegliarmi e loro mi svegliarono
con un sacco di ceffoni.
Quando mi
risentii per il dolore delle sberle, non capendo, balzai a sedere
tentando si
schermirmi dai colpi con le braccia.
-Adesso
basta- disse Afrodite, trattenendo le serve.
Poi fisso
il suo sguardo su di me, misera, più terrorizzata e
imbarazzata di prima.
-Zeus!
Fai schifo!- disse mentre un tremito di pianto mi assaliva tutto il
viso -È
inutile che fai tremare quel labbro di sotto, non tentare di muovermi a
compassione!–
-Io? Io
signora? N-non sto tentando di mu-muoverla a com…mi vien da
piangere solo per
il bruciore delle piaghe sulla schiena. Io…- piagnucolai.
-Risparmiami
i tuoi piagnistei- si diresse verso un mobiletto dove era posato un
vaso di
terracotta decorata, con dei bellissimi gigli bianchi dentro.
Venere
sollevò il vaso e rovesciò l’acqua e i
fiori per terra.
Schioccò
le dita e tre servitori portarono diversi sacchi di grano.
Venere
prese da ogni sacco un pugno di grano di genere diverso e lo mise nel
vaso. Lo
mescolò con le dita e poi me lo porse.
-To’.
Ecco il tuo primo servizio in questa casa. Se mio figlio vuole una
sposa,
ebbene, questa deve essere abile e paziente. Separa il grano di
ciascuna specie
e raccoglilo in mucchietti. Fammi trovare tutto fatto prima di sera.
Voi due
(si rivolse alle ancelle) prendetevi una pausa. Chiudetele la porta a
chiave…ah si,
anche la finestra. Non deve assolutamente suicidarsi. Io intanto me ne
vado a
un pranzo di nozze. Oggi sono allegra, ho deciso che il matrimonio
sarà un
successo, e anche unione dei due sposi. Ah come mi sento allegra-
e la sua figura seducente veleggiò fuori dalla stanza
accompagnata dalle soddisfatte ancelle.
Rimasta
sola, non ebbi neppure il coraggio di mettere le mani in quel
mucchietto di
semi e rimasi lì come una scema.
Mi accorsi che per la
camera passeggiava una piccola formichina. La formichina si
arrampicò sul
vasetto fino ad arrivare in cima, dove strabordavano i semi. Rimase un
attimo
ferma, muovendo apparentemente senza senso le sue antennuccie piccole
piccole.
Ad un
tratto, dal piccolo spazio tra la finestra e il pavimento,
sbucò un esercito di
formichine che avanzavano in tante file indiane.
Il
pavimento era talmente fitto di insetti da non riuscire più
a vedere le trame
del marmo.
Le
formichine arrivavano vicino a me, si arrampicavano sul vaso, lottando
tra loro
per farsi strada, e ognuna prendeva su di se un seme e lo depositava
accanto al
vaso, chi in un posto chi in un altro.
Dopo la
prima sorpresa mi accorsi che stavano formando un mucchietto per ogni
specie di
grano.
Il vasetto a poco a poco divenne vuoto. Io ero stupita e gratissima.
Volevo
ringraziarle ma non riuscivo a dir nulla.
Quando si
avvicinava il tramonto le formichine avevano appena finito e come erano
venute
si ritiravano.
Sulla
cima del vasetto era rimasta una sola formichina. Le sorrisi.
Evidentemente
era il miglior ringraziamento che la formichina potesse desiderare
perché agitò
le antenne e se ne andò.
Venere
non sarebbe tornata subito.
Allora mi
appressai al muro dell’arazzo di Venere per capire chi fosse
il prigioniero che
conosceva il mio nome.
Bussai
leggermente.
Silenzio.
Bussai un
po’ più forte e chiamai
–C’è nessuno che sente?- per un po'
nessuno mi rispose e dovetti urlare per molto tempo prima di ottenere
una reazione.
-Chi è
là?- rispose una voce maschile, sorpresa.
-Una
prigioniera. Sono Psiche!-
-Psiche!? Proprio Psiche!?- da come parlava sembrava gli battesse forte
il cuore.
-Si. Non ci sono motivi per cui dovrei fingere di essere Psiche! Sono
Psiche davvero! Chi
sei?-
-Sono
Eros! Sono nell’altra stanza!-
Sentii un
tuffo al cuore ed una nuova gioia euforica nel sentire quella voce.
-Eros!
Amore! Amore! Sei qui!- dissi facendo vagare freneticamente le mani
sulla superfice del muro, forse in cerca di un buco o di un tranello
che aprisse un passaggio.
-Shhhh,
zitta, tutte le ancelle di mia madre hanno una stanza ad appena due
porte dalla
tua!-
-Ti tiene
chiuso là dentro per forza?- bisbigliai, ancora emozionata.
-No, ci
devo stare per guarire dalla piaga di quello sciagurato schizzo di
cera,
Psiche- disse con una sfumatura di
rimprovero.
-Mi
dispiace, mi dispiace, non credere che non mi dispiaccia. Io
non…-
-Lo so
Psiche, so bene che è stato più forte di te. Sei
una sciocca curiosona-
continuò ora con comprensione ora con tenerezza.
-Io non
posso uscire da qui! Cosa è successo ieri notte?
Perché urlavi?-
-Urlavo?
