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Autore: morgana85    10/07/2010    7 recensioni
Dal testo:
(...) Era tornata.
Riconoscere nell’aria il suo profumo – gelso e robinia e vento – fu la conferma dei suoi presentimenti. Nonostante non sapesse per quale motivo fosse nuovamente a corte, al solo pensiero di poterla rivedere, di averla nuovamente al suo fianco – lei, unica stella fissa e lucente in un universo in continua evoluzione – si sentì invadere da uno strano calore.
Lasciò vagare lo sguardo davanti a sé, lungo le pareti di pietra dell’ampia aula della cappella in cui si trovavano, su fino al soffitto a volta, dove in uno sfavillio di oro e blu lapislazzuli era affrescato uno stralcio di cielo stellato. Cercando di riconoscere tra i molti volti che si affollavano in ogni angolo, i tratti familiari che tormentavano le sue notti e popolavano i suoi giorni.
Perché in fondo la sua vita non era stata altro che l’estenuante ricerca di lei.
Dell’altra perfetta metà di sé stesso. (...)
[Storia partecipante al contest [Leggende Arturiane] Il Contest di Camelot indetto da SakiJune e Arthurian maiden in collaborazione con il sito Camelot, la patria della cavalleria]
Genere: Malinconico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Artù, Ginevra, Morgana
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sospiro.

Ricordo di lei
 
 
 
 
Io non sono la Tavola, non sono un'idea.
Tutt'al più posso esserne il cattivo servitore;
ma innanzitutto sono una carne
che ama un'altra carne: Morgana.
 
 
Si mosse nuovamente, cercando una posizione più comoda sul trono dall’alto schienale, simile ad un bambino annoiato per essere rimasto fermo troppo a lungo.
Avvertiva distintamente sotto la pelle la strana sensazione che lo aveva reso inquieto per tutto il giorno, e che sembrava non avere alcuna intenzione di concedergli una tregua. Conosceva quel brivido intenso lungo la schiena, accompagnato dall’irrefrenabile attrazione verso qualcosa che in realtà non riusciva mai ad afferrare. Sapeva a cosa era dovuto, e realizzare quale effetto avesse ancora su di lui lo colpì come una sferzata di vento gelido.
Era tornata.
Riconoscere nell’aria il suo profumo – gelso e robinia e vento – fu la conferma dei suoi presentimenti. Nonostante non sapesse per quale motivo fosse nuovamente a corte, al solo pensiero di poterla rivedere, di averla nuovamente al suo fianco – leiunica stella fissa e lucente in un universo in continua evoluzione – si sentì invadere da uno strano calore.
Lasciò vagare lo sguardo davanti a sé, lungo le pareti di pietra dell’ampia aula della cappella in cui si trovavano, su fino al soffitto a volta, dove in uno sfavillio di oro e blu lapislazzuli era affrescato uno stralcio di cielo stellato. Cercando di riconoscere tra i molti volti che si affollavano in ogni angolo, i tratti familiari che tormentavano le sue notti e popolavano i suoi giorni.
Perché in fondo la sua vita non era stata altro che l’estenuante ricerca di lei.
Dell’altra perfetta metà di sé stesso.
E nonostante fosse a conoscenza di quanto fosse sbagliato ciò che provava per quella donna – sua sorella – in un misto di amore, desiderio, possesso, non poteva farne a meno.
Colse un movimento leggero, poco più che un fruscio di abiti oltre l’alone luminoso delle torce. Guardò con più attenzione, ma nessuno sembrava essersi accorto di niente.
«…e che Dio ti conceda la capacità di riconoscere il giusto, la volontà di sceglierlo e la capacità per conservarlo»*. Una voce femminile, dai toni dolci ma decisi, vibrò nell’aria accompagnata dal baluginio argenteo di una spada. «In qualità di consorte del Grande Re, e con il potere di questa santa spada, vi vincolo al vostro giuramento». Vide la lama posarsi con delicatezza prima su una spalla del giovane inginocchiato al centro della sala, poi sull’altra.
Si concesse la libertà di osservare la donna poco distante da lui, in silenzio e da lontano, quasi fosse la prima volta. Risalì con gli occhi lungo il filo della spada, poi l’elsa, incontrando la mano che la reggeva, e ancora più su, percorrendo il braccio e la curva gentile della spalla, fino al viso.
Immersa nella pozza di luce lattiginosa proveniente dalla grande finestra alle sue spalle, Ginevra aveva sembianze più angeliche che umane. Il candore virginale dell’abito – morbido velluto impreziosito da inserti dorati, che le accarezzava il corpo come acqua – e i lunghi capelli color del grano adornati da una semplice corona, la rendevano eterea e perfetta. Abbracciata dal pallido sole invernale sembrava fluttuare, leggera come un gabbiano.
C’era stato un tempo in cui aveva creduto che fosse lei la sua vera ragione di vita, quello che aveva sempre cercato, prima ancora di Camelot e dei suoi ideali.
Con la sua bellezza e la sua timida dolcezza lo aveva completamente rapito. Nonostante il loro fosse stato un matrimonio combinato, lui l’aveva amata da subito. Per lei non era stato così semplice. Poco più che bambina, lontana dalla sua terra e dalla sua famiglia, data in moglie ad un perfetto sconosciuto per semplici ragioni di stato. I primi tempi erano stati difficili, imparare a conoscersi più complicato di quanto avevano creduto. C’era sempre qualcosa tra loro, un velo sottile, poco più di un’ombra, che non gli permetteva di abbandonarsi completamente uno all’altra.
Con il passare degli anni, la mancanza di un figlio e l’amore segretamente coltivato da Ginevra per Lancillotto, avevano incrinato il già fragile equilibrio che con fatica avevano costruito.
Senza poter muovere alcuna resistenza, aveva visto dissolversi come nebbia mattutina l’illusione che lui stesso aveva creato. La sfera di cristallo che aveva circondato la sua vita fino a quel momento si era scheggiata, andando lentamente in frantumi.
E improvvisamente si era reso conto di aver rinunciato ad un’importante parte di sé, e di esserne rimasto separato troppo a lungo.
 
