Nebbia.


“Non lo fare!”
Le parole le uscirono veloci dalle labbra socchiuse, senza che se ne rendesse conto. Spasimando, cercarono qualcuno che le potesse udire, accogliere. Qualcuno che sapesse ascoltare quel richiamo pieno d’angoscia. Colmo di terrore.
Poggiò con forza la mano ossuta sulle labbra tremanti.
Gli occhi, spalancati, guizzavano in ogni dove.
Destra, sinistra, destra, sinistra.
Dov’era la fine?
Dov’era l’inizio?
Perché non vedeva nient’altro che nebbia?
Il grigio la opprimeva. Era rinchiusa in quelle mura inesistenti, in quelle mura che non si potevano abbattere. Eppure continuava a muoversi, veloce.
Correva. Correva in qualsiasi direzione. Perché non riusciva a raggiungerla?
“Non lo fare, non lo fare, non lo fare!”, le parole le morivano in gola.
Nessuno udiva le sue grida.
Era sola.
Si accasciò. La fronte poggiata sul pavimento. Sentiva l’odore del ferro con il quale era stato costruito quel ponte – o forse era scomparso anche lui in mezzo a tutta quella nebbia? – pizzicarle le narici, mentre il sudicio e lo sporco le imbrattavano la fronte. Perché non riusciva a vedere neanche le sue mani? Perché non riusciva neanche a sentire la sua voce?
Quasi non respirava.
Poi la sentì piangere.
Sorrise, sperò.
Quasi le sembrò di vederla, sull’orlo di quel ponte. Scendere, ridere. Quasi le sembrava di sentire il suo soffice corpo tra le braccia. Quasi le sembrò di baciarla.
E sorrise, gli occhi gonfi di felicità.
“Scusami”.
Perché non la sentiva più piangere?
Dov’era il suo corpo tra le braccia?
Perché sentiva solo il vuoto?
“Non lo dovevi fare”, un sussurro.
Poi chiuse gli occhi.



SweetSins.