Ieri notte io dormivo molto profondamente, sogni agitati, per via del
dolore-
-Allora
urlavi! Mi hai svegliato! Urlavi il mio nome con voce deformata dalla
disperazione!-
-Ero nel
delirio, forse. Avevi delle carceriere? Le ho svegliate?-
-No. Io
mi sono messa a urlare e a cercare di farmi rispondere da te battendo i
pugni
sulla parete, e così le ho svegliate io-
-E che ti
hanno fatto?-
-Mi hanno
frustato-
Eros
rimase in silenzio, poi nella stanza si sentirono dei rumori, come se
qualcosa
stesse sbattendo da tutte le parti.
-Ma che
fai?!-
-Cerco di
raggiungere la porta-
-Ma no!
Sei malato! Resta a letto. Si sente che continui a perdere
l’equilibrio e a
rovesciare oggetti-
Eros,
rassegnato, sbuffò e si sedette con un tonfo di materasso.
-Appena
guarisco ti porto via da lì-
Mentre parlava improvvisamente
sentii il rumore delle chiavi che giravano due volte nella serratura
della
porta. Spaventata mi affrettai ad assumere l’aria
più innocente possibile.
Afrodite
entrò barcollando, inciampò nello strascico del
suo vestito, ma si mantenne in equilibrio
appoggiandosi con tutto il peso alla maniglia.
Aveva un
aria terribile: le guance rosse, le labbra umide, occhi mobili e
allegri come
il vino che aveva buttato giù, i cui fumi le erano
abbondantemente saliti alla
testa.
Nonostante
fosse ubriaca, incoronata di rose e coperta di ghirlande un
po’ stracciate sul
collo, sul petto, attorno alle braccia e alle gambe, appena mi vide si
ricordò
subito della mia prova e cercò in giro per vedere se avessi
finito.
Appena
vide il grano diviso diligentemente in mucchietti, per
quell’umore incostante
che hanno gli ubriachi, si infuriò subito e, prendendo a
calci il vasetto e i
mucchietti, sparse tutto il lavoro delle formiche sul pavimento.
-Bestia!
Vermetto che non sei altro! Questa non è mica opera delle
tue mani! Che ti
credi? Di darmela a bere così!- si avvicinò a me,
che ero in piedi vicino
all’arazzo, terrorizzata. Con uno spintone mi mise con le
spalle al muro,
mi afferrò per il collo
del vestito, mi sollevò da terra e mi premette contro la
parete.
-Qui c’è
entrato di sicuro quello a cui tu sei piaciuta! Per la vostra rovina!
Dico…dico…Giusto?! Che figlio mi è
toccato! Che razza di… che razza di...!
Imbrogliona-che-non-sei-altro!-
Vaneggiava e ad ogni
parola mi sbatteva contro il muro come se volesse farlo crollare.
Dopo un po' mi lasciò
a terra, con l’impressione di essermi rotta qualche costola.
Afrodite
non riusciva neanche a parlare senza che la lingua la tradisse per via
dell’ubriachezza, così, infuriata, si
tirò fuori un avanzo di pane che le era
rimasto nel vestito e me lo getto sgarbatamente contro.
-Mangia!
Domani avrai una prova due volte più difficile!-
Scacciò
fuori Angoscia e Tristezza, che mi avevano controllato anche quella
notte, si
diresse verso la finestra e la spalancò.
Poi venne
nella mia direzione, mi afferrò per un braccio e mi
trascinò verso la finestra
col piglio di una che mi volesse buttare giù.
Invece mi
mise, spaventata e tremante, davanti alla vista di
un’immensità di alberi stesa
su tutte le colline all’orizzonte.
-Distingui
in questa distesa il limitare della foresta? Laggiù, lo vedi
quel lago?-
Ero sul
punto di sciogliermi in suppliche e grida, ma quando sentii la forzata
gentilezza di quella domanda mi rilassai un poco e feci cenno di si.
-In quel
punto pascolano delle splendide pecore, che hanno la lana
d’oro. Voglio che tu
mi porti da là al più presto, in qualunque modo
tu riesca a procurartelo,
ammazzandoti, se è necessario, un fiocco di lana di quel
prezioso vello. È
tutto chiaro come il sole?-
-Si-
pronunciai flebilmente.
Ero scesa
dalle rocce dell’Olimpo. Naturalmente Afrodite non mi aveva
portato nel bosco
sollevandomi col vento, ma avevo dovuto scarpinare un bel po’
per la montagna e
la foresta.
Avevo
acconsentito a scendere non perché mi ci avessero costretta,
ma perché ardivo
di porre fine alle mie sofferenze gettandomi al più presto
nel lago.
Era
mezzodì, il sole era cocente, sotto il peplo ero tutta
sudata.
Mi
trovavo sull’altra sponda del lago rispetto a dove
pascolavano le pecore d’oro.
Avevo
sentito parlare di quelle pecore: avevano corna molto appuntite, fronti
dure come
le pietre, e persino morsi avvelenati. Attaccavano qualunque creatura
umana vedessero.
C’era una
tratto melmoso della riva, pieno di canne, suonatrici delle melodie del
vento: dovevo superarlo per gettarmi nella zona più profonda del
lago e annegare.
Mi misi a
spostare le canne con le braccia.
Ad un tratto
un soffio lieve le fece suonare a lungo e dolcemente e nella loro
melodia
distinsi una voce più sottile di quella del vento.
-Nooooooooooo-
cantavano tranquillamente.