La grotta in cui lo avevano condotto era ampia e fredda, l’aria pregna di incenso era umida e gli appiccicava gli abiti leggeri alla pelle.
Alla luce fioca della lampada che gli avevano affidato, intravedeva il suo stesso respiro condensarsi in sbuffi di vapore. Riusciva a scorgere ben poco dell’ambiente che lo circondava, se non le due grandi colonne alle sue spalle e i disegni appena accennati alle pareti.
Un’improvvisa ondata di calore lo avvolse, così intensa da renderlo instabile sulle gambe. Chiuse gli occhi, cercando di trovare la tranquillità necessaria a placare il tremore delle mani. Li riaprì solo quando avvertì una presenza conosciuta al suo fianco. Il solito profumo di bacche rosse e gigli gli solleticò il naso, facendogli alzare lo sguardo verso la donna che ora gli stava accanto. Era bella e austera come sempre e l’abito dai preziosi ricami color rame la faceva sembrare una regina.
«Che ogni cosa si compia». La voce della donna risuonò cristallina, scorrendo lungo le pareti di pietra e verso l’alto soffitto. Quando si voltò verso di lui, l’espressione dei suoi occhi era dolce, «che la tua luce possa riportare la speranza». Gli baciò la fronte, prima di lasciarlo solo.
Nella penombra, tra le volute d’argento a qualche passo da lui, vide il volto del suo destino.
 
Sollevò appena le maniche della tunica, svelando i due serpenti azzurri che portava tatuati dal giorno della sua consacrazione. Gli avvolgevano sinuosi i polsi, fino al gomito. Nel bagliore tremulo delle torce sembrarono quasi guizzare, in una confusione di ombre e luci.
Ogni volta che chiudeva gli occhi, prima di cedere all’oblio del sonno, vedeva risorgere vivide come appena vissute, le immagini di quel giorno. Sentiva l’odore forte e pungente della pelle di cervo non ancora conciata, la consistenza vellutata dei lunghi capelli di Morgana – fili di seta pregiata che scivolavano tra le dita - il battere ritmico dei tamburi che accompagnavano le sacre danze attorno al fuoco.
Ricordava ogni cosa, ogni più insulso e piccolo particolare di quella notte.
E di tutto ciò che ne era conseguito.
 
