Dedico
questa fanfic a chi mi ha sostenuto in questo periodo
difficile, a tutti coloro che l’hanno apprezzata, ai protagonisti che amerò
eternamente con tutto il mio cuore e ad una persona che forse non la leggerà mai… ma io non smetto di sperare in un suo ritorno, nella
possibilità di nuove condivisioni ^*^
UNITI NELLO STESSO DOLORE
Quando non sei in grado di combattere,
devi abbracciare il tuo nemico.
Se ha le braccia intorno a te,
non può puntarti contro un fucile.
(Dal film “7 anni in Tibet”, regista J. J. Annaud, 1997)
“Sai di poter compiere un
miracolo, Shun.”
Era impossibile, per il
santo di Andromeda, dimenticare le parole che Aphrodite, un tempo suo nemico,
gli aveva rivolto un istante prima di morire per la seconda volta, immolandosi
insieme ai compagni della massima gerarchia di Athena per la salvezza della
terra. Non poteva dimenticare le parole e neanche lo sguardo, così colmo della
dolcezza di chi, consapevole e sereno, va incontro al proprio destino affidando
a lui, santo di Andromeda, che sopravviveva, un compito sacro da cui dipendeva
la salvezza del mondo.
Aphrodite,
gold saint della costellazione di Pisces, si era fidato di lui, aveva letto
qualcosa in lui, il giorno in cui si erano affrontati, il giorno in cui Shun
l’aveva sconfitto.
E
l’aveva ritenuto degno di succedergli, di considerarlo un fratello minore, un
compagno con il quale lottare, spalla contro spalla, per preservare l’intero
universo dalle tenebre che lo minacciavano.
Nessuno
di loro aveva sperato in tanto: la terra era salva, l’eterno ciclo della vita
anche, i bronze saints erano sopravvissuti ed ai gold era stata concessa una
nuova rinascita, una nuova possibilità.
Ma
per un’anima sottratta ad un corpo, è difficile sostenere il ritorno alla
materia, il passaggio può rivelarsi distruttivo se non si è abbastanza saldi
per sopportarlo.
E
alcuni tra i gold avevano subito il contraccolpo, l’avevano incassato male, in
modo strano; o, per lo meno, Shun riteneva che certi bizzarri comportamenti
fossero dovuti a questo.
Si
era illuso, a pace finalmente ricostituita, che Aphrodite e lui avrebbero
potuto finalmente conoscersi davvero, essere realmente compagni al di là della
guerra, in una nuova esistenza di totale concordia; invece il santo di Pisces
lo ignorava del tutto, chiuso nella sua Dodicesima Casa rifiutava totalmente
ogni tentativo di approccio da parte del santo di Andromeda, che sperava,
quando si incrociavano per caso, o si scorgevano da lontano in varie occasioni
di ritrovo ufficiale, di vedersi rivolgere uno sguardo gentile, un saluto. E
invece, tutto ciò che otteneva, le poche volte che il viso di Aphrodite si
posava sul suo, era totale indifferenza, persino ostilità credeva di percepire
il gentile guerriero bambino.
Passando
nei pressi del colle delle Dodici Case non poteva fare a meno di rivolgere lo
sguardo verso l’alto, fino alla sommità, dove l’ultimo tempio dei custodi
adagiava tra le rocce le proprie forme eleganti e la tentazione di salire fin
lassù era elevata, ma la paura di essere accolto male lo frenava.
“Perché
è così importante per te?” gli chiese Hyoga un mattino, mentre passeggiavano
fianco a fianco e il santo di Andromeda si era ancora fermato, come ogni volta,
per sollevare il viso, fissando tristemente la vetta del colle sacro.
Il
ragazzino si strinse nelle spalle e abbassò lo sguardo, con un mesto sorriso:
“Perché
sento che dovrebbe esserci qualcosa tra noi, perché quel giorno, durante la
battaglia delle Dodici Case, ho percepito come un fluido… e quel medesimo
fluido è intercorso ancora tra noi davanti al Muro del Pianto… e in quel
momento, mentre lui scompariva insieme a tutti gli altri, l’ho pensato… che
avrei tanto desiderato poter rinascere insieme per attraversare una nuova
esistenza da compagni, da fratelli… perché ho sentito che siamo speciali, che
avremmo potuto esserlo, quanto meno, insieme…”
Il
santo del Cigno corrugò la fronte, ma Shun non si avvide dell’apparente
fastidio mostrato dal ragazzo più grande, il suo volto era sempre fisso a terra
e si scosse, con un risolino lieve e rassegnato:
“Sono
tutte parole inutili, in fondo, evidentemente ero l’unico a desiderare e a
interiorizzare tutto questo, la mia solita tendenza ad illudermi…”
“Shun…”
mormorò Hyoga, poi allungò una mano e la strinse sul polso del piccolo
compagno, deciso ad attirare la sua attenzione. “Ci siamo noi, i tuoi fratelli,
ci sono io! Perché prendertela tanto?”