-Psichheeeeeee,
noooooooo. Nooooon esseeeere scioooooooca. Peeeeer prendeeeeere laaa
laaaaanaaaaaa
aspettaaaaaa laaaaa seeera, quaaaaando le peeeeeercoooooooreeeeeeee saaaaaraaaanoooo
andaaate
viiiiaaaaa, trooooooooveraaaaaai batuffooooooli doooooratiiiiiii
traaaaa iiiii
raaaaaaaamiiiiiiii eeeee iiiii cespuuuuuuugliiiiii-
Ascoltai
ciò che capii dai lunghi mormorii delle canne, e mi misi
all’ombra di un
platano ad aspettare la sera.
Quando le
pecore se ne furono andate mi misi a cercare tra i bassi rami, come mi
avevano
suggerito le canne, e trovai molti fiocchi morbidi e dorati. Li
raccolsi tutti
nel vestito e mi rimisi sulla strada dell’Olimpo.
-Imbrogliona!
Anche di quest’opera prodigiosa io so chi è
l’autore segreto! C’è sempre lo
zampino di quel mio figlio indegno! Sto seriamente pensando di
diseredarlo!
Niente più poteri! Niente più alucce per andare
in giro per il mondo a
innamorarsi di insipide e insignificanti fanciulle! Ma dove ha gli
occhi quel
mio figlio!-
Avevo
ancora in mano i fiocchi vaporosi mentre Afrodite si era completamente
dimenticata di me e andava parlando a se stessa degli errori che aveva
fatto
crescendo il suo figliolo, e di quanto lo avesse viziato, e di quanto
lei lo
avesse sempre accontentato, e dei suoi dispetti e della sua
ingratitudine…
-Ah! Mi
fa sempre perdere il filo! Quel brigante! Ecco! Torniamo a te!- disse
come ricadendo
nella realtà.
-È il
tramonto, è vero, ma per una maga come te non
sarà difficile portare a termine
anche questa prova. Voglio sapere se sei davvero dotata di animo audace
e di
straordinaria prudenza-
Mi
ricondusse strattonandomi alla finestra.
-Vedi
la
cima di quell’erto monte, che sovrasta quella montagna
altissima e dirupata- mi
additò, non troppo lontano, un monte scosceso fin quasi ad
apparire verticale -Da
quella cima scaturiscono le acque oscure di una nera sorgente, e
raccogliendosi
in fondo alla valle vicina, scendono a irrigare la palude Stigia e ad
alimentare la cupa corrente di Cocito. Tu devi salire fino al punto
dove la
sorgente scaturisce freddissima dalla terra e riportarmi questa piccola
urna
piena di quell’acqua-
Mi porse un vasetto di cristallo colorato
aggiungendo –Vedremo, vedremo. Non osare tornare con questo
vasetto vuoto!- nei
suoi occhi passò un lampo maligno e sanguinario e i lati
della bocca si
tirarono su in un sorriso orribile.
Quando giunsi
nelle vicinanze della cima, subito mi
accorsi della mortale difficoltà dell’impresa.
Infatti una rupe altissima, scoscesa e inaccessibile
rovesciava dal mezzo di una spaccatura quell’acqua spaventosa
che, penetrando
per certi passaggi stretti e angusti, si precipitava fuori per le
fenditure e
scorreva giù lungo il declivio, cadendo invisibile nella
valle vicina.
Accanto ad essa, a destra e a sinistra, le facevano la
guardia dei terribile draghi che strisciavano e tendevano il collo
negli
anfratti della roccia, con gli occhi sempre aperti e le pupille
eternamente
intente alla luce.
Sentii quelle acque, che avevano il dono della parola
urlarmi “Vattene!” “Stai
attenta” “Non avvicinarti”.
Dentro di me sentii l’eco della minaccia “Farai una brutta fine”, che mi
continuavo a ripetere da quando mi ero messa in cammino.
Pietrificata davanti a tante difficoltà, atterrita dalla
mole di un impresa così impossibile, ero lì
presente col corpo, ma non con la mente,
che delirava spaventata, combattuta tra la paura per i draghi e quella
per
Afrodite.
Dovevo decidere in che direzione procedere, se tornare
indietro e morire frustata a sangue o andare avanti e morire in un
boccone per
i draghi.
Ogni volta che pensavo ad una delle minacce questa mi
sembrava la più terribile ed ero pronta a decidermi di
affrontare l’altra, ma
quando il pensiero si soffermava sull’altra ne era
spaventatissimo e ritornava
sulla decisione di affrontare la prima, che aveva appena scartato.
Ero persino priva dell’unico sollievo che mi dava
piangere.
Ma la sventura della mia anima innocente non sfuggì agli
occhi profondi della Provvidenza.
Sopra di me sentii il verso dell’uccello regale del sommo
Zeus, l’aquila.
Alzai il viso e la vidi planare su di me ad ali spiegate.
Mi atterrò davanti, puntando quella sua testa bianca e
quei suoi occhi acuti su di me, così che non
c’erano dubbi su chi il fato
volesse aiutare.
Era quasi un miracolo che le aquile si avvicinassero ai
comuni mortali.
Se lo facevano, si avvicinavano solo a gente cara agli
dei, e a quelli che visitavano portavano l’auspicio del
favore di Zeus.
