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Autore: metisket    12/07/2010    3 recensioni
E ora la sorella aveva un atteggiamento amichevole, a differenza di quando era pronta a tagliargli la gola con il coccio di una tazza. “Da questa parte, Signor Wenham!” disse con ciò che sembrava genuina disponibilità.
Questa gente stava male. Anche per gli standard degli scienziati. Anche per gli standard degli scienziati dell’Ordine.
Beh, pazienza.
“Chiamami Reever.”
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio , Komui Lee, Lenalee Lee
Note: Missing Moments, Traduzione | Avvertimenti: nessuno
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NdT (youffie): … Fatemi capire. Tra i personaggi c’è quella mezza sega di Wisely che è apparso sì e no in una decina di pagine costellate di sue figure grame ma non c’è Reever?
FANDOM WHAT’S WRONG WITH YOU? DDDDDDDDD:
Scherzi (?) a parte, penso che nella storia ci sia un piccolo errore temporale, visto che Reever sarebbe dovuto entrare all’Ordine quando Lenalee aveva dieci anni… credo…
Una sciocchezza, insomma, che di certo non va a intaccare il valore della storia, ma ho pensato fosse bene avvisarvi.
Per la questione voi/tu/lei ho cercato di seguire la traduzione italiana (ovvero: solitamente il “voi”, sostituito dal “tu” a seconda del contesto e del tipo di dialogo). Anche se questo “voi” mi suona stranissimo. Bah D:


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Secondo le sua previsioni, la vita che lo attendeva all’Ordine sarebbe stata un taglio netto con tutto ciò che era venuto prima, e finora così era stato. Ma tutto d’un tratto eccolo lì, a rievocare ricordi sgradevoli.

Reever era cresciuto a Bendigo, un paese che si sostentava con le miniere. Le città minerarie avevano i loro pro e contro. Se eri affascinato più dalla scienza che dalla metallurgia estrattiva, per esempio, ti era andata male.

C’erano due sorelle in paese—le sorelle Healy, originarie di Melbourne. Due bambine piccine, che avevano avuto forse otto e dieci anni quando le aveva conosciute lui. In giro si diceva che il padre (un minatore) si ubriacasse e le picchiasse tutto il giorno. Era facile crederci. Le bambine guardavano il mondo con occhi vitrei e ostili; sempre in guardia, sempre pronte a difendersi a vicenda. Erano loro contro tutte le persone di cui non si fidavano, e loro non si fidavano di nessuno.

Vide Komui Lee che controllava rapidamente il suo curriculum mentre la sorella gli stava dietro con fare protettivo, e cercò di non tracciare l’ovvio parallelismo.

“Oh, il supervisore Komui,” gli avevano detto al vecchio laboratorio, ridendo. “Ha un complesso per sua sorella assurdo.”

Per Reever non era un complesso per la sorella. Pensava che fosse qualcosa di tremendamente più inquietante. Tanto per cominciare, valeva chiaramente per entrambe le parti. Lee si era messo davanti di proposito, a mo’ di scudo — ma sua sorella gli guardava indubbiamente le spalle. Non gli aveva tolto gli occhi di dosso dal momento in cui era entrato. Reggeva un vassoio tra le mani, e sebbene Reever non avesse mai associato un vassoio a un’arma prima di quel momento, ora stava cambiando idea.

Una bambina di tredici anni non dovrebbe essere in grado di incutere tanto timore.

“Reever Wenham,” iniziò Lee, serio. “Voi ci siete stato fortemente raccomandato.”

Non sapeva come diavolo avrebbe dovuto rispondere a un’affermazione del genere, e non voleva correre rischi quando una risposta sbagliata avrebbe potuto significare la morte causa vassoio, perciò si limitò a tacere.

“Nel vostro fascicolo non viene fatta menzione del motivo che vi ha spinto a entrare nell’Ordine,” continuò il supervisore. Cadde un breve silenzio, e poi aggiunse, in tono tranquillo, “Vi dispiacerebbe dunque dirmi qual è?”

Lui si prese un attimo per pensare a quanto voleva effettivamente quel lavoro.