Il
viso di Andromeda, finalmente, si sollevò e puntò sull’amico e fratello
un’occhiata stupita, perplessa:
“Ma
lo so che ci siete, Hyoga… questo non c’entra nulla, è… un’altra cosa…”
“Già”
brontolò Cygnus assumendo una buffa espressione imbronciata che fece traboccare
il cuore di Shun di tenerezza. “Il tuo immenso cuore che ha spazio per tutti!”
Anziché
ribattere qualunque cosa, Shun sorrise, gli gettò le braccia al collo e posò le
proprie labbra su quelle del guerriero dei ghiacci, sollevandosi in punta di
piedi per portare il viso all’altezza di quello dell’altro: Hyoga era cresciuto
molto negli ultimi mesi e il santo di Andromeda appariva davvero piccolo al suo
confronto. Il sangue giapponese che gli scorreva nelle vene aveva influito
sulla sua statura più di quanto fosse capitato ai fratelli, se si escludeva
Seiya.
Il
gesto del ragazzino sciolse completamente Hyoga, che lo avvolse in un abbraccio
e lo attirò contro di sé, stringendolo come un tesoro prezioso che rischiava di
sfuggirgli da un momento all’altro. Era diventato possessivo il santo del Cigno
e anche molto geloso; la tensione che serpeggiava tra lui ed Ikki, santo della
Fenice, era spesso palpabile. Shun era il fratellino adorato di entrambi e
anche il loro amore comune e se la situazione non degenerava tra loro, era
perché non volevano provocare ulteriori sofferenze all’animo sensibile di
Andromeda, già così provato da un destino che l’aveva costretto a lottare
contro la propria natura oltre che contro i nemici in battaglia.
Quando
si separarono, con grande disappunto di Hyoga, gli occhi di Shun gli sfuggirono
ancora, correndo verso la loro meta prediletta di quegli ultimi tempi.
“Ma
perché fai così? Non merita che tu ti struggi a tal punto, non capisco perché
poi!”
“Sento
che devo farlo!”
“Fare
cosa?”
In
risposta, Shun si sollevò ancora e gli stampò un veloce bacio sulla guancia,
prima di staccare dal compagno anche le mani e cominciare a dirigersi, in una
corsetta leggera, verso il colle:
“Devo
andare! Me lo suggerisce l’istinto!”
Sbigottito
da quell’impulsività dettata unicamente dai moti dell’animo e, dal suo punto di
vista, persino incosciente, Hyoga si affrettò a corrergli dietro e ad
afferrargli un polso, trascinandolo ancora verso di sé:
“Che
cosa ti sei messo in testa?”
“Devo
capire, Hyokkun, non posso più restare con quest’incertezza.”
“Ma
lo sai che sarebbe capace di farti del male se solo gli venisse voglia?”
Shun
dissentì con un cenno deciso del capo:
“Questo
non lo crederò mai! Lo sa che siamo compagni, si è consacrato ad Athena quel
giorno, al Muro del Pianto, non farebbe mai più qualcosa di male!”
“Perché
sei un tale illuso, Shun? Perché permetti che le persone continuino a ferirti?”
Il
santo di Andromeda aprì appena le labbra, ma non riuscì a dire nulla,
profondamente colpito dalle parole e dal tono supplichevole del compagno.
“Quella
persona che occupa adesso il Dodicesimo Tempio” proseguì questi, “non è più la
stessa della battaglia nell’Ade, non si comporterebbe così altrimenti! Forse la
sua anima, davanti al muro, ha avuto un moto dettato dal senso di giustizia,
ma…”
Shun
scosse nervosamente il capo:
“Forse
non riesce, forse qualcosa lo blocca!”
“Shun,
ti prego, non fare sciocchezze” lo supplicò il guerriero dei ghiacci, ma con
meno convinzione, evidentemente rassegnato al fatto che non avrebbe potuto fare
niente per distogliere il ragazzino dal suo obiettivo; quando Shun si lasciava
guidare dal cuore in quel modo, niente avrebbe potuto fermarlo, neanche la
propria, insopprimibile timidezza.