-Son qui per onorare la potenza di Eros aiutando te- disse
l’aquila dignitosamente; era un uccello enorme e maestoso
anche quando non
volava –ricordo bene che Eros scelse me per rapire per conto
di Zeus il
coppiere Frigio, di cui si era innamorato. Aimè! Hai un
impresa ardua bella
Psiche. Purtroppo sei ingenua e ignara di queste cose.
Quell’acqua è spaventosa
e tremenda, non potresti neppure toccarla con le dita. Non ricordi che
queste
sono le acque temute dagli dei? Non hai mai sentito che, come voi
giurate sugli
dei, gli dei giurano sulle acque dello Stige, che vengono da questa
sorgente?
Dammi un po’ quella brocca-
Ero rimasta ad ascoltarla senza parlare e dunque le porsi
il vasetto di cristallo.
L’aquila lo prese nel becco e volò in alto,
scomparendo.
La aspettai per pochi minuti, poi essa ritornò con il vaso
colorato pieno.
-Sei un essere meraviglioso! Stupendo! Come hai fatto!??-
gridai prendendo il vasetto e tentando di abbracciare
l’aquila per la felicità.
L’aquila si scostò dignitosamente, sbattendo le
ali per
scacciare i miei abbracci.
-I draghi hanno tentato attaccarmi, ma a io mi sono
scostato, poi li ho beccati e gli ho detto, col vasetto nel becco, che
ero stato
mandato ad attingere acqua da Afrodite. Loro, con la soggezione che
hanno degli
dei, non hanno fatto una piega, ed io mi sono potuto avvicinare
all’acqua-
-Grazie! Grazie! Grazie! Non so davvero come ringraziarti!
Sarai l’uccello che venererò più di
tutti. Farò sempre sacrifici in nome di
Zeus e delle sue aquile!- dissi e
la leggerezza
che mi sentivo addosso per essere stata sollevata da un compito tanto
titanico
mi rendeva euforica.
Neppure quell’acqua riuscì a soddisfare la dea.
-Mi resta solo da credere- disse ironicamente –che tu sei
una strega capace di vere magie! Dunque tu superi ogni ostacolo con la
stessa
facilita con cui scavalchi un muricciolo. Bene. Posso allora assegnarti
l’ultima prova, bamboletta mia-
Prese il vaso che le avevo portato con l'acqua dello
Stige, lo scoperchiò e versò l’acqua
nel vaso di alcune rose, che appassirono
immediatamente.
Dunque mi porse l'oggetto.
-Va all’Inferno, domani- disse –e dì a
Persefone: “Afrodite
ti prega di mandarle un poco della tua bellezza, almeno quanta ne serve
per una
sola breve giornata. Perché quella che aveva l’ha
tutta consumata e finita per
curare il figlio ammalato”. E vedi di spicciarti
perché devo spalmarmela prima
di andare al consiglio degli dei. Non permetterò mica che tu
e il mio figliolo
mi facciate apparire più brutta tormentandomi con le vostre
ragazzate!-
Afrodite voleva che mi andassi a gettare direttamente
nelle bracci della morte; era questo il significato della prova ingrata
che mi
aveva assegnato.
Non sapevo come arrivare all’Inferno, l’unico modo
che
conoscevo era morire, ed Afrodite probabilmente lo sapeva.
Nessuna formichina, nessuna canna di fiume, ne una
maestosa aquila avrebbero potuto aiutarmi di nuovo.
Così andai su una rupe altissima, volevo tentare di
suicidarmi di nuovo, sperando che questa fosse la volta buona, quando
la rupe
cominciò a parlare.
-Disgraziata! Perché vuoi ammazzarti buttandoti
giù?
Perché senza reagire ti lasci sopraffare da questa terribile
ma anche ultima
prova?-
Comprensibilmente la mia bellezza e la mia triste sorte impietosivano
tutti, e tutti mi aiutavano, persino un’inanimata Rupe.
-Che dovrei fare! Le entrate del Tartaro io non le
conosco!- urlai al vento.
-Oh, ma dai! È solo una scusa per buttarti e farla finita!
Sai benissimo che quando, con la morte, la tua anima si sarà
separata dal corpo
affonderai negli infermi e non potrai più tornare indietro.
I tuoi tormenti
non avranno sollievo così, Psiche! Ascolta bene come entrare
nell’Inferno…-
La Rupe aveva parlato a Bora, e gli aveva detto di
sollevarmi per portarmi ad una città non lontana da
lì, Sparta.
Bora mi abbandonò all’entrata della
città.
Mi ero accorta di avere delle monetine in una tasca della
veste; dovevano essere rimaste per caso durante tutte le mie avventure,
dalla
notte che Eros era scappato fino a quel momento.
Potei comprare quel che mi serviva per il viaggio agli
inferi: due focacce d’orzo impastate con vino e miele e un
sacca per mettere
dentro queste e il vasetto vuoto di Afrodite. Mi rimanevano alcune
monetine.
Al confine di Sparta cercai, come mi aveva suggerito la Rupe, un
promontorio di nome Tenaro, in un luogo fuori mano e ben nascosto.
Li, secondo le sue istruzioni, si sarebbe dovuta
intravvedere una spaccatura profonda nella terra, da cui sarebbero
dovuti
salire fumi e puzza di zolfo.
La trovai. Cercando di non mettere i piedi in fallo,
riuscii a calarmi giù, con quei goffi movimenti che mi
permetteva il lungo
peplo stracciato.
