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Autore: waferkya    27/06/2010    2 recensioni
[missing moment per la 4x10, La scatola cinese]
“Che devi fare di tanto importante, sabato sera?”
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Colby Granger, David Sinclair, Don Eppes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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— Il titolo l'ho preso in prestito dagli Underdog Project.



~ Saturday is the only day I wake up thinking about

because any other day is just another day.


“Che devi fare di tanto importante, sabato sera?”
Colby, molto perplesso dalla domanda, solleva gli occhi dal rapporto che stava scrivendo, e cerca sul volto di Don un indizio qualsiasi che lo convinca di aver capito una cosa per un’altra. Don, però, tranquillamente appoggiato contro la parete del suo cubicolo come se fosse il posto più comodo dell’universo, lo osserva con un sorrisetto compiaciuto e piuttosto inquietante, e Colby deduce di aver sentito più che bene.
“Chiedo scusa?”
Don ride, e si fa aria indolentemente con il fascicolo che aveva in mano, con quell’aria da attore consumato che gli sta tanto bene quando la usa sugli assassini e sugli stupratori seriali, ma che Colby non riesce veramente ad apprezzare, ora che è concentrata sul suo collo.
“David ha i biglietti per la partita dei Lakers, e ha invitato me perché tu non puoi accompagnarlo,” spiega Don, misericordioso. “Quindi, mi domandavo cosa avessi da fare di tanto irrinunciabile, sabato sera.”
“Oh,” replica Colby, illuminandosi. “Capisco. Devo dire che la parte della comare impicciona ti riesce molto bene.”
“Oh, andiamo, Colby,” ride ancora Don, che stamattina è talmente di buonumore da prendere l’insulto a cuor leggero – sta sviluppando un senso dell’umorismo? Colby non osa sperarlo. “Invece di dire cazzate, ringrazia il cielo che non ti ho ancora aperto una presa d’aria nel cranio, e bada che te lo meriteresti, mi hai messo nella tremenda situazione di dover dire di no a David e lo sai che—”
E Colby non saprà mai cosa ci sia di tanto drammatico nel dover dire di no a David, perché il sermone di Don è bruscamente interrotto da tutti i telefoni del piano, fissi e cellulari e persino i cercapersone, che cominciano a squillare contemporaneamente, in una sinfonia agghiacciante che può voler dire solo tragedia imminente.
“Che cazzo succede?” si allarma Colby, ma Don si è già gettato sul suo telefono: non fa una bella faccia, non spiccica una parola, e il fatto che perda colore col passare dei secondi non aiuta per niente il cuore di Colby a recuperare il suo normale ritmo di funzionamento.
“Ho capito,” mormora, infine, Don, e neppure chiude la chiamata, ma semplicemente lancia via la cornetta e si dirige verso le scale, facendo cenno a Colby di seguirlo.
“Don, che succede?”
Però Don non apre bocca, e intorno a loro s’è scatenato il pandemonio, perché i telefoni continuano a squillare e non c’è nessuno che abbia il coraggio di rispondere, e a questo si è aggiunto il trillo assordante dell’allarme degli ascensori; si sentono delle sirene provenire da fuori, Colby le riconosce come quelle di un’ambulanza, e i nervi scattano a fior di pelle: afferra Don per un braccio prima che riesca ad aprire la porta che dà sulle scale, e lo strattona per guardarlo in faccia.
“Don. Dimmi che cazzo sta succedendo.”
Don sospira e si passa una mano sulla faccia, e un po’ riacquista colore.
“Un pazzo armato è entrato nell’atrio e ha sparato due volte ad un agente, poi si è rinchiuso nell’ascensore.” Sospira di nuovo, più a fondo, e quando parla di nuovo sembra che stia trascinando a mani nude un camion in mezzo al deserto. “Ha preso un ostaggio.”
Il cervello di Colby corre veloce, mettendo insieme le informazioni – una sparatoria, le ambulanze, è in ascensore, nell’atrio. Ha un ostaggio. Don bianco come un lenzuolo.
“Megan e David erano nell’atrio,” mormora, così piano che quasi dubita di aver parlato del tutto, ma Don china la testa per un secondo, così sconsolato che Colby non ha bisogno di sentire altro.
“È David l’ostaggio.”
Non ha neppure finito di parlare che Colby è già sulle scale, scende i gradini a tre a tre per chissà che fretta di arrivare giù e scoprire che è tutto uno scherzo. Don lo segue di corsa, sbuffando appena per la sua impazienza e cominciando a chiedersi che cosa cazzo dovranno fare, a quale santo in Paradiso dovranno affidarsi per riuscire a tirar David fuori di lì sano e salvo.

 

 

Mentre osserva la polizia di Los Angeles che porta via il loro pazzo paranoico, e veramente non riesce a credere che sia tutto finito, Don realizza che l’unica cosa da fare era fidarsi di Charlie – ovviamente, aggiunge una voce un po’ petulante sul fondo della sua testa. E se solo non fossero tutti così drammaticamente incapaci di capire tre quarti delle cose che Charlie tenta loro di spiegare, probabilmente avrebbero salvato il culo di David molto più in fretta, e si sarebbero risparmiati una bella dose di terrore. Triste verità.
Parecchi piani più su, neppure Colby riesce a mettersi l’anima in pace, e quasi non riesce a guardare David che scherza serenamente con qualche collega; non sa rassegnarsi al fatto che ne sia uscito vivo, vivo davvero, saldo sulle sue gambe e appena un po’ preoccupato, ma vivo, non tragicamente ammazzato dal loro nuovo amico fuori di testa.
Non è stato per niente divertente, sentire il peso della vita di David direttamente sulle proprie mani; quand’era appeso per i fianchi nel pozzo dell’ascensore, e due metri sotto di lui il suo migliore amico avrebbe potuto essere morto o mezzo annegato nel suo stesso sangue, Colby non solo non riusciva a respirare, ma nemmeno sentiva il proprio cuore battere.
E adesso che la tragedia non è neppure successa, non riesce ancora ad archiviare la paura, le ginocchia molli, le sabbie mobili in cui ha cominciato ad affondare quando ha visto lo stallo alla messicana – con psicopatia bonus, che ci sta sempre bene – dentro l’ascensore.
David gli viene incontro con un sorriso che stona tremendamente con la giornata, con l’umore di Colby.
“Grazie,” dice, stringendogli una mano sulla spalla; non c’è bisogno di altro. Colby lo trattiene fermo davanti a sé semplicemente guardandolo, incerto. David piega un pochino la testa da un lato, ed è il suo modo di chiedergli che c’è che non va. In risposta ottiene un sospiro un po’ stanco, e una scrollata di spalle.
“Ce li hai ancora, quei biglietti per sabato?”

  
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