“Non
succederà nulla” sorrise Andromeda, quasi prendendo in giro la paura di Hyoga
che trovava insensata. Il santo di Cygnus era sconfitto; sospirò, compiendo un
ultimo tentativo:
“Vorrei
che almeno non andassi da solo.”
“Ma
devo andare da solo; è una questione tra me e lui. Ricordi quando, il giorno in
cui ti sei scontrato con Camus, non ci hai voluti intorno? Perché sentivi che
ogni altra presenza avrebbe costituito un ostacolo?”
“Non
è che mi rassicuri se paragoni ciò che devi fare adesso a quella giornata” lo
apostrofò Hyoga guardandolo torvo, con diffidenza.
Il
santo di Andromeda si lasciò andare ad una vivace risata:
“Prendi
tutto troppo alla lettera, a maggior ragione nella situazione attuale devi
stare tranquillo!”
“Promettimi
solo una cosa” sbuffò Hyoga, incrociando le braccia sul petto “Se vedi che non
c’è nessuna possibilità di instaurare un dialogo quanto meno umano, lascia
perdere e torna da me, non insistere troppo, non tirare la corda!”
“Davvero,
sei esagerato” lo apostrofò Shun, incapace di capire le preoccupazioni del
compagno, scrutandolo con lo sguardo serioso e piegando lievemente la testa di
lato, una di quelle espressioni che disarmava completamente coloro che gli
volevano bene.
Onde
evitare di comportarsi ancora da chioccia apprensiva di fronte a quell’atteggiamento
in seguito al quale avrebbe voluto afferrarlo e stringerlo a sé, Hyoga gli
diede le spalle, abbassando il capo e grattandosi la punta del naso sotto agli
occhi chiusi:
“Dai,
vai… prima sarai andato e prima ci saremo tolti il pensiero, tutti e due.”
Dietro
di lui Shun sorrise, senza poter essere visto ma, come se il santo dei ghiacci
l’avesse percepito, sorrise di rimando mentre Shun si allontanava,
intraprendendo la scalata del colle. Cygnus si volse in tempo per vederlo
scomparire all’interno delle vie segrete, che permettevano di salire le varie
tappe senza attraversare per forza le case dei custodi. Ai saint della
speranza, riconosciuti come degni fratelli minori dei gold saints, era stato
concesso di conoscerle.
Hyoga
sospirò, era indeciso: avrebbe dovuto restare lì ad aspettarlo? Era già pentito
per essersi mostrato così arrendevole. Scosse le spalle: se fosse rimasto, la
tentazione di mettersi quasi subito sulle sue tracce sarebbe stata
insopprimibile, così si voltò e, senza più rivolgere alcuno sguardo al colle,
si impose di allontanarsi. Avrebbe atteso il compagno addestrandosi nell’arena,
l’avrebbe aiutato a non pensare.
***
Le
vie segrete erano buie, davano la sensazione di condurre spiritualmente in una
dimensione diversa, attorniandola di una sacralità ancestrale, lontana dal
quotidiano, dall’agitarsi delle voci e dei corpi. Il silenzio che circondava
Shun mentre saliva le scale non era silenzio autentico: udiva il respiro dei
secoli… e quello degli antichi eroi.
“Un frammento dell’anima di chi, nel
corso dei lustri, ha camminato per queste strade, è ancora ben presente tra
queste mura di pietra” pensava,
sfiorando appena con le dita le rocce al suo fianco, quasi timoroso all’idea di
offendere gli spiriti illustri dei santi di Athena, un tempo abitanti in quei
luoghi, ancora così pesantemente presenti.
Pesantezza,
sì, ma anche tanto affetto, comunione di cuori ed intenti; se effettivamente
presenze spirituali aleggiavano in quei cunicoli, Shun non li percepiva ostili,
guardinghi forse, ma benevoli nei confronti di qualcuno che riconoscevano come
uno di loro.
Era
forse superbo a considerarsi tale?
“Non io manco di umiltà, ma lo sento che
mi considerano loro compagno, sono loro a suggerirmelo, non sto erigendo nessun
castello di carta con la mia fantasia.”
Non
era mai stato sicuro di sé il santo di Andromeda, quindi quella consapevolezza
che gli scese nel cuore lo fece sorridere, di se stesso, ma anche
dell’entusiasmo infusogli da tutti quei vecchi amici.
“Siamo
tutti uguali” mormorò, “tutti insieme… e anche Aphrodite lo dovrà capire!”
Così
rinvigorito, dopo qualche istante di esitazione, riprese a salire con maggior foga
e si fermò solo di fronte a quella che ricordava come l’uscita che conduceva
proprio davanti al Dodicesimo Tempio; lì l’incertezza lo colse nuovamente.