Calandomi per le pareti diseguali di quella spaccatura, ad
un tratto sotto il piede sentii qualcosa di simile a un pavimento
roccioso.
Poggiai anche l’altro piede su quella base solida, mi
voltai e vidi la porta degli inferi, un arco basso e nero come
l’ossidiana.
Dietro l’entrata c’era una strada impraticabile
piena di rovi spinosi e
ragnatele.
Mi infilai due monetine in bocca, come mi aveva suggerito
la voce della Rupe, poi mi incamminai per quella strada destinata ai
morti.
Le spine mi graffiavano le cavigie e dalle ferite mi sgocciolava del
sangue. Alcuni morti saltavano fuori dai rovi per leccare le misere
gocce rosse dal sentiero.
Dopo un po’ di camminare incontrai il fiume infernale il
cui traghettatore era Caronte, l’esattore
dell’Inferno, un dio che non fa nulla
per nulla.
Persino i poveri che non possedevano niente se non le loro
ossa dovevano provvedersi dei soldi per il viaggio
all’Inferno.
“Infatti anche all’Inferno è viva
l’avarizia!"aveva
borbottato sinistramente la Rupe, mentre mi spiegava come attraversare
il fiume "Se le anime
non si
presentano con i soldi in bocca non gli danno neppure il permesso di
crepare”
-Caronte! Caronte! Ci sono delle anime quaggiù!- dissi
sventolando un braccio nella sua direzione.
Caronte, evidentemente abituato al silenzio e al lamento
dei morti, si voltò subito, sorpreso da quelle parole urlate
e di senso
compiuto.
Si avvicinò con la sua barcaccia, era un vecchio magro e
alto, col viso magro di teschio coperto da un cappuccio.
Quando la barca fu a riva si chinò su di me (aveva la
bocca simile a una caverna da quanto era sdentata) e mi sorrise di un
sorriso orribile.
-Non mi importa se sei viva o se sei morta- disse –Ma se
vuoi traghettare devi avere qualcosa per me, ragazzina- e tese la mano
col
palmo all’insù.
Io mi infilai le dita in bocca, presi una delle due
monetine da sotto la lingua e gliela misi nel palmo della mano.
Non persi tempo a salire sulla sua barca, adeguandomi al
silenzio dei morti.
Portati da una lenta corrente vidi nel fiume galleggiare
un vecchio, che mi chiese mormorando e tendendomi le braccia di
accoglierlo
nella barca.
La Rupe mi aveva avvisato che questo era un tranello di
Afrodite, perciò ignorai il vecchio, per quanto pietoso.
I morti infatti non parlano se il sangue non gli ha infuso
un po’ di vita.
Caronte riversò brutalmente le anime sulla riva opposta,
io scesi dopo di loro, attenta a non bagnarmi con le acque infernali.
Camminando per un breve tratto incontrai un enorme cane
con tre teste tutte identiche e di proporzioni più grosse
rispetto al corpo, la
cui bava colante allagava il terreno sotto di lui.
Con i suoi latrati assordanti rintronava le orecchie dei
morti, terrorizzandoli, ma non potendo fargli nulla poiché
erano incorporei. In tal modo
faceva la guardia alla soglia del nero atrio di Persefone.
Mi avvicinai a lui
con le mani sulle orecchie, e a debita distanza gli gettai una delle due
focacce.
Il mostruoso e informe cane si placò subito e, impegnato a
divorare la
focaccia, mi lasciò passare.
Feci tutto con estrema sicurezza perché seguivo alla
lettera le istruzioni della Rupe e mi fidavo ciecamente delle
sue parole.
Nell’atrio c’erano i troni di pietra di Ade e
Persefone.
Colsi la pensosa Persefone in un momento in cui era senza
il suo sposo, seduta su uno dei troni gemelli, con le braccia stese sui
braccioli.
Mi era stato detto che mi avrebbe accolto con molta
urbanità. I re dei morti accolgono chiunque nella loro casa
infernale. Chi,
chiedo, è più ospitale della morte?
Chi accoglie chiunque nella propria casa?
-Cara fanciulla, ma tu sei una viva!- disse Persefone,
alzandosi tutta agitata dal suo scranno –cosa ci fai qui?
Porti un po’ della
bellezza di quel
mondo in questa valle di rovi, di lacrime e di morti che non
cercano altro che il sangue, pallido ricordo della vita? Ti invito a
parlare-
disse Persefone, dalle lunghe chiome nere e dagli occhi dolci di
pietà per
tutto ciò che aveva visto in quel luogo cavernoso.
-Regina- dissi inginocchiandomi, con le mani unite e il
capo chinato –T-ti…prego, non farmi alcun male.
Vengo qui per conto di
Afrodite, che ti porta i suoi omaggi e mi manda a chiederti un favore,
perché
solo tu sei…sei…in grado…- dissi con
la voce che cominciava a spezzarsi e la
sicurezza che vacillava.
-Non temere, bel fiore della terra di mia madre Cerere,
parla liberamente- disse con gran gentilezza
-Sono qui perché Afrodite ti chiede di prestarle un
po’
della tua bellezza, giusto quella che serve per il resto di questa
breve
giornata sulla terra. T-ti prego…- in mezzo alla frase mi
sfuggì un singhiozzo
al pensiero di quel che mi avrebbe fatto Afrodite
–mi…mi punirà
se…se…-
-Oh, no, non piangere, su, su. Dolce umana, non è
necessario che tu mi preghi o mi
impietosisca…io…te ne darò un
po’ sicuramente-
scese i gradini del suo trono e fece per cingermi in un abbraccio, ma
la Rupe
mi aveva raccomandato di non farmi toccare, così mi scostai.
