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Autore: Irina_89    13/06/2010    3 recensioni
“Ecco, lo vedi?” fece Simone.
“Cosa?” rispose brusca lei. Non era sua intenzione rivolgersi a Simone con quel tono, ma non sopportava che lei la trattasse così.
“Hai bisogno di riposarti.”
“No, ho solo bisogno di stendermi.” Replicò la rossa.
“E non è la stessa cosa?” alzò un sopracciglio la donna.
“No.” rispose decisa Inge. “Non è la stessa cosa.”
“Inge,” roteò gli occhi. “Perché non metti da parte la tua testardaggine e lasci che ti si aiuti?” il suo tono era leggermente più irritato.
“Perché non ne ho bisogno!” insistette lei, muovendo le mani scocciata.
“Scommetto che non l’hai ancora detto a nessuno.” Disse improvvisamente, senza, però, cambiare il contesto del discorso.
“E allora?” si stava arrabbiando. Le faceva sempre questo effetto stare con Simone a parlare di queste cose. Anche due settimane fa, quando venne per stare un po’ con Alex, le fece una paternale del genere ed Inge si dovette controllare per evitare di tirarle qualcosa addosso. Non che fosse insopportabile, anzi! Simone era una delle persone più belle al mondo. Disponibile, sempre carina… Insomma, era fantastica, ma quando entrava in questo argomento – e il più delle volte anche senza entrarci, bastavano i suoi occhi saccenti ed eloquenti in un qualunque momento della giornata – la ragazza si sentiva messa alle strette, come se non avesse altra scelta che fare come voleva lei.
[Sequel di Just A Kid]
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Home'
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Another Baby Is Dawning

Another Baby Is Dawning

 

 

Even A Mother Should Know

“Siamo a casa!” esclamò allegro un esile ragazzo, entrando nell’ingresso della casa.

“E siamo affamati.” Aggiunse un altro dietro di lui. Era la sua copia esatta, se non fosse stato per quei vestiti in cui navigava esageratamente dentro, quei capelli rasta, quell’andamento svogliato…

“E avete ospiti.” Avvisò il terzo, entrando.

“E non mi viene più niente da dire…” ridacchiò il quarto ed ultimo.

La ragazza, sdraiata sul divano, si mise seduta e guardò alle sue spalle.

“E guai a voi se lasciate tutte le borse a giro nell’ingresso!” Li salutò come sempre, mentre gli altri – tranne uno –, che avevano appena posato tutto immancabilmente nell’ingresso, ripresero le borse e le misero in un angolino tutte vicine. “Come è andata?” aggiunse.

“Siamo sopravvissuti anche oggi.” Commentò quello con i rasta, l’unico che non aveva prestato attenzione alla minaccia della ragazza riguardo alla borsa. Si avvicinò a lei e le si sedette accanto. Presto anche gli altri li raggiunsero e si accomodarono nel salotto. “Ma, sai,” continuò, passandole un braccio intorno alle spalle ed avvicinandola a sé. “David Jost non è mai facile da sopportare.”

La ragazza si sottrasse a lui e lo guardò truce. “Se non togli la borsa dall’ingresso, la tolgo io e non la rivedrai più.” Sorrise superiore.

Il ragazzo sbuffò, dandole una leggera spinta sulla spalla e si alzò. Prese la borsa e tornò verso la ragazza, che gli dava le spalle. Noncurante, fece cadere la borsa sopra le gambe di lei, che trasalì spaventata e si voltò di scatto, riducendo gli occhi a due fessure.

“Tom, sai dove te la infilo la borsa, ora?” ringhiò.

“No, fammi capire.” La sfidò lui, sedendosi accanto alla ragazza.