Trasse un profondo sospiro, quindi, un piede davanti all’altro, senza fretta,
percorse i passi che lo distanziavano dalla dimora di Pisces. E vide il tempio
stagliarsi davanti ai propri occhi, i ricordi legati alla sua prima visita in
quel luogo lo colpirono in maniera dolorosa. Era con Seiya allora e credevano
che tutto fosse perduto, i compagni scomparsi, la fine di Athena sempre più
prossima, come prossime erano le sale del Sommo Sacerdote, solo più quell’ostacolo,
l’ultimo custode, l’ultimo gold saint ancora da sconfiggere, l’imposizione
fatta da Andromeda a Pegasus, la supplica di lasciarlo combattere da solo… e il
primo incontro con Aphrodite.
Non
davanti al Muro del Pianto si era instaurata, per la prima volta, una reciproca
affinità, ma già quel giorno, quando avevano combattuto, quando si erano fatti
del male a vicenda, alla fine della battaglia si erano scambiati uno sguardo… e
in quello sguardo si era stabilito un contatto. Shun aveva compreso che le loro
anime non sarebbero mai più state scisse e, lo sapeva, lo stesso Aphrodite
aveva voluto fissare quel contatto, ribadito nell’Ade, uno scambio, un filo
conduttore che li avrebbe legati per sempre.
La
domanda che ronzava nella mente di Shun, dal giorno del loro ritorno, era
sempre la stessa: perché ha voluto
spezzarlo… o sta tentando di farlo?
Il
tempio a pianta rettangolare, con le sue colonne perfettamente distribuite
lungo il perimetro, lo accolse con la sua severa maestosità e da esse il santo
di Andromeda si sentì sovrastato, soffocato, come se si trovasse di fronte ad
un titano che, con la sua mole, tentava di dissuaderlo dall’entrare. Non si
lasciò suggestionare, strinse le labbra, assumendo un’espressione risoluta e
oltrepassò le prime colonne, addentrandosi nella loro penombra.
I
ricordi lo invasero, lo fecero quasi urlare per il dolore che provocarono in
lui, tutta la sofferenza di quel giorno che, in un certo senso, apparteneva ad
un’altra vita, si fece risentire nella sua totale intensità e non poté impedire
a quelle sensazioni di sciogliersi in lacrime salate, che scesero lungo le sue
guance, scivolando fino alle labbra, dove lui bevve il loro sapore amaro.
“Mi
dispiace così tanto” singhiozzò, “che il nostro primo incontro sia stato
all’insegna della violenza, della difesa reciproca… mi dispiace così tanto per
quel che è accaduto… per averti fatto del male allora…”
“Nessuno
ti ha dato il permesso di entrare, mi sembra.”
Il
cosmo lo colpì ferocemente così come la voce, tagliente alla pari di una lama
affilata affondata nel suo petto; solo in seguito all’aggressione verbale e
mentale scorse la figura che avanzava, fiera, eretta, verso di lui, non in
armatura come al loro primo incontro, ma quella tunica risplendente dalla quale
era avvolto non faceva un effetto minore. La indossava come un signore nel
proprio castello; in realtà si trattava di una semplice veste di stoffa bianca,
ornata d’azzurro, con qualche decorazione dorata, intorno al collo, in vita e
lungo gli orli, ma il santo dei Pesci la portava con un’eleganza che conferiva
persino a quegli strati di tessuto una sorta di potere sacro.
La
tunica arrivava fino alle caviglie e lasciava intravvedere i sandali, anch’essi
color oro, ma così sottili e leggeri da fasciare appena i piedi dando, ad una
prima occhiata, la sensazione che il giovane uomo fosse scalzo. Shun rimase
immobile mentre si avvicinava, fino a giungere a pochi passi di distanza: era
ancor più alto di come il ragazzino lo ricordava, quasi immenso, e lui si
sentiva ancor più piccolo e insignificante di quanto avesse immaginato;
resistette a stento alla tentazione di inginocchiarsi ai suoi piedi.
Lo
sguardo di Aphrodite lo fissava, ma al tempo stesso dava la sensazione di
oltrepassarlo da parte a parte, come se stesse osservando qualcosa di
sconosciuto… e di disprezzabile…
Il
santo di Andromeda deglutì, non si era aspettato di provare tutta quella paura,
quel timore reverenziale e, quando provò a fare un passo, notò che le gambe gli
tremavano; dovette tuttavia fermarsi quasi subito perché, a quel suo minimo
movimento, la fronte di Aphrodite si accigliò, il suo sguardo si fece più teso,
aggressivo e le parole che pronunciò non smentirono affatto l’impressione del
piccolo bronze saint:
“Se
fai un passo di più senza chiedere il permesso dovrò attaccarti; ti sei già
spinto troppo oltre, senza invito e senza palesarmi in tempo la tua presenza!”