-Vuoi…vuoi…mangiare qualcosa?- chiese con tono
incerto.
Era la domanda traditrice da cui la Rupe mi aveva detto di guardarmi.
Chi
mangia il cibo dell’Inferno resta là per sempre.
Non era colpa di Persefone, non era sua intenzione
trattenermi là; erano semplicemente gli ordini del suo
sovrano, una legge
applicata con tutti. Stava a me evitarla. Era nella natura di quel
luogo cercare di trattenere ogni cosa che entrasse e di non farla
più uscire.
-No, no, non voglio nulla, ho le mie focacce- dissi e
dalla sacca tirai fuori il vasetto e glielo porsi –Vi prego,
potreste mettere la vostra bellezza
qui dentro?- chiesi.
-Certo- disse e sorrise dolcemente, osservandomi distratta.
Prese il vasetto ed uscì dalla stanza.
Ritornò col vasetto chiuso.
-Tu mi hai ricordato la mia casa natia, ti ringrazio
sentitamente- fece di nuovo per allungarmi una carezza, ma io mi
ritrassi
umilmente, lei ritirò tacitamente la mano e
continuò -Purtroppo in questo periodo abito in questa
dimora, ormai è già autunno cara, e io sto
qui, con Ade…- fece un breve sorriso –Ti auguro
buona fortuna-
-Grazie-
-Mi raccomando!- disse severamente –Non aprire mai, mai,
mai quel vasetto di bellezza. Fidati della mia parola, e non aprirlo.
Ora va.
Hai tutto quel che ti serve per tornare?-
-Si- dissi, mi inchinai e mi avviai per la soglia.
Risalii tutta la strada, placai il cane tricefalo con la
seconda focaccia, ignorai i richiami di ogni morto che tendeva la mano
per
cercare aiuto e pagai l’avaro traghettatore con la seconda
moneta che avevo in
bocca.
Attraversai la soglia del mondo dei vivi, accompagnata dalle
urla di invidia e
disperazione dei morti che mi videro uscire.
Risalii la spaccatura della terra.
Finalmente rividi la luce, talmente intensa che mi fece
male agli occhi.
Dalla gioia di essere tornata dall’Inferno sentii un
incredibile, rinnovata felicità di vivere
L’Olimpo non era lontano, potevo raggiungerlo entro fine
giornata, ma durante la strada, sebbene avessi fretta e fossi contenta
di
concludere il mio mandato, fui presa da una temeraria
curiosità.
Tirai fuori il vasetto dalla sacca, lo guardavo come se
potessi vederci dentro senza aprirlo.
“Come potrei non servirmi almeno un pochino di bellezza
divina?” pensai “Sarei più bella agli
occhi dei mio amato Eros. Perché dovrebbe
sprecarla Afrodite, che è già bellissima?
Sicuramente non si accorgerà se…”
questa curiosità mi assillò per tutto il viaggio.
Quando riuscivo a scacciarla
lei ritornava dopo un po’, con nuovi argomenti a suo favore,
e ogni volte io
ero sempre più tentata di assecondarla.
Alla fine il desiderio fu irresistibile e la resistenza
troppo debole per frenarmi.
Aprii il piccolo coperchio e sbirciai nel vasetto per
vedere che forma dovesse avere la bellezza.
Mi accorsi che dentro non c’era proprio niente, solo del
sonno, un sonno infernale proveniente dallo Stige.
Da un vasetto che sembrava vuoto cominciò ad uscire del
fumo, come da una pentola che bolle di cose disgustose. Il fumo
formò una
nebbia attorno a me e mi sentii stanca come se dovessi recuperare il
sonno di
mille anni.
Mi scordai chi ero, e che cosa stavo facendo. Mi limitai a
cercare un giaciglio e a poggiare il vasetto accanto a me (avevo come
il
nebuloso presentimento che fosse importante!). Mi addormentai di colpo,
di un
sonno profondo in cui cadono solo i cadaveri.
Sentii il
sonno sparire lentamente dal mio corpo come al risveglio da una lunga
notte.
Quando aprii gli occhi vidi le foglie che avevo usato come
guanciale.
Mi rigirai nel mio giaciglio e vidi una figura d’uomo, molto
giovane, che fendeva la nebbia con le braccia per scacciarla da me.
Non so come riuscì ad acchiapparla tutta e a rimetterla
nel contenitore da cui io l’avevo tirata fuori.
Quando l’ uomo si girò e lo guardai bene in viso
mi
svegliai completamente come se mi avessero gettato dell’acqua
fredda in faccia.
Basita non riuscii a dire o a fare niente, se non a
provare un profondo stupore e una profonda dolcezza, mentre Eros mi si
avvicinava con in mano il vasetto di Afrodite.
-Ah Psiche!- disse lui esasperato con quella sua solita
voce un po’ di rimprovero e un po’ di scherzo che
amavo tanto –Sei di nuovo
caduta vittima della curiosità! Speriamo che questa seconda
volta ti serva di
lezione più della prima- si abbassò alla mia
altezza e mi baciò la bocca.
