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Autore: Trick    21/06/2010    4 recensioni
«Fra una pittrice e una folle non corre molta differenza».
«Né fra una donna e una chiromante».

Artemisia Gentileschi, artista dal discutibile onore, non è né bella né raffinata né elegante. È il motivo per il quale Michelangelo Buonarroti, poeta del Granduca di Firenze e nipote del ben più celebre Michelangelo, sa di essere condannato a precipitare con lei nelle più oscure bolge dell'Inferno. In cuor suo, preferisce prendere l'eterna dannazione che lo attende con sarcastica filosofia.
Scritta per l'iniziativa "2010: a year together" indetta da CoS.
Genere: Generale, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: Autoritratto di una dannata
Personaggi: Artemisia Gentileschi, Michelangelo Buonarroti il Giovane
Genere: Storico, romantico, generale
Conteggio parole: 1407
Rating: Verde
Note dell'autrice: Credo che ben poco di questa storia sia riconducibile alla realtà. Oh, be'... in verità, non lo so per certo. Di sicuro, Artemisia si trasferì a Firenze nel 1614 e fece la conoscenza tanto di Galileo Galilei quanto del nipote del famoso Michelangelo, suo omonimo e di professione poeta. Non ho idea di quale fosse la vera natura del loro rapporto, ma sta di fatto che adoro romanzare la storia. Credo che la stessa natura di Artemisia sia, nella mia storia, ben più romanzata di quanto non deve essere stato nel Seicento. Ma tant'è che così mi andava, perciò vogliate scusarmi.
La storia è stata scritta per l'iniziativa 2010: a year together indetta da Cos - Contest of Starlight. Il prompt scelto è ''Tra la verità e la bugia: la vera storia di un pittore''.