“Perdonami,
Aphrodite-sama” mormorò il ragazzino, la voce che uscì a stento, appena udibile
nel silenzio di quelle mura, reso meno assoluto dal palpitare del suo cuore che
gli martellava nelle orecchie. “Non era mia intenzione mancarti di rispetto…
non credevo di…”
“Che
cosa vuoi?” lo interruppe il medesimo tono ostile, ancor più duro, una voce
bellissima che sapeva diventare un’arma impietosa.
“Solo
vederti” sussurrò uno Shun sempre più indeciso, colpito da tanta ostilità. Si
era aspettato un approccio difficile, ma non poteva comprendere
quell’insistenza di Aphrodite nel volerlo considerare, all’apparenza, un
nemico.
“E
perché?” domandò l’altro, riducendo gli occhi a due fessure, colmo di
diffidenza.
Cosa
rispondere? Shun si trovava del tutto impreparato, pur con tutti i buoni
propositi elaborati prima di giungere lì, quell’accoglienza aveva freddato ogni
sua sicurezza interiore.
“Forse…
per capire…” sospirò, abbassando il capo, le braccia abbandonate lungo i
fianchi, sentendosi terribilmente triste… e incapace.
“Che
cosa c’è da capire?”
Gli
occhi del santo di Andromeda si chiusero, un sorriso umile comparve sul suo
volto, che rimase basso, dimesso:
“Per
quel che mi riguarda tutto… non capisco nulla… non capisco chi sei…”
“E
per quale bizzarro motivo dovrebbe essere tanto importante, per te, capirlo?”
Un
fremito corse lungo tutto il corpo di Shun, una scossa d’orgoglio che lo spinse
a sollevare il capo e a puntare su Pisces tutto il fuoco nascosto dei suoi
grandi occhi verdi:
“Perché
se io ho continuato a combattere quel giorno, se ho trovato il coraggio di
andare avanti, se la disperazione non mi ha definitivamente abbattuto, è stato
per il tuo sguardo, per le tue parole, è stato per quel contatto che ho sentito
tra noi, è stato perché tu credevi in me ed a me ti sei aggrappato, come io a
te! E non parlo solo del Muro del Pianto! Anche il giorno della nostra
battaglia, tu mi hai guardato, mi sei entrato dentro, come puoi pretendere che
anche io dimentichi tutto? Non ne sono capace!”
“In
quel momento, la necessità bellica mi ha spinto a spronarti, in quel momento
eravamo compagni, non vedo cosa possa pretendere, tu, adesso.”
Il
ragazzino sussultò, pressoché incredulo; forse Hyoga aveva ragione dopotutto,
si era semplicemente illuso, mosso dalla sua tendenza a fidarsi ciecamente
delle persone, se solo gli davano un minimo appiglio per farlo. Quante volte la
sua fiducia negli altri si era rivelata deleteria? Spesso persino pericolosa
per se stesso e per i compagni. La parte razionale del suo animo gli suggeriva,
a quel punto, di tornare sui propri passi ed allontanarsi, per non tentare mai
più una simile follia; Aphrodite non voleva saperne di lui, la precedente
concessione che gli aveva fatto era stata dettata unicamente da un momentaneo
sprazzo di fratellanza guerriera, destinata a svanire con il ritorno alla
normalità.
Ma
il santo di Andromeda non era costituito tanto di ragione quanto di cuore,
istinto, passione e la parte più spontanea di sé prevaleva, assicurandogli che
c’era dell’altro, che non poteva essere tutto così come sembrava.
“Cosa
fai? Stai per metterti a piangere?”
Un’altra
osservazione crudele, formulata apposta per fare del male e i pugni di Shun si
strinsero, le sue membra cominciarono a tremare, detestava non riuscire a
dominare le proprie emozioni, ma non poteva impedirselo: erano parte integrante
di se stesso, il bronze saint di Andromeda era emozione pura, da sempre, non
era in grado di farci nulla e non riteneva neanche giusto dover modificare
quell’aspetto essenziale della propria persona.
