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Autore: SkyEventide    24/06/2010    3 recensioni
Seconda Guerra Mondiale, Linea Gotica. I giovani Lorenzo e Michele aderiscono alla lotta partigiana, abbandonati i tempi della loro infanzia gioiosa. Nel frattempo il capitano tedesco Rudolf diserta l'esercito nazista ed aiuta i partigiani e la popolazione italiana, accompagnato dal caporalmaggiore Johann, che fugge dal legame più profondo che ha col fascismo. I loro legami si dipanano su uno sfondo di clandestinità e lotta per la libertà dal regime e dall'invasore. Tre colori, il verde, il bianco ed il rosso per raccontare le loro più dolci e più dolorose memorie.
Buona lettura.
Genere: Drammatico, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
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I colori delle memorie

1
Verde
Il profumo dell'erba e dell'acqua



C’era un laghetto dietro la casa della Zina, pieno di canne, erba e alberi che vi pendevano sopra, ma la cui acqua era limpida e si riuscivano a vedere delle trote d’acqua dolce guizzare, certe volte, da un buco all’altro della ripa. La Zina possedeva una bella casa, di sasso, sulla cima di una collinetta, con una magnifica pianta d’edera che si era arrampicata su un lato e sulla facciata; il giardino retrostante era ampio e incantevole, lussureggiante in estate, ma siccome nessuno se ne curava più, d’inverno diventava un intrico di rami secchi e pungenti come dita di rovo. Vicino c’era una staccionata, a lato della casa, e dietro lo steccato iniziava l’orto su cui aleggiava sempre, nelle giornate di sole, un profumo di spezie, dal rosmarino alla salvia, al timo, al basilico.
Il laghetto dietro la casa aveva una lunga storia; era stata la mamma della Zina a farlo riempire, ma quello era già lì da parecchio tempo, pareva addirittura che risalisse all’‘800, quando la casa era una residenza di nobili; poi lo specchio d’acqua aveva rischiato di essere prosciugato quando Lorenzo, il figlio del panettiere, ci era caduto dentro nell’estate del ’29, una delle volte in cui era entrato di nascosto nella casa passando dall’orto con un amico. In seguito la Zina non aveva più voluto far entrare nessuno nel giardino sul retro, aveva messo il filo spinato attorno al recinto dell’orto e la pozza d’acqua era diventata verde per le alghe e puzzolente. Poi, invece, il postino le aveva suggerito di metterci dentro delle carpe e ripulirlo perché potesse allietare le giornate afose al suo povero marito che non riusciva più a muoversi senza un bastone, ed anche con quello era lento e curvo con la schiena. Si diceva che la Zina nascondesse più di settecento mila lire sotto il pavimento del soggiorno, che non ne volesse spendere neanche un po’ e che li avrebbe bruciati piuttosto che lasciarli in eredità a qualcuno. Ma per suo marito, che morì nell’inverno successivo, fece anche ripulire il laghetto e allargarlo, decorando l’ambiente con una statua della venere e quella di un putto, convinta che fossero autentiche statue romane. I bambini ci credevano sul serio.
Dopo la morte del marito, la Zina era diventata meno scorbutica e siccome non aveva nipoti ed il figlio era diventato un fascista e lei se ne vergognava, aveva iniziato a permettere ai bambini di giocare in casa con lei. Tutti però si ricordavano della storia di Lorenzo, oppure erano stati i genitori a raccontarglielo, per cui avevano sempre paura di avvicinarsi all’acqua del laghetto delle carpe.
Lorenzo, che tutti usavano chiamare Renzo, non aveva imparato la lezione. La volta in cui aveva rischiato di affogare, a sei anni, si era tuffato nell’acqua a tirarlo su il suo amico Michele, che l’aveva accompagnato nell’escursione. Si era tuffato, sentendosi attorcigliare dalle alghe e dalle canne, aveva ficcato la testa sotto ed aveva ripreso Renzo per la camiciola, poi era scivolato sul fondo melmoso coi piedi ed era arrivato al bordo, buttando sui sassi il suo amico. Era risalito ed aveva trascinato sull’erba verde brillante il corpo di Renzo, con troppa paura addosso per chiamare la Zina, che stava al secondo piano della casa col marito. Agli adulti Renzo aveva raccontato che Michele gli aveva fatto la respirazione bocca a bocca, però Michele, che aveva un anno e mezzo in più rispetto al suo amico, improvvisamente era diventato paonazzo ed aveva detto che non era vero, che la respirazione bocca a bocca non la sapeva fare e per svegliarlo gli aveva premuto il petto finché non si era messo a tossire l’acqua.