Non fino a questo punto, decise. Mal che andasse, la Sede Asia l’avrebbe ripreso. Non aveva bisogno di stare in Europa, aveva solo pensato che gli sarebbe piaciuto.

Quindi fanculo.

“Non ho intenzione di dirvelo,” rispose. Già gli avevano fatto inavvertitamente pensare al passato. Avrebbero dovuto passare sul suo cadavere per farglielo rispolverare volutamente.

Lee sollevò le sopracciglia. “Ma davvero.”

“Non sono affari vostri.”

“Voi non credete che io abbia il diritto di sapere perché volete diventare un mio dipendente?” continuò Lee, il capo inclinato curiosamente da un lato.

“Tutti hanno più o meno la stessa storia, no?” domandò Reever, cercando di tenere il tutto sotto controllo, cercando di non gridare a quel tipo che tanto ormai non l’avrebbe probabilmente assunto. “Allora a che vi servono i dettagli? Vi sto chiedendo di essere il vostro assistente di ricerca, non vostra moglie.”

Anche la sorella sollevò le sopracciglia.

“Avete detto che ero raccomandato, giusto? Beh, allora ditemi se posso esservi utile o ditemi di sloggiare, ma non statevene lì a credere di poter dragare la mia vita personale. Non vi riguarda, e no, non credo che abbiate il diritto di farmi domande in merito.”

Lee e sua sorella si fissarono con identiche espressioni stupite.

Aveva completamente bruciato quel colloquio di lavoro. Adesso sarebbe dovuto ritornare alla Sede Asia a spiegare ai ragazzi come era riuscito ad essere scartato malgrado il fatto che apparentemente l’avevano fortemente raccomandato. Sarebbe stato imbarazzante. Odiosamente imbarazzante. Era bene cominciare a inventare bugie convincenti da subito.

“Siete assunto.” disse Lee.

Reever sbatté le palpebre. “Sono cosa?”

“Presso lo staff c’è il sentimento diffuso che l’Ordine Oscuro possieda le anime dei dipendenti e tutti i loro segreti.” Affiorò un sorriso allegro, che dava i brividi. “Voi sembrate immune a questo problema. I miei complimenti.”

Reever si chiese come diamine gli fosse saltato in testa di voler lasciare la Sede Asia.

“Johnny—Johnny Gill, al laboratorio al secondo piano, un nuovo scienziato molto in gamba—si occuperà del vostro orientamento e di tutte le cose ad esso collegate. Venite pure a farmi visita quando scoprite qualcosa e vi sentite utile! Nel frattempo, la mia amabile assistente, Lenalee Lee, vi fornirà la documentazione e vi accompagnerà da Johnny!”

Verso la fine della frase, a un certo punto Lee era passato da un tono spaventosamente serio a uno maniaco. A Reever questa nota maniaca non piaceva neanche un po’ più dell’altra.

E ora la sorella aveva un atteggiamento amichevole, a differenza di quando era pronta a tagliargli la gola con il coccio di una tazza. “Da questa parte, Signor Wenham!” disse con ciò che sembrava genuina disponibilità.

Questa gente stava male. Anche per gli standard degli scienziati. Anche per gli standard degli scienziati dell’Ordine.

Beh, pazienza.

“Chiamami Reever.”



Johnny Gill, poi. Johnny era esattamente ciò che Reever si aspettava di scovare annidato nel retro di un laboratorio senza finestre.

“Me lo terresti per un secondo, grazie?”

Guardò l’ammasso crescente di provette gorgoglianti con cui Johnny si stava destreggiando e si chiese se e quando si sarebbe mai ricordato che Reever aveva bisogno di un orientamento.

O almeno di una presentazione.

“Okay. Okay, tu che dici, se aggiungiamo sodio a questo coso… cioè, secondo te esploderà seriamente o sarà solo divertente?”

“Definisci ‘divertente’. Comunque io sono un fisico, non un chimico. Già che ci siamo, potresti gentilmente dirmi il grado tossico di questa roba che sto reggendo? E a che cosa ti serve?”

Johnny gli diede un’occhiata da dietro le lenti spesse e ostentò un largo sorriso scevro di buon senso. “Oh, non posso sapere a cosa serve se prima non so cos’è.”