La sentì tremare sotto di lui, mentre scendeva a baciarle il seno. Sembrava intimorita, i muscoli tesi e i sensi vigili ad ogni movimento.
Non sapeva come aiutarla, non aveva esperienza con le donne. Era terrorizzato quanto lei.
Cercò nuovamente le sue labbra, sfiorandole appena, assaporando il suo alito caldo sul viso. «Non voglio farti male». Erano le prime parole che le rivolgeva. Ogni gesto fino a quel momento era stato accompagnato solo dal silenzio e dal lieve crepitare delle torce. Si sorprese quando fu lei a baciarlo, schiudendo le labbra e permettendo alle loro lingue di incontrarsi. Aveva un buon sapore, vino speziato e mele.
Le accarezzò delicatamente un fianco, solleticandole il ventre e, con una scelta audace, arrivando tra le sue cosce. La sentì sussultare, mentre un gemito le sfuggì dalle labbra socchiuse. Non resistette oltre, tornando a baciarla con un’urgenza che non aveva mai provato, stringendola contro di sé, in balia del suo calore.
Si beò dei suoi mugolii di piacere, dei suoi ansiti che gli accarezzavano il collo, godendone come un assetato sopravvissuto alla traversata del deserto.
Rabbrividì di piacere quando riuscì a scivolarle tra le gambe, trovandosi completamente adagiato su quel corpo minuto e fragile, a contatto con la sua pelle dal profumo inebriante. Trattenne il respiro quando si fece largo in lei, con un’unica spinta decisa, accompagnata dal suo grido di dolore.
Prima che istinto e desiderio prendessero il sopravvento, naufragò nei suoi occhi scuri come il mare in inverno, memorizzando i tratti di quel volto delicato e giovane, consapevole che non l’avrebbe mai dimenticato.
 