“In cu-”

Tom la zittì, non come avrebbero fatto tutti gli altri miseri mortali, ma come avrebbe fatto un Sex Gott: posò le sue labbra su quelle di lei e le mordicchiò leggermente. Ma lei si allontanò subito. Certo, aveva aspettato un momento simile per tutta una giornata, visto che lui e suo fratello avevano dovuto uscire presto quella mattina, e lei era rimasta sola a casa. Aveva chiesto qualche giorno di ferie perché si sentiva stanca, ma aveva nascosto tutto agli altri, dicendo che erano ferie che doveva obbligatoriamente prendere per legge. Le avevano creduto, lamentandosi sul motivo per cui a loro queste non erano concesse.

“Non puoi sperare che ogni volta tu l’abbia vinta facendo così!” L’accusò, rovesciando la borsa sul pavimento con una spinta. A Tom questo suo gesto risultò totalmente indifferente.

“Ma ci riesco, no?” le sorrise soddisfatto.

Lei lo guardò truce. Sì, ci riusciva. E anche troppo bene. Si morse un labbro per non far trapelare un sorriso – doveva mantenere la sua posizione – e si alzò per posare la borsa del rasta insieme a quelle degli altri, quindi tornò al suo posto.

“E tu, Inge?” si informò il ragazzo dai corti capelli biondi, seduto sulla poltrona affianco a lei. “Cosa hai fatto?”

La ragazza si allontanò leggermente dal Tom che l’aveva avvolta in un abbraccio, stringendola stretta a sé e si sistemò i suoi lunghi capelli rossi e mossi in una coda.

“Be’, ho avuto anch’io le mie grane.” Sorrise dolcemente, per poi roteare gli occhi fino al soffitto, alludendo al piano di sopra. Non era vero, si divertiva con Alex, ma un’eccessiva esposizione all’energia di quel bambino rischiava di provocare seri danni, come un’immensa stanchezza che si propagava dalla punta dei piedi a quella dei capelli.

“Ah, già!” si ricordò il rasta, dandosi una pacca sulla fronte. “Dove è la peste?”

“C’è ancora tua madre di sopra. È con lei.” Fortunatamente. Da quando Simone era arrivata, aveva cercato di stare tutto il tempo a lei concesso con quel diavoletto. La faceva ritornare giovane, le aveva confessato una volta a pranzo. E chi era Inge per impedirle di distruggersi psicofisicamente a rincorrere un demonio di cinque anni per la casa per una giornata intera? Nessuno. E infatti la lasciava divertire con suo nipote, ottenendo in cambio delle preziose ore di riposo, motivo per cui, in fondo, rimaneva a casa. Chissà, forse Simone sapeva ed era tornata da loro in anticipo di un paio di settimane dall’usuale visita successiva apposta. Dopotutto, non si poteva nascondere niente a Simone. In un modo o nell’altro, quella donna riusciva sempre a sorprenderla. Inge non sapeva cosa le passasse per la testa, ma si rendeva conto che ciò che Simone faceva, l’aiutava sempre. In un modo o nell’altro.

 

***

 

Tom portò lo sguardo al soffitto e sorrise, ricordandosi il modo in cui sua madre era venuta a sapere dell’esistenza di quel piccolo diavolo in casa loro.

Arrivò un giorno di Febbraio per fare una sorpresa a tutti loro. Aveva già saputo della presenza della rossa in casa loro – e soprattutto del suo carattere – ma non aveva la minima idea che quella casa si fosse espansa ulteriormente. La sorpresa, quindi, la ricevette lei. Quando aveva suonato, suo fratello era andato ad aprire zampettando dalla cucina, senza sospettare la sua visita. Non appena se l’era ritrovata davanti, il tipico sorriso di circostanza che mostrava ad ogni ospite si volatilizzò all’istante, lasciando il posto ad una mandibola pericolosamente tendente al terreno.

“Mamma!” aveva esclamato tra la sorpresa e la paura, aprendole il grande cancello di ferro. “Cosa ci fai tu qui?”