Lui chiuse gli occhi e si sentì molto, molto stanco.

Quando li riaprì, Johnny aveva corrugato la fronte, confuso. Si tolse gli occhiali, li pulì, li inforcò, studiò Reever.

“Ma io non ti conosco.” concluse dopo un attimo.

Reever era lieto di sapere che lo spirito della ricerca scientifica era vivo e vegeto.

“Reever Wenham. Lee mi ha mandato qui per un orientamento.”

“Lee?”

Santo Dio, che qualcuno gli dicesse in che secolo vivevano.

“Komui Lee,” chiarì, impotente. “Il supervisore Komui Lee.”

“Ah, il supervisore!” esclamò Johnny, con suo sommo sollievo. “Caspita, non credo di aver mai sentito nessuno chiamarlo semplicemente Lee. Komui. Supervisore Komui. Supervisore. Idiota. Non Lee, però.”

Il che non lo rassicurava affatto.

“Orientamento, eh? E perché io?” si domandò ad alta voce. Nemmeno Reever lo sapeva, ma aveva i suoi mesti sospetti. “Beh, comunque, magari è meglio se ti spiego un po’ qual è il nostro scopo… ma tu cosa devi fare?”

“Il posto per cui ho fatto domanda era assistente ricercatore a L—al supervisore Komui. Non chiedermi che significa.”

“Scartoffie fino alla morte, notti in bianco in laboratorio,” disse tetro Johnny. “Come tutti noi, solo peggio. Poveraccio.”

Arrivati a questo punto sarebbe stato fattibile, anche solo ipoteticamente, scappare via urlando?

“Beh, il progetto principale del momento è: creare uniformi a prova di proiettile!” rivelò Johnny con gli occhi spiritati e allarmanti livelli di entusiasmo, ficcandogli un pezzo di carta sotto il naso. Era ricoperto di liste di formule chimiche, grafici, equazioni, e quello che pareva lo schizzo di un anello benzenico che divorava la Terra.

“Spero non abbiate intenzione di rimanere ancorati ai metalli. Perché c’è un motivo se le armature di metallo sono passate di moda con le crociate.”

Il suo collega sbirciò il foglio, spaesato, poi scrollò le spalle. “No, no, quello non c’entra. Ho sbagliato foglio. Quello fa parte del vecchio progetto Komurin. Pensavo di averli bruciati tutti, scusa.”

Senza ulteriori spiegazioni, andò a scartabellare tra le pile di documenti. Tanto Reever non credeva di volere delucidazioni.

“Ecco, ecco!” proclamò, dieci minuti e diverse valanghe di fogli dopo. “È questo qui! O, come dire, uno dei tanti. Ci saranno una decina di file su questo progetto, in realtà, ma questa è l’idea più aggiornata.”

Reever studiò gli schizzi di molecole, le formule necessarie per costituirle. C’era anche il disegnino di due atomi di idrogeno che praticavano atti osceni a un atomo di ossigeno nell’angolo in basso a sinistra della pagina. Evidentemente il problema erano i chimici.

“Mi stai dicendo che potete fare questa cosa senza distruggere l’attrezzatura del laboratorio?” chiese dopo un po’.

“Una volta ce l’abbiamo fatta!” rispose Johnny con entusiasmo immacolato. “Le altre volte abbiamo sciolto i tavoli. Ma, ecco. Un giorno riusciremo a rifarlo per bene!”

Lui continuò a leggere.

“Cosa ci fate con tutto l’acido cloridrico che vi avanza?”

“Hm.”

Il suo vecchio laboratorio era pieno di persone intelligenti, scrupolose, colte—ma non geniali. Compensavano alla mancanza di genio con la meticolosità. Erano sempre stati molto accorti e precisi con le buone idee perché sapevano che non avrebbero mai avuto un lampo di creatività. Lui si era inserito bene tra loro.

Questo, invece, dava tutta l’impressione di essere un laboratorio popolato da geni, e per l’amor del Cielo, avevano bisogno di una persona come Reever.