Però, appena la Zina aveva fatto pulire il laghetto dalle alghe verdastre e l’aveva allargato fino al punto che la definizione di pozza d’acqua non andava più bene, perché ormai si stendeva dentro al giardino arrivando in posti che non si potevano vedere se non si camminava tra gli alberi e i rovi, Lorenzo c’era voluto tornare. All’inizio da solo, per superare la paura del traumatico ricordo di quel luogo.
Era arrivato fino allo steccato con la pittura bianca scrostata ed era entrato nell’orto – la Zina aveva tolto il filo spinato alla morte del marito. Era entrato nel mezzo ai filari di pomodori, vedendo talvolta, o udendo, le api che ci ronzavano in mezzo, poi era passato tra le piante di rosmarino e i vasi di terracotta con le spezie, avvicinandosi al lato della casa di sasso, quello ricoperto completamente dall’edera. Uscendo dall’orto, si passava in mezzo a due grosse conche di cotto con dentro, da una parte, timo, peporino ed altre piantine, dall’altra tante piante di basilico dal profumo intenso. Dopodiché Lorenzo era passato con un fremito d’aspettativa e vecchio timore di fianco alla pianta d’edera, in un viottolo che, al pomeriggio, era sempre in ombra, illuminato solo di mattina, come d’altronde tutto il giardino sul retro, ed era arrivato nel prato di un verde intenso che era l’unica parte del giardino a non avere un aspetto incolto al punto da sembrare fatato. La statua della venere era nel mezzo al lago delle carpe, su di un sasso, quella del putto all’ombra imponente della casa, tra l’erba e le piante. Il bordo di sassi che circoscriveva dove stava l’acqua e dove la terra era nascosto da erbe e piantine.
Lorenzo ricordava perfettamente il punto in cui era caduto giù nell’acqua allora melmosa e verdognola, ma adesso tutto pareva più piccolo: la casa lo sovrastava di meno, gli alberi non erano mostri e tra l’erba non c’era nessuna terribile belva. Con Michele, sua cugina Anna, Mariuccio il figlio del lattaio ed altri tre loro compagni di scuola avevano giocato a nascondino tra quelle piante finendo per spaventarsi per i fruscii da loro stessi provocati ed uscendo dai loro rifugi in preda ad urla insensate. La Zina poi correva fuori col viso paonazzo e li cacciava via minacciandoli con la scopa.
Il laghetto però continuava ad avere un’atmosfera misteriosa, invitante ed affascinante e Lorenzo continuava ad immaginare che una mano verde con unghie lunghe potesse uscire dall’acqua e prenderlo per una caviglia per farcelo finire dentro. Era stato il suo incubo a lungo, dopo aver rischiato di affogarci.
Dopo quel giorno non era tornato nella casa. Qualche tempo dopo, però, ed era la primavera del ’38, aveva proposto a Michele di andarci con lui.
Lorenzo aveva quindici anni e Michele sedici e mezzo, ed erano rimasti amici sin dall’infanzia. Lorenzo non si era mai scordato che Michele gli aveva salvato la vita.

Michele non capiva per quale motivo Lorenzo avesse avuto voglia di venire lì piuttosto che andare in paese ed anche se sapeva che il suo amico era particolare, davvero quella trovata gli pareva molto strana. D’altronde, che c’era da fare a casa della Zina, da soli?
Passarono nel mezzo all’orto, così pregno di odori da fargli girare la testa, oltrepassarono la pianta d’edera, Lorenzo in testa, ed arrivarono al giardino sul retro. Michele si accorse di quel sorriso inebetito che solcava il viso di Lorenzo.
«Senti» gli domandò «ma perché sei voluto venire qua? Potevamo andare in piazza…».
Lorenzo si girò e lo guardò con un’espressione che aveva un che di soddisfatto e furbesco. Teneva le mani dietro la schiena e non c’era nessun rumore. «Tu in piazza ci vuoi andare per mia cugina Annuccia. Ti piace» lo canzonò.