“Sono venuta a trovarvi, no?” aveva risposto lei ovvia, entrando e posando un paio di borse che portava con sé. “Ci siamo visti pochissimo in questi anni, presi come eravate dai vostri impegni!” e lo aveva abbracciato, stritolandolo in una morsa materna. “Mi concedete solo telefonate.” Si era rattristita, guardandolo puoi languidamente negli occhi. Da qualcuno Bill doveva pur aver preso… “Ma sono vostra madre, no? Avevo voglia di vedere sia tu, Bill, che Tom. E naturalmente anche Inge!” Gli aveva infine sorriso solo come una madre sapeva fare.

Il ragazzo si era trovato a boccheggiare. Non sapeva che dirle, non avevano mai affrontato “l’argomento Alex” con lei. Certo, sapevano che sarebbe arrivato il momento, ma non avevano mai pensato che quel momento sarebbe saltato fuori così improvvisamente e senza preavviso! Piuttosto si aspettavano la visita di qualche loro fan, che da qualche tempo a quella parte avevano iniziato a sospettare della loro collocazione e si aggiravano nei paraggi sfacciatamente. Bill aveva, quindi, tossito per evitare di far cadere un silenzio pericolosamente e spaventosamente imbarazzante e lo aveva chiamato.

Tom aveva risposto svogliato come al solito, ed aveva sceso le scale. Sopra c’era Inge che stava cercando di far fare il bagno al bambino, e in quel preciso momento lo stava sciacquando con addosso una avventata maglietta bianca ormai bagnata, che lasciava generosamente vedere al ragazzo il piccolo ma ben apprezzato reggiseno. Era sceso contro la propria volontà – spronato da Inge –, prendendo nota mentale che si sarebbe rifatto alla prima occasione, ma non aveva avuto il tempo di crogiolarsi in quelle fantasie che i suoi occhi si trovarono fissi in quelli della madre, a pochi metri da lui. Il suo cervello era andato in black-out e tutto ciò che riusciva a pensare era il guaio che lo avrebbe indubbiamente aspettato di lì a pochi minuti. Tutto il resto del corpo non esisteva più. Era totalmente paralizzato.

Una saccente vocina – per niente richiesta – dentro di lui lo stava sfacciatamente accusando di essere un cretino. Dopotutto come aveva fatto in tutto questo tempo – tre miseri mesi – a non dire niente alla madre? E proprio quell’accusa ebbe la forza di far ricollegare il suo cervello: il primo pensiero fu l’immagine di se stesso che strozzava suo fratello per non aver mai la testa di guardare prima dallo schermo del citofono.

Nemmeno gli costasse chissà quale spreco di calorie!

“Mamma!” aveva esclamato dopo quegli istanti di silenzio. Purtroppo, la sua voce non era riuscita a nascondere il terrore che già si stava impadronendo di lui, a partire dalla testa fino alle gambe leggermente tremanti.

“Tom, che succede?” si era insospettita lei, avvicinandosi a lui. Lo aveva analizzato da capo a piedi e, sempre più sospettosa, gli si era fermata davanti.

“N–niente, mamma.” Aveva sorriso nervoso. “Cosa dovrebbe succedere?”

Lei lo aveva fissato ancora un po’, per poi essere interrotta dal rumore di alcuni passi che goffamente scendevano le scale.

“Alex, no!” aveva urlato Inge dal piano di sopra, scendendo pure lei. “Aspetta! Ti devo ancora asciugare i capelli!”

Ma fu impossibile fermarlo. Il bambino, infatti, aveva barcollato verso il ragazzo, per poi soffermarsi dietro ed iniziare ad osservare la donna dai corti capelli biondi che era entrata in casa loro. Aveva piegato la testa leggermente di lato, inconsapevole del silenzio e della tensione che aleggiava nell’aria. Inge era arrivata caoticamente nell’ingresso, sistemandosi meglio la maglietta asciutta che aveva indossato, e si era immobilizzata a sua volta, trattenendo il fiato, proprio come avevano già fatto loro due.