“Fammi vedere dove lo mettete,” disse. Lui non era un chimico. Ma aveva la spiacevole sensazione che una volta che avesse finito di estinguere tutti gli incendi, la sua mansione principale sarebbe stata estinguere gli incendi, a dispetto di chi li avesse causati.



“Johnny dice che siete una persona giudiziosa.” osservò il supervisore Komui.

La mente di Reever interpretò gentilmente il messaggio come, “D’ora in poi, tutti i lavori di merda saranno affidati a te.”

Negli ultimi due giorni aveva marciato nelle postazioni di lavoro altrui esigendo di vedere i disastri che avevano combinato i vari scienziati prima di risistemarli come meglio poteva.

Era gente geniale. Sì, geni. Ma solo in campi molto, molto ristretti. Tapp, per esempio, aveva quasi distrutto gli appunti di ricerca raccolti in un anno di lavoro tramite lo sfortunato collocamento di una scodella di zuppa di piselli.

Anche studiando per vent’anni, Reever non sarebbe mai giunto alle conclusioni di quegli appunti. Erano sinceramente impressionanti. E chissà quanto bene che avrebbero fatto al mondo una volta ricoperti di zuppa di piselli.

Erano quindi ventiquattr’ore che ficcava il naso negli affari degli altri, e ormai aveva cominciato a considerarlo un proprio diritto. Aveva agito sull’onda del momento; non si era neanche soffermato a ponderare meglio l’idea prima di infilare le mani tra i fogli della scrivania di Komui.

Bollette non pagate. Verbali sulle spese elusi. Quindici pagine di schizzi con soggetto un coniglio. Una montagna di autorizzazioni non firmate. Cataste di lettere ancora sigillate.

“State emettendo dei versi furibondi,” notò Komui con interesse, tenendo la sua tazza di caffè alzata tra loro come uno scudo.

Reever lo ignorò.

Sotto tutta la documentazione amministrativa, c’erano diverse pagine che sembravano i vecchi appunti sulle uniformi a prova di proiettile di Johnny. Sotto c’era una cartellina, e dentro la cartellina, una collezione di bozze incredibilmente ordinata.

Ogni pagina aveva un nome, lo schizzo del design di un’uniforme, la descrizione di un’arma e di uno stile di combattimento. Molte riportavano commenti incollati con il nastro adesivo. “È più a suo agio con il cappuccio,” “È troppo magra per quella massa enorme,” “Possiamo fare un’uniforme per la scimmia?” “Supervisore, quello vi TAGLIA IN DUE!!!”

“Sono in un ordine particolare?” domandò Reever, ricominciando dall’inizio e leggendo con più attenzione.

“Ordine di arrivo inverso,” rispose Komui con la voce seria che aveva usato quando si erano conosciuti. “L’ultimo esorcista è il primo, il più vecchio è sul fondo. C’è un duplicato dell’attuale design dell’uniforme di ogni esorcista nei loro fascicoli individuali, e c’è un fascicolo che raccoglie tutti i vecchi design. La speranza è che si impari dal passato.” Il sorriso che fece non gli parve particolarmente sincero.

Dieci esorcisti dopo, trovò un foglio insolito. In alto era scritta una data—il mese precedente—proprio sopra il nome (Catherine Willis). Al posto dello schizzo dell’uniforme c’era la sagoma vuota di una persona con un puntino rosso sulla coscia sinistra. Il resto delle informazioni era lo stesso, ma in basso a destra (ovvero quello che solitamente era lo spazio designato per i commenti) c’era un blocco di parole scarabocchiate. Reever aguzzò la vista.

“Descrizione della morte: proiettile di Akuma alla gamba sinistra. Ha colpito di striscio; avrebbe potuto essere deviato da un materiale per pantaloni più resistente. Decisione di non usare detto materiale dovuta alla necessità di Catherine di muoversi rapidamente. Da investigare: spessore variabile è possibile? Ulteriore ricerca: materiale più leggero e duraturo.

“Parenti viventi: fratello minore, Andrew Willis. Leeds, Inghilterra.”

Reever corse alla pagina successiva, e poi a quella dopo ancora. Più indietro andava, più trovava sagome. Verso il fondo della pila c’erano praticamente solo sagome. Uno degli ultimi fogli aveva un’annotazione molto vecchia, scritta con una calligrafia che non apparteneva a nessuna delle persone che Reever aveva conosciuto in laboratorio. Diceva, “È stata colpa mia.”