Scosse
nervosamente il capo e si impose il minimo di autocontrollo necessario per non
crollare di fronte ad Aphrodite e ribatté, con tutta la dignità che poteva
trovare dentro di sé:
“E’
tutto qui quello che hai da dirmi? Mi permetti di avere qualche dubbio sulla
sincerità delle tue asserzioni?”
“E
perché dovresti avere dubbi?” chiese Aphrodite sollevando un sopracciglio,
evidentemente incuriosito.
“Perché
il tuo sguardo diceva il contrario, davanti al Muro del Pianto e anche il
giorno della nostra battaglia, prima di…”
“Non
ti facevo così subdolo, sai, Andromeda?”
Benché
l’osservazione fosse stata formulata senza alcun mutamento nell’inflessione
vocale, per Shun fu come una sferzata in pieno volto; un rimprovero del genere
non glielo aveva mai rivolto nessuno e, al tempo stesso, con tutti i difetti
che era convinto di avere, quello che gli era appena stato attribuito non
l’avrebbe mai immaginato neanche nel peggiore dei propri incubi.
“Perché?”
mormorò, la voce flebile e resa roca dall’impulso al pianto che tratteneva
sempre più a fatica.
Il
santo di Pisces incrociò le braccia sul petto, abbassò il volto con
atteggiamento riflessivo e proseguì, implacabile:
“Ricordi
al tuo nemico il momento in cui l’hai sconfitto. Ritengo che sia una mancanza
di rispetto decisamente indegna di un uomo d’onore.”
Ormai
Shun era un bambino in lacrime di fronte a quell’uomo maestoso, severo, gelido
dietro le mura invalicabili erette intorno a sé; era giunto fin lì per ottenere
pace e complicità e si trovava a vedersi gettato addosso il ruolo del cattivo,
della persona sleale.
“Credevo”
tentò disperatamente di giustificarsi, cercando di dominare la voce rotta dalle
lacrime “di poter ormai parlare serenamente di quel giorno… che non avrebbe
avuto più senso definirci… nemici…”
“Mi
hai comunque messo di fronte alla mia sconfitta, Andromeda e questo non posso
perdonartelo, in nessun modo! Senza contare che hai di nuovo varcato questa
soglia senza il mio consenso, perciò da invasore!”
La
voce di Aphrodite si era alterata, all’improvviso, in maniera inquietante e gli
occhi di Shun si sgranarono di fronte allo sguardo che aveva assunto il santo
dei Pesci; c’era qualcosa che non andava, c’era rabbia, ma c’era anche tanta
paura, celata fino a quel momento sotto il gelo di quell’azzurro nordico.
“Mi
dispiace per quello che ho detto, Aphrodite, non era mia intenzione rivangare
niente, solo cercare di ricostruire!”
“E’
un po’ troppo tardi, non credi? Tu quel giorno hai distrutto tutto il mio
mondo, Shun, tutto ciò in cui credevo l’hai fatto vacillare e crollare
rovinosamente al suolo. Come puoi pretendere che io cancelli e me lo lasci alle
spalle? Come puoi pretendere che basti una rinascita per superare ciò che
accadde quel giorno, in cui percepii la morte dei miei amici, dei compagni, uno
dopo l’altro, fino a vederti varcare questa soglia al solo scopo di
umiliarmi?!”
Il
ragazzino avrebbe voluto tapparsi le orecchie, tanto la voce di Aphrodite si
era alterata, tanto adesso il custode del tempio stava urlando, quasi fuori di
sé.
Il
santo di Andromeda non poté impedirsi di fare un passo indietro quando vide
Pisces avanzare ancora verso di lui, minaccioso.
“Ma
è finito tutto bene, Aphrodite… siamo tutti qui e davanti al Muro del Pianto…”
“Davanti
al Muro del Pianto ero vicino a loro, i miei compagni ed io eravamo tutti
insieme e vedevo in voi la speranza, sì, vedevo le cose con occhio diverso,
perché negarlo? Ma non volevo rinascere, non volevo dover riguardare indietro,
dover rianalizzare di nuovo tutto, rimettere in discussione tutto! Ti avevo
affidato quanto restava dei sacri guerrieri, perché desideravo che tutto si
risolvesse per il meglio… ma che noi potessimo riposare!”
“Abbiamo
tutti una nuova possibilità, senza più lotte intestine, possiamo vivere da
compagni, uniti sotto le insegne di Athena, dopo tutti gli errori che…”
Non
si avvide del movimento e l’istante successivo, il pugno di Aphrodite era
stretto sul collo della sua t-shirt, strattonandolo con violenza, quasi
sollevandolo da terra, il viso dello svedese era ad un’infinitesimale distanza
dal suo e a Shun sembrava immenso, spaventoso nella sua bellezza furiosa:
“Errori
di chi, eh, santarellino?! Gli errori di coloro che avevano tradito Athena? Che
si erano affidati anima e corpo ad Arles? Gli errori nostri, eh, Shun? Voi
eravate i giustizieri che dovevano farci ravvedere oppure ucciderci, voi latori
della verità, noi accecati dallo sbaglio, dall’illusione, dall’errore di
valutazione!”