«Non è consono ad un poeta del vostro rango introdursi come un comune ladro nelle altrui dimore, Michelangelo».
Nascosto dalla penombra delle tele che riempivano ogni angolo della bottega, Michelangelo sorrise lievemente. Mosse qualche passo verso il tavolo al quale la donna stava lavorando, stringendo il mantello per evitare che si sporcasse con le polveri e gli oli sparsi su ogni superficie rigida.
«Com'è possibile che riusciate a udire il mio arrivo ancor prima che io faccia un solo rumore, Artemisia?» le chiese. «Credetemi, date l'impressione di essere una di quelle folli chiromanti che affollano la via dell'Anguillare».
Artemisia sollevò gli occhi dai propri disegni e lo guardò con un sopracciglio maliziosamente inarcato.
«Fra una pittrice e una folle non corre molta differenza».
«Né fra una donna e una chiromante».
«O fra un uomo ed un ladro, invero» ribatté piccata la giovane, socchiudendo minacciosa le palpebre.
Michelangelo sollevò i palmi delle mani in segno di resa. Sapeva di essersi inoltrato in un argomento pericoloso, tanto quanto sapeva come Artemisia potesse diventare pericolosa. Fra tutte le donne che aveva conosciuto spostandosi da Firenze a Pisa, la pittrice romana era sicuramente la più affascinante. Eppure, non era né la più avvenente né la più elegante di loro. Non era solita acconciarsi i capelli scuri – Michelangelo credeva non ne fosse nemmeno in grado – e li stringeva con rozze corde sopra la nuca. Le gote paffute erano spesso arrossate dal troppo lavorare e le sue mani portavano i segni degli anni trascorsi fra gli oli e i collanti – e di quella tortura subita a Roma il cui ricordo la faceva sempre fremere di rabbia e indignazione. Artemisia non era bella, ma Michelangelo non riusciva a resistere a lungo lontano dai suoi vivaci occhi scuri e dai suoi mascolini modi di fare.
Era la prima donna con cui colloquiava con sincero piacere, sebbene le stesse ancora insegnando la nobile arte della scrittura. Le sue conoscenze erano ancora esigue, se confrontate alle nobildonne fiorentine della corte del Granduca, eppure Michelangelo sentiva di provare per lei un sentimento ben più profondo di qualunque altra unione lo avesse mai stretto alle altre dame – e dire che avrebbe potuto essere sua figlia.
Continuò a sorridere mentre si avvicinava alle sue spalle e allungava il collo per sbirciare il contenuto dei suoi fogli. Adorava l'espressione concentrata con cui Artemisia si dedicava al proprio lavoro. Quando lei glielo consentiva – cosa che non avveniva tanto spesso – trascorreva ore seduto su una delle sedie della bottega, contemplandola in religioso silenzio.
«Quest'oggi è il solstizio d'estate. Perché non riposate?» le chiese.
«Non ricordo d'essere mai venuta a disturbare il quieto comporre delle vostre poesie durante l'equinozio di primavera, Michelangelo» lo punzecchiò con tono stanco Artemisia, intingendo con flemma la punta del pennino nella boccetta d'inchiostro.
«Non avete idea di quanto ve ne sia grato. Per quanto vi abbia in stima, dubito che il Granduca potrebbe mai apprezzare opere di cui voi siete la musa ispiratrice ed io finirei ad elemosinare qualche fiorino d'argento a Santa Maria del Fiore».
«Quale meravigliosa possibilità. Firenze perderebbe il suo più molesto e irritante compositore».
Ridacchiando appena, Michelangelo le sfiorò la clavicola, abbassando di qualche centimetro l'orlo della sua veste. Notò qualche nuova macchia di colore sul tessuto porpora e sorrise ancora. La maggior parte delle dame avrebbe storto il naso dinanzi ad una tale scempio; Artemisia, al contrario, pareva mostrarle con orgoglio – esattamente come le macchie del suo onore, sui cui l'intera città malignava con incredibile dedizione.
«Sto lavorando ai vostri disegni, Michelangelo» lo ammonì seriamente Artemisia. «Da parte vostra, è piuttosto improduttivo interrompermi».
«Al contrario: non ho fretta che li terminiate» ribatté. «Si stanno rivelando una scusante perfetta alle mie visite».
«Alle vostre visite inopportune, vorrete dire».
Michelangelo si chinò su di lei, le scostò un ricciolo scuro e le baciò delicatamente il collo bianco. Con un lieve sbuffo, Artemisia poso sul tavolo il pennino e allontanò da sé i propri bozzetti. Sogghignando sorniona, si voltò verso di lui con un cipiglio irritato ben poco credibile.
«Maledettamente inopportune» ribadì divertita, mentre sfiorava la mandibola dell'uomo con un polpastrello sporco d'inchiostro. «Temo dimentichiate troppo spesso che sono sposata, Michelangelo».
«In verità, lo ricordo con profondo rammarico. Meritereste meglio di quel mediocre imbrattamuri di Stiattesi».
Artemisia si finse pensierosa.
«Un poeta, magari?».
L'uomo parve ghignare come una volpe.