Riuscì ad arrivare all’ultimissima pagina (sagoma) senza vomitare, e ne era maledettamente fiero.

La Sede Asia non allenava spesso gli esorcisti. Li raggruppava, li rappezzava, li passava alle altre. Era un centro di ricerca innanzitutto. Gli scienziati sapevano solo da un punto di vista astratto che stavano cercando di salvare delle vite.

Qui, gli scienziati vedevano morire a causa dei propri errori persone che conoscevano. A Komui sarebbe potuto capitare di veder morire a causa dei propri errori sua sorella. Chissà se davvero teneva tutti quei fogli con le sagome per imparare, o se più semplicemente non li teneva per punirsi.

Chiuse con cura la cartella, prese un profondo respiro, e alzò gli occhi, incontrando quelli indagatori di Komui.

“Beh, supervisore. Almeno qualcosa che prendete seriamente c’è.”

Lui rispose con uno sguardo costernato, goffo in una maniera disarmante, e Reever sentì, vagamente, di aver appena passato una specie di test. “Perché, non pensate che io prenda seriamente ogni singola parte del mio lavoro?” chiese Komui, sedicente affranto.

Brandì una bolletta. “È scaduta da cinque mesi.”

“Magari la paga Dio.”

Reever ringhiò.



Il suo piano iniziale era stato quello di rifiutarsi di fare la conoscenza di uno qualunque degli esorcisti. Conoscerli era stupido; avevano un tasso di ricambio dell’ottanta percento nel corso di una decade. Girare al largo era un ottimo piano.

Ovviamente il piano era andato a farsi benedire entro la fine della prima settimana, perché non c’era modo di lavorare con Komui senza fare la conoscenza di Lenalee. Lei era sempre in giro, sempre così allegra, amichevole e servizievole che non fu difficile dimenticare quant’era stata terrificante prima di decidere che Reever era uno dei suoi.

A Lenalee si rassegnò. Un’esorcista non era poi tanto male, no? Quanta sofferenza poteva portare un solo esorcista?

Ciò di cui non si era reso conto era che fare la conoscenza di Lenalee significava fare la conoscenza di Kanda—un piccolo ragazzino giapponese e ostile che non parlava mai se non per dire alle persone di andare a fanculo. In pratica, però, era sempre a portata di grido da Lenalee.

Reever quasi si aspettava che a Komui venissero fitte protettive, ma lui si limitava a dire, “Kanda è stato un fratello per Lenalee quando io non potevo esserlo.” A cui si aggiungeva un’espressione di orribile dolore che lo metteva profondamente a disagio.

Ma Lenalee e Kanda, pensò Reever, erano ancora accettabili. Poteva sopravvivere con l’affetto per due di loro.

Poi, all’improvviso, apparve Cross Marian. Era sbronzo, pazzo, un pezzente. Si presentò bruscamente un inverno, saccheggiò la biblioteca, svegliò metà del dipartimento scientifico nel cuore della notte a furia di trafficare nel laboratorio, e generalmente fece un gran casino fino a quando non sparì ancora più bruscamente il mese successivo.

Per ragioni che non sapeva spiegare nemmeno a se stesso, Reever scoprì di essere preoccupato per la salute di Cross come una grossa mamma chioccia. Non era giusto.

Poi, arrivarono i Bookman. Era facile evitare Bookman—anzi, lui sembrava preferire così—ma Lavi, lui lo conoscevi che tu lo volessi o no. E conoscerlo significava volergli bene. O forse era solo Reever che aveva il cuore tenero.

Noise Marie era calmo ed era piacevole stargli accanto. Daisya era stranamente irresistibile. Cloud Nyne possedeva una dignità che Reever non poteva fare a meno di rispettare. Suman aveva fatto amicizia con Johnny, quindi non poteva essere tanto male.

In meno di un anno, aveva cessato di opporre resistenza. Era spacciato; accettò il proprio fato. Sarebbe impazzito come Komui, avrebbe recitato i nomi dei suoi morti prima di andare a dormire.