-Vedi che sono guarito dalla mia piaga? Mi sento
incredibilmente bene. Ma ora va a finire la prova che ti ha dato mia
madre. Io
penso a supplicare Zeus-
-Supplicare….Zeus…- feci eco, ancora un
po’ frastornata
dalla nebbia soporifera.
-Tu aspetta un oretta o due e vedrai cosa un dio riesce a
fare in questo breve tempo- mi porse il vasetto, si alzò,
spiegò le ali
rinvigorite dal riposo e spiccò il volo più
veloce e meraviglioso che mai.
Mi sembrava di essere ritornata ai primi tempi in cui Eros
mi aveva accolto nel suo palazzo divino, tanto alte erano le vette
della mia
felicità.
Ogni volta che pensavo che lui era guarito e che mi aveva
salvata avevo voglia di gridare di gioia, di correre, di cantare, di
mettere la
forza inesauribile del mio amore in qualche attività.
Scalai di nuovo l’Olimpo.
Quando incontrai di nuovo un’Afrodite sbigottita sulla
soglia le schiaffai in faccia un gran sorriso e le porsi il dono di
Persefone.
Afrodite somigliava così tanto a suo figlio che quasi quasi
sentii amore anche per lei.
All’improvviso squillarono le trombe del cielo, che ci
distolsero da un momento di imbarazzante silenzio in cui Afrodite stava
elaborando qualcosa da dire.
Dalla vetta dell'Olimpo scese Hermes, il messaggero dai piedi alati, il
più
intelligente degli dei, il furbo, il viaggiatore, il ladro.
Atterrò davanti ad Afrodite e le porse un rotolo.
-Afrodite! Bellezza degli dei! Porto un messaggio da
Zeus, è molto urgente. Chi non si radunerà sul
punto più alto del monte Olimpo
prima di sera riceverà una salatissima multa.
Come in ogni momento di imbarazzo mi ritrovai a fissare il
pavimento e a lambiccarmi il cervello per rispondere.
-Oh! Ho capito! È lei! L’amante di Eros!
Fortunato! Anche
tu devi presentarti. Si parlerà di te- aggiunse Hermes.
-Che ha a che fare lei col nostro concilio?- chiese indispettita
Afrodite.
Hermes fece un sorriso
veloce e furbesco, un sorriso che lasciava intendere di sapere molte
cose, ma di non voler dire di più.
Spiccò il volo con i suoi calzari alati verso la cima del
monte.
Afrodite
chiamò Bora e Bora ci sollevò fino alla dimora di
Zeus.
Atterrammo in una sala ampia e circolare con uno sbuffo di
vento, al centro della quale c’era il trono del Padre di
tutti gli dei.
Attorno allo scranno del grande signore dei cieli c’erano
quelli di tutti gli altri dei.
Afrodite occupò il suo posto, lasciandomi sola in mezzo
alla sala, proprio davanti al seggio di Zeus.
Alla destra di Zeus c’era Eros, che mi indicava al potente
dio e confabulava con lui mentre tutti gli altri dei arrivavano da ogni
parte
della Grecia e si sedevano ai loro posti.
Quando Zeus smise di parlare con Eros e tutta la sala fu
piena, il capo degli dei mi fece cenno con la mano di avvicinarmi e
disse con la voce profonda
del tuono –Vieni-
Le viscere mi si liquefecero a quel comando secco.
Esitante mi avvicinai al dio,
tentando di ignorare che, se avesse voluto, avrebbe potuto incenerirmi
con la forza di uno sguardo bieco.
Quando gli fui abbastanza vicino mi guardò con piglio severo
ed io mi inginocchiai in segno di rispetto.
-Non inginocchiarti!-
Balzai subito in piedi. Tutto il teatro delle riunioni del
cielo era pieno e stava assistendo alla mia vergogna.
-Eros è lei? La riconosci?-
Eros sorrise –Non c’è nessuno,
né sull’Olimpo, né sulla
terra, che le assomigli!-
-Bene, allora non possiamo sbagliare. Tutti gli dei
facciano attenzione! Ho qualcosa da dire per conto del mio signor
figlio Eros!- disse con tono un po’
scherzoso e un po’ minaccioso.
Si schiarì la voce e parlò:- O dei, coscritti
nell’albo
delle Muse, tutti sapete che questo ragazzo- e additò Eros
–è cresciuto
praticamente nelle mie mani. Ormai costui si è scelto una
sposa, chiaramente
dopo aver ben soddisfatto tutti i suoi ardori giovanili, ma questo fu
un altro
tempo, un'altra era. Come ho già detto e ribadisco egli si
è già scelta la sua
ragazza, e l’ha anche privata della verginità: se
la tenga, se la sposi, e tra
le braccia di Psiche goda eternamente l’amore. Non
accetterò nessuna protesta!-
poi si rivolse ad Afrodite, la quale era diventata rossa come una
fragola ed
era stata esattamente sul punto si
esplodere in proteste.
-Zitta figlia! Capisco il tuo dispiacere! Tu non vuoi che
il matrimonio si celebri tra persone di diverso rango. Un dio e un
mortale! Ma
certo! Hai ragione! Nemmeno io mi sognerei una cosa simile! Ed ecco
perché…-
in quel momento entrò un coppiere un una coppa
così colma di ambrosia che il liquido divino
sgocciolava dall’orlo –provvediamo immantinente a
rendere questa bellissima
fanciulla immortale-
Eros sbatte le ali per l’entusiasmo e fece un gran sorriso
nella mia direzione.