Michele gli sfuggì con gli occhi, confuso ed imbarazzato. «Ma come sei scemo, non è vero».
«Ah no?».
«No, ho detto».
Michele ruotò gli occhi e gli capitò di guardare verso la casa, dove c’era la Zina. Se quand’erano piccoli c’era il gusto della marachella, adesso gli pareva piuttosto di essere un ladruncolo che entra senza permesso, così acuì la vista per cercare la figura della vecchia dietro qualche finestra.
«Guarda che Antonio la vuole come fidanzata».
Michele neanche si girò a considerarlo. «Ma chi?»<
«Mia cugina».
Michele, girandosi, vide la faccia divertita del suo amico. «E smettila, ho detto che non mi piace!». Poi, per ripicca, voltò nuovamente verso il verde che gli pareva così tanto privo di attrattiva.
A Lorenzo piaceva stuzzicare Michele fino all’esasperazione, che comunque arrivava abbastanza presto, e soprattutto gli piaceva stuzzicarlo riguardo ad Annuccia: era convinto che Michele ne fosse innamorato e non lo volesse far sapere perché si vergognava. Oltretutto, quell’ipotesi gli dava ai nervi e per qualche motivo l’idea che Michele e Anna si fidanzassero e poi magari si sposassero anche era irritante come poco altro. Per questo lo stuzzicava, per assicurarsi che non fosse così.
Però rise e si mosse in fretta verso il laghetto.
Michele sbuffò e si guardò intorno. Erano anni che non si avvicinava alla collina dove sorgeva la casa della Zina, tanto più da quando il ricordo più vivido che aveva del giardino era quello delle alghe attorcigliate ai piedi, del corpo di Lorenzo che galleggiava nell’acqua verdastra e dell’immensa fatica e paura provate nel tirarlo fuori. Come Lorenzo era stato un bambino spericolato che si sbucciava sempre le ginocchia, lui era uno di quelli coraggiosi, ma era solo per mettersi in mostra. Era coraggioso, ma allora aveva avuto paura sul serio e ripensandoci trovava assurdo e miracoloso aver avuto la lucidità necessaria a non far morire Lorenzo di soffocamento. E la sensazione ansiosa non l’aveva abbandonato.
«Adesso però mi spieghi che ci siamo venuti a fare qui» ripeté. Però non ottenne risposta. «Lorenzo?». Si voltò con un senso di apprensione nella voce. Appena in tempo per vederlo cadere in avanti sul laghetto spezzando la quiete dell’acqua.
Michele restò senza fiato fino al suono dell’impatto a guardare con gli occhi castani sgranati la scena surreale che si ripeteva.
Poi sobbalzò, lanciandosi in avanti, guardando le erbette sulla superficie muoversi al ritmo con le piccole onde. «Maremma…». Corse nel prato, si tolse le scarpe saltellando coi piedi scalzi sull’erba, gettò a terra la canotta bianca senza maniche e si tuffò dentro. L’entrata in acqua fu destabilizzante. Era fredda, densa, e benché ripulita, sul fondo fluttuavano ancora le alghe verdi, le avvertiva avvinghiarsi alle caviglie. La sensazione dell’acqua stagnante sugli occhi lo schifò, ma si costrinse ad aprirli per poter vedere Lorenzo; ricordava ancora perfettamente l’immagine del corpo che fluttuava e precipitava sul fondo melmoso.
Aprì gli occhi, allora. Però Lorenzo non c’era. Si voltò nell’acqua con un gorgoglio, con i capelli che ondeggiavano di fianco al viso. Ma non c’era, Lorenzo non c’era da nessuna parte.
Gli manco l’aria e risalì frettolosamente col petto che faceva male.
«Puah! Madonna!» imprecò. Ai piedi aveva le foglie ed il fango muschioso che lo toccavano viscidamente, ma provò ugualmente a dare un colpo di gambe tentando di vedere dove fosse il suo amico. Ma non vide niente e neanche capiva dove avesse trovato, a soli sette anni, la razionalità necessaria per salvarlo. Adesso era smarrito e quasi terrorizzato. «Lorenzo!» chiamò, guardando l’acqua con gli occhi sbarrati. Non vide niente.