Prese in seria considerazione l’idea di chiedere a Komui se disegnare conigli gli fosse di una qualche utilità.



Le conseguenze del troppo affetto fecero la loro prima comparsa sotto forma di sempre più notti in bianco al laboratorio.

Una di loro era stata provocata da Toma, il finder, che aveva fatto presente alcune pecche veramente madornali nel design degli scudi. Tra le altre cose, la facilità con cui i generatori continuavano ad essere distrutti era inopportuna. Non potevano creare dei generatori più solidi, voleva sapere Toma.

La reazione di Komui era stata rinchiudere a chiave una dozzina di persone nel laboratorio a tempo indeterminato. Evidentemente, avrebbero fatto dei generatori più solidi o sarebbero morti nel tentativo.

“Dovremmo usare quei cosi blu che fanno le scintille per la fonte di energia,” biascicò Johnny.

“Johnny. Quand’è stata l’ultima volta che hai dormito?” chiese Reever. Per leggere si stava sostenendo le tempie con le mani, tecnica che, come bonus, gli intralciava la chiusura degli occhi.

“… Ieri,” decise lui dopo una lunga pausa.

“Oggi che giorno è, secondo te?”

“Il sedici?”

“No, Johnny. No.” Reever si tirò su quel tanto che bastava per poggiare il mento sulle mani e darsi un’occhiata attorno. “È il diciotto. Hai dormito ieri due giorni fa. E ora hai le allucinazioni.”

Lo scienziato contemplò quell’ipotesi. “Infatti non mi tornava dove avessimo preso i cosi blu che fanno le scintille.”

“Ma poi cos’è che stavamo facendo?” chiese Tapp, stravaccato all’incontrario sopra svariati cumuli di documenti.

“Salviamo il mondo,” rispose il supervisore da sotto un libro sulla teoria del caos. “Non dimenticatelo.”

“Pensavo che tu fossi qui solo per salvare Lenalee, supervisore,” brontolò Reever perché era troppo stanco per fermarsi, poi si sentì immediatamente in colpa perché sapeva che non era vero.

“È la stessa cosa,” replicò Komui con voce malferma. “Perché se muore lei, io butto giù tutto quanto. Faccio saltare in aria 'sto cazzo di Vaticano. Andrà tutto giù.”

Non sembrava una cosa che nemmeno un Komui esausto avrebbe mai ammesso. Preoccupato, Reever si chinò verso di lui e sollevò il libro. Dormiva. Parlava nel sonno. Questo significava che stava dicendo la verità, o che stava solo avendo dei sogni bizzarri?

“Chi l’ha messa quella fontana lì?” chiese Johnny, fissando con curiosità uno scaffale.

“Io vado a letto,” disse Reever, alzandosi. “E se voi idioti fate crollare la montagna, almeno non dovrò passare un’altra notte in bianco con voi.”

Se ne andò. Se ne andò, e fece del suo meglio per non pensare alle cose che un Komui esausto, senza controllo, avrebbe potuto creare in un laboratorio rifornito di tutto punto.



C’era una divisione all’interno del dipartimento scientifico, chiara ai membri, invisibile a chi guardasse da fuori. La maggior parte del dipartimento rappresentava la sezione di ricerca ordinaria. Svolgevano compiti tutto sommato normali e lavoravano per un numero di ore tutto sommato normale. Avevano il lavoro per cui Reever aveva pensato di far richiesta.

Purtroppo per lui, era riuscito inspiegabilmente a entrare nel circolo interno.

Il circolo interno, la manciata di scienziati di cui il supervisore si fidava implicitamente, avevano l’onore di sgobbare su incarichi pressoché impossibili fino a ore irragionevoli del mattino, e quando superavano quello stadio, avevano il privilegio di occuparsi di tutte le pratiche che Komui voleva tenere nascoste agli altri.

Reever non sapeva come meglio esprimere la sua gratitudine. Forse con degli esplosivi.

“Questa cosa è moralmente sbagliata e forse illegale,” disse a Komui, reggendo un fascio di fogli che riguardavano esperimenti umani discretamente sopra le righe.