Il silenzio si era fatto assordante.

Se Tom avesse voluto piangere, quello sarebbe stato il momento giusto.

“Chi è lei?” aveva, poi, chiesto Alex, tirando la lunga maglia di Tom per un lembo. La sua voce era innocente e ovviamente inconscia del fatto che aveva appena acceso la miccia di una bomba.

La donna gli si era avvicinata, sgranando spaventosamente gli occhi ad ogni passo che l’avvicinava al bambino. Aveva iniziato a balbettare parole incoerenti, che avevano fatto capire a tutti i presenti che per nessun motivo avrebbe potuto non riconoscere quei lineamenti. Si era poi inginocchiata davanti ad Alex, che l’aveva guardata leggermente intimorito, nascondendosi dietro le gambe di Tom. Poi aveva alzato gli occhi sul figlio che aveva vicino.

“Cosa vuol dire?” aveva sussurrato in stato apatico.

Inge si era seduta sugli ultimi scalini e si era iniziata a dare dell’idiota sommessamente per aver permesso ad Alex di scappare al piano di sotto, coprendosi il viso con le mani. Bill non aveva osato muoversi, osservando la scena con le gambe tremanti. Tom aveva guardato sua madre negli occhi con tutta l’aria di voler cambiare discorso al più presto, un sorriso tirato dei peggiori. La donna aveva, poi, rivolto lo sguardo a Bill, che le aveva mostrato la stessa espressione del fratello. Si era, quindi, alzata e con passo incerto si era diretta sul divano, sprofondandoci dentro quasi fosse come privata di tutte le sue forze. Bill le era corso dietro, impaurito per la sua reazione e Tom era rimasto nell’ingresso, mentre Alex lo tirava per la maglia per avere una risposta.

Solo in quel momento si era deciso a rispondere. E non solo ad Alex. Aveva preso il bambino in braccio e si era avvicinato alla madre a passi decisi.

“Alex,” aveva sorriso guardandolo, posizionandosi davanti alla madre. “Questa è la nonna.” E gli aveva indicato Simone.

Il bambino aveva sorriso. Non aveva mai avuto una nonna e per lui, evidentemente, quella era stata senza dubbio una bella novità. La donna, invece, era rimasta apatica per qualche istante prima di comprendere pienamente le parole del figlio. Infine, però, si era alzata e aveva guardato il nipote. Tom non era riuscito subito a decifrare il suo sguardo, sembrava, infatti, inespressivo.

E poi era successo: Alex aveva allungato le piccole braccia verso di lei e si era divincolato dalle braccia del padre per abbracciare la nonna. Il viso di Simone si era illuminato e i suoi occhi erano tornati quelli di sempre, seppur con un velo di tristezza negli occhi. Ma a guardarla meglio, Tom aveva capito che non era tristezza, bensì dolcezza. Una rassicurante dolcezza.

Aveva preso Alex in braccio e l’aveva stretto forte a sé, sorridendo come se stesse riprovando le stesse sensazioni di quando poteva prendere in braccio i due gemelli. Lo aveva guardato con soffice e delicata tenerezza e lasciato un piccolo bacio sulla fronte.

“Ciao, Alex.” Lo aveva accarezzato. “Sai che sei bellissimo?”

Il bambino aveva riso, e tutta la tensione si era magicamente dissolta.

Ora, Simone faceva loro visita almeno una volta al mese per un fine settimana. Alloggiava nella stanza di fronte a quella di Tom, un tempo di Inge, mentre lei veniva gentilmente ospitata da Tom nella sua. Solo qualche volta erano loro ad andare a trovarla, supplicando Jost di concedere loro qualche week-end di riposo.

“Vado a fare un salto di sopra.” Annunciò Tom, alzandosi e dirigendosi verso le scale. “Potrebbe essere svenuta a causa dell’iperattività di quel diavolo.” Aveva voglia di stare un po’ con la madre, anche se avrebbe detto cazzate su cazzate prima di confessarlo apertamente.