Prese fiato gonfiando il petto e temendo di non riuscire a stare sotto l’acqua nemmeno dieci secondi per la tanta agitazione e per il ritmo martellante che aveva preso il suo cuore, ma quando fu sul punto di immergersi con la testa si sentì chiamare.
«Ehi, scemo» rise Lorenzo. «Sono qui».
A Michele mancò il fiato, che uscì dai suoi polmoni tutto all’improvviso. Lorenzo non era affatto affogato nel laghetto, non ci era caduto dentro come in un incubo che ripeteva un’angosciosa esperienza già avuta: se ne stava in piedi sul sasso della venere di pietra, dietro la figura seminuda, agganciato malamente e grondante acqua, che gli appiccicava alla fronte i capelli scuri. Sul viso aveva un sorriso soddisfatto e divertito, che Michele trovava terribilmente capace di dargli attacchi di furia.
Batté rabbiosamente un braccio sull’acqua, sollevando uno schizzo cristallino e fissando Lorenzo con gli occhi ancora sgranati. «Idiota!» gli urlò. «Brutto cretino! Deficiente!».
Al sorriso, sul viso di Lorenzo, si sostituì un’espressione corrucciata e seccata per gli insulti. Michele si accorse persino che era scalzo, quindi, a quanto pareva, aveva avuto il tempo anche per togliersi gli zoccoli e riflettere su come giocargli quello scherzo così di cattivo gusto.
«Non è mica successo niente!» esclamò Lorenzo, con le sopracciglia aggrottate.
Michele si agitò smuovendo l’acqua. «Pensavo ci fossi caduto dentro, scemo! Cristo santo»
Lorenzo lo squadrò accigliato ancora per poco, poi rise tra sé.
Non sapeva se la statua della venere fosse ben fissata alla roccia ornamentale o vi fosse solo appoggiata, così era circospetto nell’agganciarvisi su, appoggiando più il peso sui piedi doloranti per il sasso sottostante. Da lì vedeva qualche carpa muoversi come una macchia scura, vedeva attraverso l’acqua pulita dal fondo verdastro il corpo galleggiante di Michele, coi pantaloni che fluttuavano e la poca luce che disegnava macchie più chiare sul petto. Si staccò cautamente dalla statua e si sporse verso il laghetto, poi si sporse in avanti e si buttò con un tonfo fragoroso nell’acqua tiepida. Risalì pulendosi gli occhi e sgambettando verso Michele.
Il suo amico si era già spostato verso le rive sassose, nel punto in cui non bisognava passare in mezzo alle erbe che sbucavano dall’acqua. «Non fare tutta quella confusione, la Zina ci sente» gli sibilò.
Lorenzo lo raggiunse frusciando nell’acqua. «Aspetta un attimo, dai». Sorrise, inseguendolo prima che risalisse. Si era accorto che s’era offeso per la sua trovata, ma non che questo riuscisse a farlo sentire in colpa.
«Ma vuoi metterti a fare un bagno qui?».
Lorenzo lo raggiunse e lo prese per un braccio. «Ci siamo già a fare il bagno. Voglio vedere quella parte là».
Si voltò e guardò oltre la venere, dove il laghetto era coperto alla vista dagli alberi pendenti e dai ciuffi di canne ed erba che crescevano fuori dall’acqua. Sulla superficie c’erano, dove l’acqua non si spostava quasi mai, delle piccole fogliette tonde, alcune erano rimaste attaccate alla pelle di Michele e ai capelli di Lorenzo, e quest’ultimo era certo che, risalendo con la testa proprio in mezzo a quella superficie verde scuro, sarebbero tutti e due somigliati a mostriciattoli d’acqua. Avrebbero anche potuto vivere nel laghetto e farsi portare da mangiare dalla Zina dei dolci tutti i giorni.
La parte inesplorata del lago era pervasa da un’atmosfera intrigante e misteriosa che, se solo da piccolo non avesse avuto troppa paura per tornare lì, gli avrebbe ispirato viaggi d’esplorazione e giochi di ogni genere. Adesso voleva nuotare fino in mezzo alle piante spinto da una curiosa euforia. Era quasi sicuro che osare spingersi così lontano da solo gli avrebbe fatto paura, pensando che potevano esserci serpenti o che una grossa bodda gli avrebbe potuto saltare sulla faccia, tanto grossa quanto quel rospo che una volta, dopo un giorno di pioggia, aveva trovato nascosto sotto una foglia di lattuga, nella casa di sua cugina. Era così enorme che l’aveva spaventato, anche se era un maschio. Però con Michele acquistava tutto un altro gusto avventuroso e piccante.