L’aveva amata come non avrebbe mai amato nessun’altra. Le aveva donato ogni cosa di sé, e lei aveva accolto le sue offerte con mani gentili, custodendole come un tesoro tra gli infiniti veli d’ombra dei suoi occhi.
Quando i loro corpi si erano uniti per la prima volta, non avevano condiviso solo l’infinito piacere dei sensi. Era bastato un semplice sfiorarsi di sguardi per comprendere che erano destinati ad appartenersi, ancora prima di conoscere i rispettivi nomi, ancora prima della loro venuta al mondo.
Aveva avuto la sensazione che si conoscessero da sempre. Quando aveva posato il capo sul suo grembo, o la vellutata carezza della sua voce che sussurrava una canzone antica lo aveva cullato come un bambino, era sicuro di aver già vissuto ogni cosa. Quasi fosse il ricordo di una vita lontana, che ritornava come il lento incedere delle onde sulla spiaggia.
Scoprire che quella misteriosa fanciulla era sua sorella fu la fine e l’inizio di ogni cosa.
Quando i preti e i vescovi del suo Consiglio avevano scoperto l’atto che era stato consumato, avevano gridato all’abominio. Un peccato mortale che avrebbe eternamente macchiato la sua purezza.
Avrebbe dovuto fare ammenda e confessare le sue colpe, risanando la sua anima dalla dannazione delle fiamme dell’inferno.
Avrebbe dovuto allontanare dalla corte la donna che lo aveva sedotto con le sue arti malefiche, e pregare per la sua salvezza.
E lui, giovane e ingenuo, l’aveva lasciata andare.
Aveva rinunciato a lei.
Aveva rinunciato alla parte più importante di sé.
«Ora potete alzarvi Cavaliere. E che la vostra ricerca vi porti l’onore che meritate». Tornare alla realtà fu difficile, dolorosamente difficile.
«Vi ringrazio, mia Regina. Tornerò vincitore, per voi e per Camelot». Con un ultimo inchino vide il giovane cavaliere alzarsi, per poi rivolgersi a lui. «Con il vostro permesso, mio Re, vorrei prendere congedo alle prime luci dell’alba».
Si alzò, avvicinandosi a Ginevra, «Che la vostra ricerca abbia inizio nel momento che ritenete più opportuno. Ma concorderete con me che questo deve essere un giorno di gioia e non di lacrime. Questa notte festeggeremo in onore al vostro coraggio». Un grido di acclamazione risuonò tra le mura della cappella, come un improvviso tuono in un pomeriggio d’estate. «È solo un arrivederci, e a Dio piacendo sarete presto nuovamente con noi».
Guardò senza in realtà vedere la gente che lentamente defluiva, componendo il maestoso corteo che avrebbe accolto lui e la regina nel salone dei banchetti.
Fu in quel momento che la vide. O forse riuscì a scorgere solo il riflesso della sua ombra, ma fu più che sufficiente.
Strinse con forza la presa sulla mano di Ginevra, in silenziosa attesa accanto a lui, tanto che percepì il suo sguardo preoccupato. «E’ accaduto qualcosa, mio signore?».
Le rivolse un sorriso incerto, «No, niente. Perdonate l’irruenza del mio gesto». Si chinò a baciarle il dorso della mano, in una lieve carezza. Quando sollevò lo sguardo, notò che aveva le gote arrossate. «Se non vi dispiace, vorrei uscire a prendere una boccata d’aria prima di unirmi ai festeggiamenti».
«Se lo desiderate, posso farvi compagnia».
«L’assenza sia del Re che della Regina desterebbe sospetti. Potrebbe diventare un succulento pettegolezzo in breve tempo». Le sorrise nuovamente, questa volta con una sfumatura di malizia. «Tornerò ancora prima che si accorgano della mia assenza. Ma a chiunque ve lo domanderà, rispondete che Merlino ha richiesto udienza». La vide allontanarsi seguita dalle dame di compagnia, ma non gli sfuggì il dubbio che aleggiava in quegli occhi azzurri solitamente limpidi.
Attese di essere completamente solo, prima di guardarsi nuovamente attorno, questa volta con più attenzione.
Ebbe quasi un sussulto quando la trovò, seminascosta da una delle grandi colonne sul lato sinistro della cappella. Era strano vederla lì, tra le mura di un santuario cristiano, proprio lei, sacerdotessa dell’antico culto. Eppure non appariva a disagio, né ansiosa di volersi allontanare. Sembrava quasi raccolta in preghiera, assorta nei propri pensieri.
Chiuse e riaprì gli occhi un paio di volte, solo per avere la conferma di non stare vivendo un sogno in pieno giorno. L’ennesimo. Un lieve sorriso gli incurvò le labbra alla consapevolezza che non sarebbe scomparsa, non quella volta.
Mosse qualche passo, con lentezza, riempiendosi i polmoni dell’odore dolce della gioia, osservando la figura di sua sorella farsi sempre meno lontana, più reale. Ascoltò rapito il battito accelerato del suo cuore, che come il ritmo cadenzato di una danza lo portava più vicino a lei.