“Aspetta, vengo pure io.” Disse Bill, inseguendo il fratello.

Gli altri tre osservarono i due ragazzi salire le scale e sparire al piano superiore.

 

***

 

“Ehi,” mormorò Gustav poco dopo, posando una grande mano sul braccio della ragazza. “Come stai?” chiese preoccupato.

Inge lo guardò confusa.

“Non capisco,” gli rispose sospettosa. “Perché me lo chiedi? Sto bene.” E gli sorrise. Purtroppo Gustav sapeva distinguere i suoi sorrisi. E quello era un sorriso di cortesia che lasciava trapelare delle parole precise: “Non chiedermi altro”.

Il ragazzo la guardò con uno sguardo eloquente senza dire più niente. Inge lo odiò per questa sua capacità di capire gli altri. Con lui non riusciva mai a nascondere niente. Non gli aveva mai detto niente riguardo i propri problemi – lei si teneva sempre tutto dentro, raramente si apriva con qualcuno - tuttavia Gustav sembrava ancora una volta aver capito.

“Allora?” insistette il ragazzo.

Inge sospirò. “Tranquillo. Sto bene.” Ripeté lei, portando i piedi sul divano e stendendosi contro il bracciolo, le mani sulla pancia e gli occhi imploranti di chiudere la conversazione.

“Sai,” intervenne Georg, che era rimasto ad osservare il breve e silenzioso dialogo tra di loro. “Penso di aver capito pure io.”

La ragazza, subito si girò verso di lui, sgranando gli occhi.

C’è ancora qualcuno che non ne sia al corrente? Si domandò sarcastica. Possibile che contrariamente a tutto ciò che faceva, riusciva solo ad ottenere il contrario? Sbuffò, afferrando un cuscino e stringendoselo al petto.

“Siete insopportabili quando fate così.” Borbottò. “Troppo saccenti per i miei gusti.”

I due ridacchiarono e Georg, scivolando sul divano affianco a lei, spostandole i piedi nudi per farsi spazio, le diede un pizzicotto sul braccio e sorrise rassicurante.

“Tranquilla, non diremo niente.”

Lei li guardò minacciosa: “Sarà meglio per voi.”

Poi Gustav sospirò, sempre con il suo gentile sorriso sulle labbra.

“Ci spieghi, però, perché lo vuoi nascondere?” si appoggiò allo schienale e aspettò che Inge smettesse di mordersi il labbro.

“Perché,” iniziò titubante. “Ci sono… Complicazioni.”

Georg e Gustav la guardarono perplessi.

“Vuoi forse…?” mormorò Gustav, con una vena di timore nella voce.

“Inge!” la ragazza trasalì, sentendo la voce di Tom che la chiamava dalla cima delle scale. “Mia madre ti vuole parlare. Vieni?”

“Eh?” rispose lei, prima che il cervello le metabolizzasse le parole di Tom. “Oh, sì…” e si alzò, leggermente instabile, buttando il cuscino addosso a Gustav che si era accorto dei suoi movimenti incerti e stava per aiutarla. Lo fissò per un nanosecondo, rendendo esplicita la minaccia: guai a te! Camminò velocemente verso Tom, che intanto stava scendendo, sempre seguito da Bill, e salì le scale. Raggiunse la stanza di Alex ed entrò, trovando la donna seduta sul letto del bambino che lo guardava dormire.

“Simone,” sussurrò Inge. “Che c’è?” camminò verso il letto di Alex e fece per sedersi, ma la donna la fermò e l’accompagnò nella propria camera, passandole un braccio intorno alla vita per sostenerla. “Ehi!” si lamentò la rossa. “Che fai?”

Simone sorrise e non la considerò.

“Guarda che sto bene! Non sono moribonda!” e si tolse il braccio della donna dal fianco.