Michele, comunque, adorava fare la parte del razionale. «E dai, cosa ci si va a fare, là? Usciamo».
Lorenzo gli fece una smorfia e lo tirò scalciando nell’acqua. «Hai fifa» ghignò.
«Ma non è vero!».
«E allora dai».
L’acqua non era fredda, ma la pelle di Michele risultava ben più calda. Quello sbuffò e grugnì disapprovando, tuttavia Lorenzo era troppo entusiasta per essere contrastato con blande proteste.
Lo costrinse con uno sciacquio ad oltrepassare la statua grigiastra della venere ed allontanarsi nel laghetto.

Nelle orecchie dei due ragazzini ci fu per un po’ solo il suono liquido dell’acqua del laghetto che si spostava e s’increspava fino a frangere lentamente sul bordo. All’inizio Lorenzo aveva tenuto il braccio di Michele, neanche volesse essere sicuro che il suo amico non scappasse all’improvviso per andare in piazza con gli altri ragazzi e con Annuccia, poi dopo l’aveva lasciato e, silenziosi come le carpe, avevano iniziato a nuotare a rana nell’acqua brillante. Allontanandosi dall’ombra dalla casa di sasso il laghetto riluceva del verde delle piante, che proiettavano le loro sagome scurendo sotto le loro chiome.
L’erba sorgeva alta anche in mezzo alle pozze e i due aggiravano i ciuffi color smeraldo facendo attenzione a non toccarne le basi viscide coi piedi.
Il lago, scoprirono, aveva una forma simile ad un otto. La prima pozza davanti al prato, vicina alla casa, si restringeva nel mezzo al giardino in un corridoio, che era la parte che attraversarono tenendosi il braccio. Poi si lasciarono nella parte successiva, un’altra pozza più grande dal bordo irregolare e pieno di curve, con delle rocce centrali che avevano, sulla cima, lo zampillio di una fontanella. Su uno dei sassi c’era appoggiata la statuetta consumata e sporca di muschio di un gatto di ceramica lucida.
Lorenzo fu il primo ad interrompere quel silenzio dal'odore muschiato. «Grazie, comunque» disse.
Michele alzò gli occhi, uscendo col mento dall’acqua. «Per cosa?».
Lorenzo sorrise, stringendo gli occhi contornati dalle ciglia scure e imperlate di goccioline. «Beh, ti sei tuffato, no?».
«Oh. Sì». Tacque poi improvvisamente, non si sentiva più neanche lo sciacquio del suo corpo che nuotava con lentezza, tanto che Lorenzo fu quasi indotto a girarsi per controllare, ma prima che ne avesse il tempo sentì un movimento vicino allo stomaco. Il braccio di Michele gli circondò la vita ed ancor prima che potesse scostarsi arrossendo Michele gli appoggiò una mano sulla spalla per buttarlo sott’acqua.
Lorenzo finì sotto con la bocca piena d’aria e gli occhi spalancati, dove la sorta di urlo di guerra di Michele gli giunse come un gorgoglio.
Mosse freneticamente le braccia per risalire, contrastato da Michele. “Mi manca il fiato, lasciami!” avrebbe voluto gridargli, ma non uscì che un brontolio in un turbine di bollicine. Lo prese allora uno scatto convulso quando ingoiò un po’ dell’acqua schifosa del laghetto.
Michele, soddisfatto dell’operato, lo lasciò andare e quello uscì fuori con la testa annaspando e tossendo, tanto che poi lo stesso Michele, vedendolo più in difficoltà di quanto avesse desiderato metterlo, lo sorresse e mosse le gambe per portarlo verso il bordo sassoso. Fu quasi sicuro di aver dato un calcio ad una carpa che sgusciò via in fretta con un guizzo luminoso.
«Che cavolo fai, porca miseria?!» gridò Lorenzo con la voce che raspava, sputando la saliva in cui sentiva il cattivo sapore dell’acqua stagnante.