Per la sala del concilio si diffuse un brusio di
approvazione.
Io spalancai gli occhi per la sorpresa e fissai la coppa
come se al posto suo sul vassoio ci fosse uno strumento chirurgico con
cui mi
avrebbero asportato qualche cosa.
Io, immortale...
Io era una ragazza semplice, modesta. Non avevo mai
nutrito sogni tanto rosei.
Mi era sempre sembrato assurdo persino immaginare una cosa
simile, e dunque non ci sono parole umane per descrivere
l’incredibile paura e
l’incredibile gioia che provai nel vedermi offrire quella
coppa.
Eros scese dallo scranno ci Zeus, mi si mise accanto e mi
prese la mano per farmi coraggio.
-Come hai fatto?- domandai
Eros si avvicinò al mio orecchio e bisbigliò
– Vedi…gli
ho spiegato la
situazione, l’ho pregato, gli ho raccontato tutto
ciò che avevi passato
affinché stessimo insieme e lui ha detto, cito a memoria:
“In considerazione del
fatto che ti ho cresciuto io, e per non venir meno alla mia nota
bontà, farò
tutto quello che mi hai chiesto tu. Ma in cambio, se ci fosse qualche
fanciulla
particolarmente bella sulla terra, sai bene qual è il tuo
dovere: portarmela
qui in cambio del piacere che ti faccio!”-
Scoppiai a ridere e lo baciai
sulle labbra.
Zeus prese la coppa dal vassoio
del coppiere, scese dal suo scranno e si diresse verso di noi.
Mi porse la coppa con quelle
sue grandi mani e tuonò allegro –Bevi, Psiche, e
sii immortale! Eros non sarà
mai sciolto dal vincolo che lo unisce a te, e mi par di capire- diede un occhiata agli occhi
innamorati con
cui Eros mi guardava –che lui nemmeno lo voglia. Da oggi voi
due siete sposi
per tutta l’eternità!-
Poi veniva Giove con
la sua Giunone, e poi di seguito, in ordine, tutti gli altri dei.
Fu offerto il
nettare, che è il vino degli dei: a Giove lo serviva quel
pastore fanciullo, suo
coppiere, agli altri Bacco. Vulcano cuoceva il pranzo, le Ore
spandevano
tutt’intorno una pioggia di rose e di altri fiori colorati,
le Grazie
spandevano profumi e le Muse facevano risuonare i loro canti armoniosi.
Poi
Apollo cantò accompagnandosi con la cetra, Venere
danzò graziosamente in una
danza leggiadra: si era formata come un’orchestra, dove le
Muse cantavano in
coro e suonavano i flauti, mentre Satiro e Panisco soffiavano nella
zampogna.
Così Psiche divenne
sposa di Amore secondo le prescrizioni del rito, e quando il tempo per
il parto
fu terminato nacque loro una figlia che noi chiamiamo
Voluttà.*
…Fine.
*Da
“Le metamorfosi” o “L’asino
d’oro” di Lucio Apuleio.
Non
ho parole per scusarmi di tutte le battute che ho preso dal testo
originale di “Amore
e Psiche”. Naturalmente la maggior parte sono di mia
invenzione, diciamo che
1/8 delle frasi dette dai personaggi le ho prese dalla nota opera.
Scusatemi anche per il capitolo infinito. Ho fatto di tutto per mettere
quello che restava da raccontare in un solo capitolo. Altrimenti avrei
dovuto farne cinque e avevo già promesso che Eros
avrebbe salvato Psiche in questo
capitolo. Non potevo rimangiarmelo.
Sentite, lo so che il capitolo è lungo, ma potreste
recensire, almeno.
Ringrazio sentitamente
- ilary_chan
(che ha messo la
storia tra i preferiti)
-MissProngs (che
ha
messo la storia tra quelle da ricordare)
-
Michelegiolo
- Sachi
Mitsuki
- Selhin
- simplyunica
- uranian7
( che
hanno messo la
storia tra le seguite)
Ecco,
ho finito. Tutto è stato detto, tutto è stato
fatto, non mi pare ci sia più nulla
da spiegare.
Vi
saluto. Resto in ansiosa attesa che la mia dea Ispirazione venga a
sussurrarmi all’orecchio
qualche altra idea. Tremate, tremate!
Bye Bye
trullitrulli.
Sachi Mitsuki:
Eco e Pan erano già presenti nel mito originale. Naturalmente ne ho dovuti togliere altri, come Giunone e Demetra. Nel mito Psiche si recava prima nel santuario di Cerere e poi nel santuario di Era per chiedere ospitalità e aiuto. Le due dee, per non attirarsi l'ira di Afrodite, le rifiutano ogni aiuto. Questa parte mi è sembrata superflua e l'ho tolta, dando spazio al dialogo con Pan.
Grazie dei complimenti, sono contenta che ti sia piaciuta le fic.
Norine:
Strano che Eco faccia a tutti tenerezza, non avevo pensato che potesse dare una qualche impressione, l'avevmo messa così, era appena una comparsa, perchè Pan doveva fare qualcosa quando incontrava Psiche. Si forse ho esagerato a far predere a calci Psiche, ma in questo capitolo ho fatto di peggio, con le frustate e gli schiaffi e Afrodite che la solleva per il collo del peplo e la sballotta da tutte le parti. Insomma, diciamo che Afrodite non gliel'ha lasciata superare gratis. Grazie anche a te per la recensione.