“Quanto sei testarda.” Sospirò lei. “Volevo solo aiutarti.”

“A fare cosa, scusa?” ribatté Inge. “Guarda,” e si indicò le gambe. “Le vedi? Penso servano per camminare, sai?”

Simone sospirò ancora. “Sì, sì. Proprio testarda.” Poi sorrise. “Sei uguale a Tom, sai?”

Questa volta fu il turno di Inge per sospirare: non le piaceva ricevere così tante attenzioni. Non era mica invalida! Anche se quel periodo era un periodo decisamente particolare, non voleva dire che lei dovesse smettere ogni sua facoltà motoria. Non c’era mica bisogno che tutti le stessero col fiato sul collo. Sapeva da sola quando era stanca e sapeva da sola quando invece aveva la forza sufficiente per fare ciò che voleva.

Entrarono nell’altra stanza e si sedettero sul letto. Inge prese il cuscino e lo mise contro la spalliera per appoggiarcisi sopra.

“Ecco, lo vedi?” fece Simone.

“Cosa?” rispose brusca lei. Non era sua intenzione rivolgersi a Simone con quel tono, ma non sopportava che lei la trattasse così.

“Hai bisogno di riposarti.”

“No, ho solo bisogno di stendermi.” Replicò la rossa.

“E non è la stessa cosa?” alzò un sopracciglio la donna.

“No.” rispose decisa Inge. “Non è la stessa cosa.”

“Inge,” roteò gli occhi. “Perché non metti da parte la tua testardaggine e lasci che ti si aiuti?” il suo tono era leggermente più irritato.

“Perché non ne ho bisogno!” insistette lei, muovendo le mani scocciata.

“Scommetto che non l’hai ancora detto a nessuno.” Disse improvvisamente, senza, però, cambiare il contesto del discorso.

“E allora?” si stava arrabbiando. Le faceva sempre questo effetto stare con Simone a parlare di queste cose. Anche due settimane fa, quando venne per stare un po’ con Alex, le fece una paternale del genere ed Inge si dovette controllare per evitare di tirarle qualcosa addosso. Non che fosse insopportabile, anzi! Simone era una delle persone più belle al mondo. Disponibile, sempre carina… Insomma, era fantastica, ma quando entrava in questo argomento – e il più delle volte anche senza entrarci, bastavano i suoi occhi saccenti ed eloquenti in un qualunque momento della giornata – la ragazza si sentiva messa alle strette, come se non avesse altra scelta che fare come voleva lei.

Purtroppo Simone non sapeva che in quella casa c’erano già abbastanza problemi: poco meno di un mese fa, un giornalista che si era appostato presso la casa dei gemelli, aveva scattato delle foto di Alex che giocava nel giardino della casa. Quando David lo venne a sapere, fu terribile. Iniziarono a girare voci su un figlio di uno dei due Kaulitz – cosa nemmeno sbagliata – ma sollevarono un tale polverone che per qualche i ragazzi, Alex e Inge compresi, furono costretti a rimanere in casa. Ed ancora oggi qualche giornalista che li intervistava chiedeva di quel bambino che correva nel giardino con la palla in mano.

Poi era successo che Bill si lasciò sfuggire un particolare su un ospite che viveva a casa loro, e subito quelle sanguisughe di giornalisti collegarono l’ospite al bambino. Insomma, quelli erano problemi! Non il suo!

Simone sorrise dolcemente. Si avvicinò e le diede un piccolo bacio sulla fronte.

“Se avrai bisogno, sai dove trovarmi.” Ed uscì dalla camera.