«Verrete con me alla cerimonia di battesimo dell'ultimogenita del Granduca, domani?».
«Un'altra?» s'informò Artemisia con una risatina di scherno. «Michelangelo, dovreste consigliare al Granduca di immergere i suoi numerosi figli nell'Arno, così da risparmiare sulle acquasantiere di Santa Maria del Fiore».
«Suvvia, togliereste a Firenze la sua più grande fonte di chiacchiericcio».
Artemisia inarcò sarcastica un sopracciglio.
«Credevo di essere io, la sua più grande fonte di chiacchiericcio».
Michelangelo sbuffò divertito e si voltò sul fianco sinistro per poterla guardare in viso. Nel corso della sua vita, aveva dedicato alla bellezza un numero incredibile di odi e sonetti. Eppure, le belle forme rotonde e gli occhi scuri di Artemisia parevano appartenere ad una bellezza senza nulla di umano. Tutto di lei pareva gridare alla provocazione dei sensi e Michelangelo, in cuor suo, sapeva che la luce derisoria dei suoi occhi non poteva essere che un sordido scherzo del Diavolo. Se avesse continuato a inginocchiarsi dinanzi alla lussuria di Artemisia, sarebbe sprofondato nelle più oscure bolge dell'Inferno. Inspiegabilmente, la cosa non pareva terrorizzarlo quanto avrebbe dovuto.
«Sapete se verrà anche Galilei?» domandò d'un tratto Artemisia.
Michelangelo ruotò comicamente gli occhi.
«Inizio ad essere geloso di quel pisano. Pare quasi che lo riteniate più affascinante di me solo perché ha l'intero Vaticano contro» ribatté con tono scherzoso.
«Non siate ridicolo. Non potreste uguagliare Galilei nemmeno se a scomunicarvi fosse San Pietro in persona».
Michelangelo si finse offeso.
«Io vi ho insegnato la nobile arte della scrittura e vi ho dedicato centinaia di sonetti. Cosa mai ha fatto Galileo per meritare tanto la vostra stima?».
«Innanzitutto, mi ha insegnato a far di conto. Mi ha evitato di essere gabbata alla taverna e, sebbene non sia una nobile arte come la vostra scrittura, è stato un precettore ben più utile di voi. In secondo luogo, voi non mi avete mai dedicato un solo sonetto, ringraziando il cielo. Siete già sufficientemente snervante quando state in silenzio: non oso immaginarvi a decantare a gran voce le mie virtù» rispose Artemisia con aria saputa. «Fra l'altro, Michelangelo, dovreste ringraziarlo. Non fosse stato per le belle parole con cui vi elogiava, difficilmente ora sarei sdraiata accanto a voi con nient'altro che la mia pelle addosso».
«Questa è la più grande maldicenza che abbia mai udito. Non ho bisogno delle glorificazioni di Galileo per farmi apprezzare».
«Lo credete davvero? Eppure, al mio arrivo a Firenze, non ho potuto fare a meno di notare quanto voi foste irritante, molesto, smorfioso e sgradevole sotto ogni punto di vista».
Divertito, Michelangelo si voltò verso di lei e le sfiorò appena il braccio. Artemisia gli rivolse un'occhiata sprezzante, si alzò sui gomiti e si avvicinò al suo viso.
«Sappiate che vi ritengo irritante, molesto e smorfioso tuttora» mormorò al suo orecchio.
Lui scoppiò a ridere. Con un lieve sogghigno, Artemisia ruotò sulla schiena, si alzò a sedere e si chinò per afferrare il proprio vestito.
«Dove state scappando, ora?».
«Ho i vostri lavori da finire, rammentate?».
Sbalordito, Michelangelo sgranò gli occhi.
«State scherzando?».
«No».
La osservò rivestirsi rapidamente e aggiustare al gomito i risvolti delle maniche. Rimase a fissare incantato il modo deciso con cui stringeva i lacci dell'abito. Non aveva mai incontrato una donna che si vestisse con una tale mancanza di grazia femminile – e ben sapeva di essere preoccupantemente attratto da questo suo fare irriverente. Quando si fu allacciata i capelli in una rozza acconciatura dietro la nuca, Artemisia voltò il capo verso di lui.
«Alzatevi, Michelangelo. Non costringetemi ad adoperare le maniere forti».
Lui la guardò con aria di sfida.
«Mi confesso assai curioso di sapere quali siano».
Sbuffando indispettita, lei si levò in piedi e si diresse a passo deciso verso la porta. Michelangelo era certo di averla sentita borbottare qualcosa come ''dannato poeta''. Ridacchiando fra sé e sé, incrociò le braccia al petto e rimase a scrutare con aria persa le travi del soffitto. D'un tratto, gli comparve davanti agli occhi una delle più superbe tele di Artemisia, un'incredibile Giuditta con la testa di Oloferne che la giovane aveva da poco ultimato.
Non aveva mai avuto il coraggio di confidarlo a lei, ma ne era rimasto profondamente turbato. Com'era possibile che la sua Giuditta potesse essere tanto bella, nonostante quegli occhi perversi che Artemisia le aveva dipinto? E com'era possibile, in effetti, che Artemisia gli apparisse tanto meravigliosa, nonostante il suo spirito ribelle l'avesse ormai condannata all'eterna dannazione?
«Debbon esser di luce li occhi del Demonio, ché all'uomo il peccato pare divino» recitò a voce alta con una smorfia scocciata. «Non avresti potuto trovare un'arma migliore con la quale sconfiggermi, Lucifero. È più fatale della morte stessa, quella folle donna».

   
 
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