La vide incedere elegante come una libellula tra le volute vaporose d’incenso, leggera e silenziosa. L’abito di velluto blu scuro intessuto d’argento le aderiva al corpo minuto e snello, seguendo ogni sua movenza. Nonostante non fosse più una ragazzina, portava i lunghi capelli sciolti sulle spalle, neri e lucenti come le ali di un corvo. Appariva senza età, giovane come l’ultima volta in cui si erano incontrati.
Era di una bellezza misteriosa e ancestrale.
Quando furono vicini, lei non si inchinò né gli rivolse alcuna riverenza, come sarebbe convenuto di fronte al Grande Re. Semplicemente, permise ai loro occhi di incontrarsi. E fu inevitabile per lui cadere nelle profondità sconfinate di quello sguardo, infinito come il cielo sopra le loro teste. Era sconvolgente la luce antica che sembravano racchiudere - scrigno di cui nessuno possedeva la chiave – che brillava come polvere di stelle.
Capì di poter finalmente tornare a respirare. Lei era il porto sicuro in cui naufragare, dove lasciarsi cullare dallo sciabordio delle onde senza temere di essere sommersi.
La sua ricerca aveva trovato una giusta fine.
«Morgana», sussurrò appena, in un misto di timore e riverenza. «Morgana», ripeté, quasi a voler dare consistenza a ciò che credeva solo frutto di una strana magia. Alzò una mano, tremando, sfiorandole una guancia con la punta delle dita. Accarezzò la sua pelle, vellutata e calda come la ricordava. «Sembra trascorsa una vita intera dall’ultima volta in cui ti ho vista a corte». Le sorrise, scuotendo il capo, ancora incredulo, «Credevo non saresti più tornata».
«Ho vagato attraverso terre senza nome per troppo tempo», la sua voce era una melodia densa di sfumature. «Era giunto il momento».
«Ginevra sarà felice di accoglierti nuovamente tra le sue dame». Le prese le mani, portandole all’altezza del cuore, carezzandone con il pollice il dorso, in un gesto intimo e colmo di tenerezza. «Ed io lo sarò ancora più di lei». La attirò verso di sé, per poter godere del profumo dei suoi capelli. «Mi sei mancata».
Cercò i suoi occhi, meravigliandosi di trovarli spalancati in un’espressione di sorpresa. «Non dovresti stupirti, sento la tua mancanza da sempre, fin da quando ci divisero appena fanciulli». Avvertì il tremore che prepotente le percorse le mani, in un brivido che giunse anche a lui. «Quando soffri lo percepisco sotto la pelle. Quando non riesci a prendere sonno la notte, io sono sveglio nel mio letto. Quando pronunci il mio nome mentre sogni, riesco a sentirlo con la stessa chiarezza di un urlo di battaglia».
Troppo tardi aveva realizzato quanto il legame che esisteva tra loro andasse ben oltre la semplice parentela di sangue. Era qualcosa di molto più antico e inscindibile, forgiato dall’unione di anime affini. Li aveva accompagnati in ogni vita in cui si erano incontrati e riconosciuti, conducendoli in quella grotta, quella notte ormai persa oltre le nebbie degli anni trascorsi.
Cogliendola di sorpresa, spostò audacemente le mani sui suoi fianchi, stringendola in una morsa che sapeva di possesso e dolcezza. «Sai quello che provo per te». Parole mormorate vicino all’orecchio, mentre il suo alito caldo gli sfiorava la guancia, facendolo sospirare. Le sue labbra erano così vicine, così vicine.
Con decisione le mani di Morgana spinsero contro il suo petto, allontanandolo. Per la prima volta da che ne aveva memoria, lesse incertezza nel suo sguardo e paura e confusione. Ma il suo viso era composto e privo di espressione. «Non sono io la donna a cui dovresti rivolgere queste parole».
L’ira gli incendiò il sangue nelle vene, facendogli stringere i pugni fino a far sbiancare le nocche, «Sono stanco di rinnegare il vero. Sono un Cavaliere della Tavola Rotonda, maledico le menzogne. Da quella notte io…». Le voltò le spalle, camminando avanti e indietro come un leone chiuso in gabbia. «Come posso dire a Ginevra di amarla, quando in realtà non voglio altro che te!». Si accorse di aver urlato solo quando l’eco delle sue parole vibrò lungo le pareti della cappella.
«Dimentica», il suo sussurro non fu più alto di un alito di vento. «Dimentica quello che è accaduto».
«Ho già rinunciato a te per troppo tempo, non puoi chiedermelo». Senza riuscire ad arginare oltre il desiderio e la tristezza che gli agitavano il cuore, l’abbracciò con tutta la forza che la disperazione gli concedeva. Percepiva con ogni fibra del suo essere il corpo di Morgana premuto contro il suo, il seno alzarsi e abbassarsi al ritmo irregolare del respiro. Intrecciò le dita tra i suoi capelli, affondando il viso nell’incavo della spalla, quasi cercando di nascondersi da una realtà ingiusta.