«Mi vendico. Così impari a farmi quegli scherzi stupidi. E non lo rifare più» rispose Michele, con un tono secco ma dal suono decisamente soddisfatto.
Lorenzo lo accusò, puntandogli in faccia gli occhi scuri. «Mi volevi affogare!».
«No che non volevo affogarti, ti ho tirato su».
Lorenzo si resse ancora a lui per un momento poi, improvvisamente insofferente a tutta l’acqua che lo circondava e che gli arrivava al collo lasciando una piccola scia di pezzetti di alga e legnetti sulla pelle, si aggrappò ai sassi del bordo e scalciò per issarsi su, producendo schizzi e agganciandosi all’erba. Tra le dita gli era rimasta qualche alga verde. «Sei uno scemo!» esclamò.
Michele sbuffò, risalendo a propria volta con un po’ più di calma. «Tu di più».
Lorenzo si stava togliendo la camicetta bianca appiccicata al corpo; nei gomiti se l’era già sporcata di verde erba, così come i pantaloni all’altezza delle ginocchia, e certamente sua madre gli avrebbe gridato che era un monellaccio e non sapeva tenersi i vestiti puliti e che stavolta ci sarebbe andato lui a lavarseli alle pozze. Se per caso era davvero intenzionata a non lavarli, comunque, Lorenzo faceva il furbo e andava a metterli di nascosto nella cesta della zia, la mamma di Annuccia, poi se li faceva riportare dalla cugina.
Si gettò a pancia in su sull’erba folta, all’ombra di un albero che rendeva l’aria umida. L’acqua colava a terra dai capelli appiccicati. Intanto Michele si stava alzando in piedi e si strizzava la chioma castana.
Lorenzo stringeva le labbra e guardava ostinatamente il soffitto di foglie bucherellate di luce, sentendosi appiccicare l’erba alla schiena; Michele si sedette di fianco a lui, grondante.
«Tanto lo so che quando eravamo piccoli mi avevi fatto la respirazione bocca a bocca» sentenziò improvvisamente Lorenzo con il chiaro tono compiaciuto ed un po’ malizioso di chi voleva infierire per prendersi una sicura rivincita.
Michele si voltò strabuzzando gli occhi. «Non l’avevo fatta, ti avevo premuto il petto per farti sputare l’acqua».
Lorenzo sogghignò ed alzò una mano fino qualche centimetro sopra il proprio viso. Sotto al braccio erano rimasti attaccati piccoli sassi e trucioli e l’erba aveva lasciato un leggero segno. «E allora perché avevo il tuo viso a tanto così? Me lo ricordo, sai?». Poi appoggiò la mano a mezz’aria sullo stomaco.
«Ma figurati se me lo ricordo!».
Il loro dialogo coperto dal verde del giardino sembrava più agitato scambio di battute, con Lorenzo che stuzzicava e Michele che non sapeva come venirne fuori. Magari negava pensando, come sarebbe stato comprensibile, che a Lorenzo l’idea facesse schifo. E per questo era così a disagio, per questo si sentì persino imbarazzato quando Lorenzo aggrottò le sopracciglia e si sporse di lato dicendo: «Certo che te lo ricordi». Strinse le labbra nella forma di un bacio infantile, a schiocco, come quello che sua cugina da spesso sulla guancia di sua mamma. «Mi hai baciato» sentenziò poi.
Michele lo guardò ad occhi spalancati, passò la mano nei capelli castani per asciugarli tanto per impegnarla in qualcosa, ed intanto Lorenzo si tirò su ed incrociò le braccia. Sulla schiena aveva appiccicata l’erba e qualche frammento di terra, aveva ancora la pelle umida e lo fissava. «Vero?».
Michele pensò che lo sfidava, non era affatto schifato, non gli pareva proprio. Restava lì ad aspettarlo con la sua faccia tosta e mentre gli occhi di Michele scattavano da lui alle piante, alla sua camicia fradicia sull’erba, si accorsero che Lorenzo, con le dita, si tormentava le unghie della stessa mano. Allora pensò che era solo un ragazzetto di un anno e mezzo più piccolo di lui. Fremevano tutti e due allo stesso modo.