Completamente
inerme in quell’artiglio feroce, soggiogato dalla situazione che l’avrebbe reso
assolutamente incapace di difendersi in caso di pericolo autentico, Shun si
limitò a sollevare un braccio, a circondare il polso di Aphrodite con la sua
mano tanto più piccola, ma lo fece senza rabbia, voleva che il santo di Pisces
percepisse affetto in quel gesto; la vista annebbiata da un velo di lacrime,
ancora provò a smuovere il cuore di quella persona che sentiva di amare
profondamente:
“Io…
non vi ho mai voluti ritenere… nemici…”
Non
poté terminare, nuovamente colpito dalla furia cieca del suo interlocutore:
“Sei
un maledetto presuntuoso, Andromeda, tu come tutti gli altri insignificanti
ragazzotti che ti circondano!”
Nel
pronunciare quella nuova, dolorosa frecciata, lasciò la maglietta di Shun e lo
spinse, nello stesso istante, lontano da sé; indebolito dall’insicurezza, dal
senso di sconfitta, il santo di Andromeda non riuscì a mantenere l’equilibrio,
incespicò e cadde, posando le mani al suolo, dietro di sé e trovandosi seduto,
con il custode della Dodicesima Casa che ancora lo sovrastava, come se volesse
annientarlo con la sola maestosità della propria figura.
Shun
raccolse tutto il coraggio di cui era capace per sollevare lo sguardo e
puntarlo ancora sul santo di Pisces. Il tono uscì supplichevole, nella
disperazione di voler far comprendere al santo d’oro il proprio messaggio, il
proprio reale intento e la propria sincerità:
“Non
mi sono… mai ritenuto superiore a nessuno… Aphrodite… neanche i miei fratelli…
men che meno a qualcuno di voi, siete i nostri modelli, i nostri maestri, i
nostri fratelli maggiori.”
Intanto
si rimise faticosamente in piedi; era come trovarsi nel mezzo di una battaglia,
in cui cercava di convincere l’avversario dei buoni propositi impressi in ogni
suo gesto. Gli faceva male pensare così, che ancora Aphrodite potesse vivere un
loro approccio come uno scontro in piena regola, aveva sperato in un semplice
dialogo tra compagni e fratelli d’arme, con tutt’al più qualcosa da chiarire. E
invece si trovava di fronte un custode aggressivo e poco disposto ad allentare
la rigidità con la quale l’aveva accolto.
D’altronde
non vi era nulla di diverso da qualunque battaglia lui avesse affrontato,
pensava il ragazzino; aveva sempre cercato il dialogo con il nemico anziché lo
scontro violento, aveva sempre fatto di tutto per evitare colluttazioni che si
sarebbero potute rivelare dannose per il rivale di turno. E di solito, come in
quel momento, si era scontrato contro muri invalicabili ed infrangibili, che
avevano reso inevitabile il conflitto.
“Sei
soltanto un ipocrita.”
Il
santo di Andromeda non riuscì a capire se, per lui, furono più angoscianti le
parole pronunciate dalla labbra lucide di Aphrodite o il sorrisino sprezzante
che si formò su esse. Subito dopo, il gold saint gli diede le spalle, altezzoso
e sentenziò, mentre cominciava a camminare verso la parte più interna del
tempio:
“Se
non abbiamo altro da dirci… o meglio… se tu non hai altro da dirmi, ora puoi
anche andartene e ti prego di non presentarti più al mio cospetto senza che io
lo sappia con largo anticipo, altrimenti sarò costretto a considerarti, di
nuovo, un invasore.”
Non
poteva permetterlo, non poteva accettare che tutti i suoi buoni propositi si
concludessero in quel misero modo; come spesso gli accadeva, la necessità
estrema faceva ritrovare a Shun la forza di volontà sufficiente per reagire e
per sottrarsi allo straniante torpore che si impadroniva di lui in determinate
situazioni.