Quanto sentì le piccole mani di sua sorella scivolare lente lungo la schiena, ricambiando la stretta con la medesima intensità, credette di perdere la ragione. Il desiderio di baciarla era troppo forte per essere arginato, qualcosa di primordiale a cui non era in grado di opporre resistenza.
A cui non voleva resistere.
«Vostra Maestà, tutti si stanno chieden…», la voce ridente di Ginevra si spense come la fiamma tremula di una candela. Rimase immobile, quasi pietrificata. Solo lo sguardo continuava a spostarsi da Artù alla donna che ancora stringeva tra le braccia. Seguì un infinito silenzio, in cui ogni loro respiro – così diverso, e così incredibilmente simile – era denso di parole taciute troppo a lungo.
«Ginevra, un ospite inatteso è venuto a farci visita», Artù le sorrise, facendole cenno di avvicinarsi.
«Con quale coraggio mettete di nuovo piede in questa corte?», sibilò, gli occhi ridotti a due fessure dardeggianti rancore.
«Mia sorella ha fatto un lungo viaggio, dà ordine di far preparare le stanze per Sua Altezza», cercò di ignorare il suo tono duro e colmo di disprezzo. «Stasera cenerà con noi, alla Tavola Alta».
«Mai!», Ginevra le puntò il dito contro, il respiro affannoso per la rabbia, «Non darò mai rifugio a quella strega! E’ lei la causa di tutte le nostre disgrazie!».
«Possibile che tu non abbia ancora dimenticato?». Con un gesto inconsapevole fece scudo alla sorella con il proprio corpo, cercando di proteggerla dalla cattiveria di quelle parole. Non avrebbe permesso a nessuno di separarlo ancora una volta da lei, non proprio ora che l’aveva ritrovata. «Non è stata colpa sua. Era inconsapevole quanto lo ero io».
«Il tuo amore per lei è un oltraggio alle leggi di Dio!».
«Non osare mai più rivolgere simili parole contro mia sorella». Era un ordine, sottolineato da un tono di comando che con lei non aveva mai usato prima.
«Perché continui a difenderla?», mormorò Ginevra, le lacrime che le offuscavano la vista. «Perché?». Lo guardò negli occhi, quasi supplicandolo di abbracciarla, di rassicurarla dicendole che andava tutto bene e che presto quella donna – che temeva e odiava dal profondo di sé stessa – sarebbe tornata oltre le nebbie che erano il suo regno di magia e inganni.
«Va con lei Artù». La voce di Morgana vibrò come un’eco lontana. Il Grande Re si voltò a guardarla, incapace di credere alle proprie orecchie. Cercò di protestare, ma ogni suo tentativo venne fermato con un semplice gesto della mano. «E’ la tua Regina, ha bisogno di te. Va con lei». Rivolse lo sguardo verso Ginevra, le iridi scure velate di tristezza. «Non allontanerei mai Artù da Camelot. Ma ricorda: verrà un tempo in cui nessuno potrà dividerci, nemmeno i tuoi preti». Ignorò lo sguardo che la donna le rivolse, avvicinandosi ad Artù con passi silenziosi. Gli prese il viso tra le mani, accarezzandogli i capelli come faceva quando erano bambini. Sollevandosi sulle punte, gli posò un bacio delicato sulla fronte. «Che la dea ti benedica, amore mio».
Non ebbe nemmeno il tempo di notare la lacrima che ribelle solcò il viso di Morgana, che un vapore argenteo e umido calò improvvisamente su tutta la sala. Pochi istanti, e di lei non era rimasto che il profumo, accompagnato dal ricordo del suo calore.
Aveva dovuto rinunciare ancora una volta a lei.
Stringendo i pungi e rivolgendo un ultimo sguardo al cielo stellato dipinto sopra la sua testa, promise a sé stesso che quella sarebbe stata l’ultima.
 
 
 
 
 
 
Note: Questa storia partecipa al concorso [Leggende Arturiane] Il Contest di Camelot indetto da SakiJune e Arthurian maiden in collaborazione con il sito Camelot, la patria della cavalleria.
 
Il bando prevedeva la scelta di un luogo e di due termini contrapposti. Come luogo ho scelto cappella e come temi ricerca/rinuncia.
Alcuni elementi sono ispirati al romanzo di M. Z. Bradley Le nebbie di Avalon, come ad esempio i tatuaggi che Artù porta sulle braccia o la consacrazione sull’Isola del Drago del futuro Grande Re.
Solo due piccole precisazioni:
· le parole citate e segnate con il simbolo (*) fanno parte di una preghiera, pronunciata da Re Artù all'inizio di ogni seduta della Tavola Rotonda, presente nel film Il primo Cavaliere, di Jerry Zucker
· la citazione all’inizio della storia è tratta da Artù, di Michel Rio
  
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