Appoggiò una mano sulla terra e si sporse. Con tutto il coraggio che aveva ed avvertendo in sé una stretta di timore e di eccitazione, sussurrò: «Sì».
Vide il piccolo sussulto che fece trattenere il respiro a Lorenzo e vide che non si ritraeva e neanche gli faceva ribrezzo, ed allora, rabbrividendo ed arrossandosi in viso per quel turbarsi di qualcosa mai sperimentato, che neanche si dovrebbe fare, in un miscuglio tra il desiderio di ritrarsi e scappare in fretta e quello di continuare, gli mise una mano sul collo e lo baciò sulle labbra. Gliele premette sopra, vedendo chiaramente tutti gli istanti della sua azione, fino alla pelle liscia del suo viso. Gliel’avrebbe fatta vedere la respirazione bocca a bocca, l’avrebbe anche preso in giro con un po’ di superbia per essersi fatto baciare così se non fosse stato così tanto terrorizzato dal suo gesto.
Terrorizzato al punto da rabbrividire impetuosamente e da sentire il morbido della sua bocca contro la sua. Pensò che fosse proprio morbida anche mentre serrava gli occhi e sentiva Lorenzo schiudere le labbra e approfittare di quando prendeva fiato per infilare la lingua nella sua bocca, Lorenzo che tremava come lui ma l’aveva già preso per le spalle e gli si avventava addosso.
Le lingue umide si toccarono e Michele lo trovò un contatto destabilizzante e provocatorio, eccitante, Lorenzo lo sentì caldo, elettrizzante. Gli s’infiammò tutto il viso ed il corpo.
Si toccarono col petto nudo e si trovarono abbracciati con quel bacio poco casto e poco centrato che continuava, veloce e confuso, dove tutti e due si lasciavano andare, ancora inesperti e impulsivi, e come andava andava, bastava averci in bocca la lingua dell’altro e premere le labbra le une sulle altre.
Michele pensava che stava baciando un maschio, stava baciando Lorenzo, però non si staccava e si teneva stretto il suo corpo umidiccio ed un po’ sporco d’erba. Lorenzo pensava che anche se era Michele andava bene, gli piaceva, era sconcertante come gli piacesse quel senso di eccitazione, di fiato che mancava, l’attorcigliarsi delle lingue, tanto che dare il suo primo bacio ad un maschio non era importante.
Continuarono finché l’eccitazione da ragazzini non fu soddisfatta almeno in parte, il tempo per cambiare posizione, perché ormai i sassolini si erano piantati nelle caviglie anche attraverso i pantaloni e le schiene rigide e leggermente inarcate facevano male. Si rilassarono, allora, ed appoggiarono le guance le une sulle altre, accaldate. Persino l’acqua sui loro corpi era diventata tiepida.
Lorenzo abbracciò Michele, il suo amico che non sapeva neanche più se poteva chiamare così, e scostò il viso dal suo dopo aver ripreso fiato. Lo guardò negli occhi e scrutò la pupilla nera e l’iride marrone, acquose come le sue ed allargate, forse solo un po’ più scosse.
«Mi dai un altro bacio?» sussurrò.
Michele trattenne il fiato. Era rosso in viso, come una mela, e attorno c’era silenzio ed il cinguettare di qualche uccellino tra i rami verdi. Nel naso avevano l’odore dei corpi e dell’acqua del laghetto.
«Ma è roba da…».
Michele si fermò, intimorito, e continuò Lorenzo per lui. «Da finocchi». Lo guardò in viso, arcuò un po’ le sopracciglia e spostò lo sguardo sul suo busto per non doverlo fissare negli occhi o in faccia. Però ebbe un altro brivido, come se l’acqua asciugata gli avesse fatto venire freddo.
Lorenzo incastrò meglio le gambe con le sue, lì in ginocchioni, e poi, d’improvviso, si sollevò un po’ e gli si piazzò quasi a cavalcioni, lì vicino alla patta dei pantaloni; lo attirò verso di sé tenendogli le braccia al collo, sulla nuca umida, deliberatamente per poter provare la sensazione dei capezzoli che gli sfioravano il petto. Rabbrividì e serrò la bocca, poi lo abbracciò più stretto.
«Baciami un’altra volta» gli disse di nuovo, a bassa voce.