Inge la seguì con lo sguardo, sentendosi in colpa per come l’aveva trattata. In fondo era vero: lei voleva solo aiutarla. Ma Inge non voleva essere aiutata. Il motivo era semplice: come aveva già detto, non ce n’era bisogno. Si strinse le mani sulla pancia e abbassò lo sguardo colpevole. Alla fine, però, avrebbe davvero voluto parlare di questa faccenda con qualcuno. Ma se poi fosse sfuggito qualche particolare di troppo, bè… No, sarebbe stato meglio aspettare. Certo, ma quanto? Il tempo non era un fidato amico.

 

***

 

“Inge?” chiese Tom alla madre, vedendola scendere da sola.

“È in camera mia. Era un po’ stanca.” Spiegò, sedendosi sul divano. Poi, sempre rivolta al figlio aggiunse: “Perché non vai da lei?”

Il ragazzo accettò il consiglio e salì le scale. Era qualche giorno – forse addirittura settimane – che Inge era strana. Non eccessivamente, ma delle volte i suoi comportamenti erano troppo calmi e cauti rispetto all’Inge ribelle che tutti avevano imparato a conoscere. Bussò alla porta e l’aprì, facendo capolino nella stanza. Inge era sdraiata contro la spalliera del letto e lo guardò. Lui quindi le sorrise, ma notò che i propri occhi, più che sorridenti, si mostrarono preoccupati.

“Ehi, posso entrare?”

Inge annuì.

Lui entrò e chiuse la porta alle sue spalle.

“Perché sei qui?” gli chiese la ragazza, sedendosi sul letto.

“Se vuoi me ne vado.” Rispose lui, fingendosi offeso.

“No, tranquillo, rimani pure.” Fece lei.

Una reazione che Tom non comprese. Di solito quando lui si mostrava in vena di battute lei non si lasciava sfuggire l’occasione di stuzzicarlo. Questa volta, invece, non aveva fatto niente. Anzi, aveva chiesto che restasse. Si sarebbe aspettato, invece, una risposta del tipo: “e allora vattene, mica ti ho chiesto io di entrare!” E lui avrebbe ribattuto: “Bene, allora se ti do fastidio, penso proprio che rimarrò.”

Insomma, c’era qualcosa che non andava.

“Ehi,” la chiamò, vedendo che Inge aveva abbassato lo sguardo. “Cosa ti prende?” E si sedette sul letto vicino a lei.

“È tua madre.” Confessò la ragazza.

Lui sospirò. “Lo so, delle volte è insopportabile, è appiccicosa, è fastidiosa, è -”

“No.” Lo fermò, guardandolo negli occhi. “Non è quello che voglio dire.”

“E allora?” si informò lui. “Cosa ti ha fatto?”

Inge sembrò pensarci un po’ prima di rispondere, ma la risposta non fu quella che Tom si sarebbe aspettato. Ancora.

“No, niente.” E abbassò lo sguardo sul letto.

Niente?” alzò lui un sopracciglio scettico. “Ogni volta che dici che non è niente, è sempre qualcosa.” La canzonò.

Lei sbuffò e lo guardò truce, mentre lui le rispondeva con uno sguardo malizioso.

“Ah,” sorrise scaltro. “Ora ho capito cosa volevi dire.”

Inge lo guardò per sapere cosa avesse capito e lui mosse il suo piercing con la lingua, avvicinandosi alla ragazza.

“Volevi dire che da quando c’è mia madre non hai il coraggio di creare momenti intimi ovunque come prima, eh?” le prese le spalle e la spinse delicatamente con la schiena sul materasso.

Inge parve sollevata da quella risposta e ribatté con il suo solito tono beffardo.

“O forse sei tu che non ci riesci?” lo sfidò lei, sorridendo come il ragazzo.

“Credi davvero che io possa imbarazzarmi per certe cose?”

Lei annuì convinta.

Lui schioccò la lingua. “Allora vuol dire che non mi conosci.”

“E ora?” insistette Inge, fingendosi preoccupata.