Spiccò
una corsa, in pochi balzi raggiunse Aphrodite e lo prese per un braccio,
strattonandolo con l’intento di farlo voltare; il santo dei Pesci reagì
prontamente, si sottrasse a quel tocco e lo spinse, gettandolo nuovamente a
terra. Shun cadde malamente, lasciandosi sfuggire un gemito e, quando sollevò
lo sguardo, vide Aphrodite abbassarsi; subito dopo le dita dello svedese
affondarono nei suoi capelli e glieli tirarono con ferocia.
“Adesso
hai superato i limiti, Andromeda” sibilò il santo d’oro, ma c’era qualcosa di
strano, a quel punto, nel suo tono di voce, un lieve tremolio prima assente.
Il ragazzino se ne accorse e
il suo cervello reagì di conseguenza, il motivo del comportamento di Aphrodite
gli sfuggiva come fumo bianco tra le dita e più gli sembrava di averlo
finalmente afferrato, più questo riusciva a sfuggirgli.
Pisces
mollò la presa, lasciandolo cadere, ansante, sul marmo del pavimento poi, lentamente,
si mise in guardia, espandendo poco a poco il proprio Cosmo dorato.
Shun
sgranò gli occhi, puntellandosi a fatica coi gomiti, il visetto sporco. Testardamente
si convinse, una volta di più, che sarebbe stato in grado di farcela, avrebbe
risolto da sé quella situazione così assurda.
Cercando
di ricacciare indietro lo sgomento che gli rendeva le membra doloranti, Andromeda
si mise in piedi, pronto a scattare; aveva solo una possibilità e doveva usarla
al meglio.
Aphrodite
allineò in quel momento i pugni, i grandi occhi color del mare erano aperti su
di lui con un'espressione che aveva dell'incredulo nell'attimo stesso in cui il
piccolo, gettatosi tra le sue braccia, lo strinse con forza, quasi conficcando
le unghie nelle sue spalle, come un naufrago che si aggrappava disperatamente
all’unico relitto abbandonato in mezzo al mare.
“La devi
smettere, smettila!” gridò, affondando il volto nel petto dello svedese,
soffocando le lacrime, consapevole che sarebbe potuta accadere qualunque cosa
da quel momento, attendendo una reazione spropositata che avrebbe anche
rischiato di ferirlo gravemente.
Niente di
tutto questo accadde, il tempo sembrava essersi fermato e solo il rumore dei
loro respiri lasciava comprendere che esso continuava a scorrere.
Poi, una
stretta intorno al corpo di Shun, una mano che si posava ancora tra i suoi
capelli, ma unicamente per accarezzare questa volta, una voce che lambì le sue
orecchie, finalmente la medesima che aveva udito al Muro del Pianto, il
medesimo amore in essa infuso, il medesimo messaggio di condivisione:
“Mi hai
sconfitto… di nuovo… e non riesco neanche ad essere arrabbiato per questo…”
Il viso di
Shun si sollevò, i loro occhi si incontrarono e Shun lesse, in quelle pozze
azzurre di dolore, tutto ciò che il compagno della gerarchia superiore doveva
avere passato, tutte le lotte contro se stesso, per capirsi, per accettare un
ruolo che, in alcuni momenti, lo faceva sentire spezzato in due, l’umiliazione
che doveva aver subito, messo di fronte al crollo di tutte le proprie certezze
nel corso della battaglia alle Dodici Case, l’angoscia di veder cadere uno ad
uno i compagni di una vita. E ancora l’ennesima umiliazione del doversi fingere
nuovamente traditore, senza quasi poter combattere per mostrare il proprio
onore, accettando di farsi canzonare da uno spectre di Hades per entrare meglio
che poteva in una parte talmente difficile.
E infine,
il trauma della rinascita, la consapevolezza di dover ricominciare tutto
daccapo, di doversi ricostruire in un’esistenza ed un mondo con presupposti del
tutto nuovi.
E nel
dolore di Aphrodite, Shun specchiò il proprio; quello che avevano dovuto
affrontare era pazzesco, era crudele, per tanti versi inaccettabile.
“Mi…
dispiace così tanto” singhiozzò il santo di Andromeda, allungando la propria
mano fino a posarla sulla guancia di Pisces.
E questi
lo lasciò fare, senza reagire, senza più ritrarsi; solo le sue labbra si
mossero in un sussurro un po’ tremante:
“Come
allora… neanche adesso riesco ad odiarti…”
“Forse
perché, in fondo, siamo più simili di quanto tu creda…”
“E siamo
tutti santi di Athena” annuì Aphrodite, stringendo il piccolo guerriero ancor
più contro di sé ed abbassando il capo fino a nasconderlo nei capelli color
miele che si fusero con i suoi, in un perfetto amalgama di sfumature rosse e dorate.