Michele, per quanta paura avesse, lo fece, con un piccolo fremito d’abbandono e chiudendo gli occhi.

Si erano tirati sull’erba sopra la camiciola di Lorenzo, che avrebbe avuto di sicuro bisogno di essere lavata dalla mamma di Anna. Erano abbracciati, Lorenzo teneva il viso vicino al collo di Michele, ed avevano le gambe intrecciate, i pantaloni quasi asciutti. Ogni tanto si accarezzavano e si strusciavano appena, più teneri. Erano a scherzare nell’acqua fino a dieci minuti prima.
Non avevano avuto il coraggio di mettersi le mani nei pantaloni e toccarsi, probabilmente avevano solo immaginato di spingersi così in avanti, ma poi la vergogna della prima volta in cui si scambiavano quelle effusioni li aveva subito frenati ed avevano soltanto incrociato le gambe l’uno con l’altro, strusciandole un po’.
E poi erano rimasti lì coricati a calmarsi a prendere fiato. Lorenzo ogni tanto arrossiva e girava il viso per nasconderlo. Celati dal verde del giardino della casa, non sapevano come e se portare fuori da quel rifugio il loro bacio.
Si alzarono quando Michele si ricordò con allarme improvviso che le sue scarpe e la canotta, e le scarpe di Lorenzo, erano sul bordo del laghetto, proprio sotto la casa di sasso, e alla Zina sarebbe bastato affacciarsi da una finestra per scovarli.
Scapparono a piedi nudi sull’erba, saltellando quando le piante dei piedi finivano sopra rametti o piccoli sassi, intravedendo tra i cespugli il laghetto brillare, come coperto da scaglie di luce. Videro la statua della venere e poi la casa e miracolosamente i loro abiti erano ancora lì e la Zina non aveva visto niente. Si rivestirono, frettolosi, e percorsero in fretta la strada inversa fino all’orto odoroso. Da lì, dove iniziavano i filari di pomodori, si accorsero che la Zina era fuori, in piedi davanti alla porta di legno, con le mani unite sopra un grembiule da cucina e la testa leggermente chinata in basso. Si fermarono curvati tra le foglie e i viticci dei pomodori invece di scappare perché si accorsero dell’altra figura insieme alla vecchia donna, che le parlava. Al tavolo dal ripiano di coccio davanti alla casa, su una sedia di ferro battuto, stava seduto un giovane uomo, che aveva i capelli ordinati e pettinati all’indietro, neri come la camicia che indossava. La Zina era in piedi di fronte a lui.
Lorenzo sibilò sottovoce, rannicchiato tra le foglie. «E’ suo figlio, il fascista».
Michele gli gettò un’occhiata significativa: il padre di Lorenzo ne aveva parlato spesso dei fascisti, lui che parteggiava per i reazionari; allora si agganciarono tutti e due per gli abiti, presi dalla paura di esser visti, e scapparono fino alla staccionata. La scavalcarono e fuggirono via verso il paese, col fiato corto e una risata che stava per scoppiare nel petto, euforica. Si guardarono con quella luce entusiasta negli occhi, abbandonate le remore di Michele e gli scherzi sciocchi di Lorenzo.
Corsero giù per i poggi fino alla mulattiera che saliva per la collina, con gli abiti macchiati di verde, lasciandosi alle spalle solo l’odore del laghetto ed il profumo del basilico.





 

 
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Prima one-shot di questa raccolta di tre.
Avrebbe dovuto partecipare (non ho fatto in tempo XD) al Tricolore Challenge di Fanworld.it, il primo tema è il verde.
L'ambientazione, come si può vedere, è l'epoca fascista, e la zona è la Toscana, nel punto dove passerà poi la Linea Gotica. Per questo alcuni termini sono dialettali (bodda, per esempio, che è una grossa rana) e per questo c'è l'articolo femminile davanti a Zina, che è un'abitudine della zona. In questa prima parte, leggibilissima anche da sola e scindibile dalle altre due, non sono moltissimi i riferimenti storici, molto più presenti nelle prossime. Allo stesso modo, il tono della narrazione ed il rating cambieranno in modo piuttosto drastico.

Spero vi sia piaciuta. Ringrazio chi ha voglia di lasciare una recensione. **



Kupò.
   
 
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