“Bè,” sogghignò lui. “Ora ti faccio vedere cosa sono capace di fare, visto che non mi conosci.” E si tolse la maglietta, per poi chinarsi sopra di lei. Le tolse dei ciuffi rossi dal viso con una mano e posò le proprie labbra sulle sue. Sembrò quasi che per un attimo Inge stesse facendo resistenza, ma Tom non ebbe nemmeno il tempo di pensare concretamente a quell’idea, che lei gli strinse le braccia intorno al collo e prese l’iniziativa.

Lo baciò con passione, per poi scendere sul collo. Lui, intanto, portava una mano sotto l’enorme maglietta – tra l’altro sua – che Inge indossava e prese ad accarezzarle il ventre. La ragazza ebbe un sussultò a quel tocco, ma presto si rilassò, continuando a baciarlo, togliendogli l’elastico che teneva i rasta in una coda.

“Ehi,” sussurrò con voce calda il ragazzo, abbassando la testa per poterla baciare sul collo, la mano sempre sul ventre. “Non sarai mica ingrassata.” E ridacchiò, per poi portare la mano verso il seno.

Inge sembrò trattenere il fiato per un istante, ma quando sentì la ristata del ragazzo sul proprio petto, si calmò. Era tanto che loro due non si concedevano un momento di così profonda intimità, per questo ora, niente e nessuno li avrebbe potuto dividere.

Ovviamente, furono le ultime parole famose: la porta cigolò e la persona meno adatta ad osservare quella scena si presentò davanti a loro, assonnato.

“Alex!” urlò Inge, spaventata. Diede un colpo a Tom, che rischiò di cadere dal letto e si allontanò da lui.

“Alex!” ripeté Tom. “Ma non stavi dormendo?”

“Mi sono svegliato.” Biascicò il bambino. “Ho fatto un brutto sogno.” E allungò le braccia per essere preso in braccio.

Tom lo accontentò e lo mise seduto sulle proprie gambe.

“Allora che si fa, ora?” gli chiese. “Vuoi venire giù a salutare gli altri?”

Alex annuì, sbadigliando. Tom scese dal letto con Alex in braccio e si diresse verso le scale, seguito da Inge.

Era strano. Non si sarebbe mai aspettato che la sua vita da padre potesse essere così. Certo, non si era nemmeno mai immaginato la sua vita da padre, ma se mai l’avesse fatto, di certo si sarebbe aspettato di avere come minimo quarant’anni. Ma poco importava, ormai. Nonostante la convivenza con suo figlio fosse iniziata praticamente nel peggiore dei modi, ora tutto si era risolto. E anche bene. L’unica inconvenienza erano i giornalisti, che ancora giravano intorno alla casa. Ma prima o poi tutto questo sarebbe stato di pubblico dominio. Purtroppo.

______________________________

Bu! Sorprese, vero? Ebbene, sì, sono tornata! :)

Momentaneamente sto scrivendo insieme a Kit2007 anche "Making The Video", quindi questa storia sarà molto lenta come aggiornamenti, ma qualcosa ho già scritto e quindi pronto per la pubblicazione. Insomma, che dire? Questo è il seguito di "Just A Kid", che a sua volta è il seguito di "Sopravvivere", e sebbene quest'ultima non sia proprio fondamentale per capire le due storie successive, "Just A Kid", invece, è abbastanza fondamentale, perché sarà proprio da lì che riprende la narrazione.

Be', spero che vi piaccia. Il tema di cui tratterà questa nuova FF è abbastanza noto, visto come si era conclusa quella precedente... Ma chissà cosa succederà! :)

Via, e ora vado a mangiare, visto che la fame si fa sentire!

Al prossimo aggiornamento!

Ps: il titolo sarebbe preso da "Cats", con il verso di una delle canzoni più belle e famose: "Another day is dawning", e in questo caso opportunamente modificato! :D

Ah, ovviamente: i Tokio Hotel non mi appartengono e con questo mio scritto non voglio dare rappresentazione veritiera della loro personalità. No scopo di lucro. u.u

Irina

  
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