“Mettili nell’armadietto chiuso a chiave sotto il barattolo di biscotti di Gengis Khan. La chiave è nel barattolo.” ordinò Komui, senza sollevare gli occhi dalla lettera che stava scrivendo ai Finder stanziati a Monaco. “Le scimmie di Levellier non guardano mai lì dentro.”

“Non pensavo che Levellier si facesse scrupoli con questo genere di roba,” commentò Reever, andando a caccia di un barattolo di Gengis Khan sepolto sotto le cataste di carte.

“Infatti non se ne fa. Il problema è che potrebbe tentare di usarli lui.”

Allora buttala via, pensò Reever. Brucialo, porco cane. Perché hai fatto una ricerca del genere, tanto per cominciare?

Non diceva mai niente. Lo sguardo vuoto che avrebbe inevitabilmente ricevuto in risposta avrebbe fatto molto male alla sua pressione sanguigna.

“Reever, come ve la cavate col greco?” chiese distrattamente Komui.

“Cosa? Me la cavicchio. Meglio con l’antico che con il moderno.”

“Il greco antico non mi serve a niente,” canticchiò Komui, passandogli una serie di documenti. Reever trattenne la sua filippica su L’Importanza dei Classici. “Traducetemi questi; dovrebbero contenere informazioni su una possibile Innocence. Forse l’Oracolo di Delfi ha ricominciato a funzionare.”

Reever diede un’occhiata al primo foglio. “Ma quale Oracolo. C’è un tizio con una mucca parlante dalle parti di Atene. Supervisore, ma chi vi passa queste boiate?”

“E questo è per voi.” Un solo foglio di carta.

“Cos’è?” domandò con cautela Reever.

“È una promozione.”

“Promozione?” guaì Reever. “Io non voglio una promozione!”

“Verrete promosso, che lo vogliate o no.”

“Supervisore? Ma cosa mi significa? Questa è solo una scusa per farmi compilare altre scartoffie!”

“Mi serviva una scusa?”

Perché mi fai questo?

Komui si risistemò gli occhiali e lo guardò severamente. “È un complimento.”

“Ma certo.”

“E se muoio, ho bisogno che una persona di fiducia sia nella posizione di prendersi cura di Lenalee.”

Lo stronzo sapeva che Reever non avrebbe mai potuto ribattere nulla a quello.

Beh, quasi nulla. “Se tu muori, probabilmente morirai in un disastroso incidente di laboratorio, e io ti seguirò a ruota.”

“Il laboratorio è sicurissimo,” insistette il supervisore, offeso.

“Dobbiamo proprio riparlare della sicurezza del laboratorio? Perché in realtà è un disastro e un miracolo al tempo stesso che non ci siamo ancora sparati nello spazio.”

“È per questo che ho bisogno che tu sia il mio secondo in comando.”

Sapeva che Komui riteneva buffi i suoi incoerenti versetti di rabbia. Non per questo riusciva a trattenerli.



“Numero 65 aveva detto che l’elaborazione dei dati sarebbe finita ieri,” accennò Reever con falsa calma. Preoccuparsi di quelle questioni era solo una delle tante gioie che gli aveva portato la sua promozione.

“Sì, caposezione,” confermò Peter, il cui lavoro era appunto raccogliere dati.

“Eppure non mi sembra che tu li abbia, questi dati.”

“Beh.” Peter prese ad agitarsi. “Non sono ancora pronti.”

Perché non sono ancora pronti?”

“Uh. Numero 65 dice che è stanco.”

“Numero 65 non è umano,” gli fece notare lui, cercando con tutte le sue forze di non urlare, visto che la colpa non era sua.

“Dice…” Peter tacque, nella manifesta speranza che Reever gli permettesse di farla franca senza concludere la frase.

“Cosa dice?” Sfortunatamente per Peter, oggi Reever non si era svegliato comprensivo.

“… che voi non capite il suo dolore.” concluse lui, a voce molto bassa.

Che cosa?

“Vuoi che ci parli io?” chiese Lenalee, apparendo come un angelo della misericordia caffè-munito accanto a lui.

“Lenalee,” disse con un sospiro di sollievo. Lenalee portava sempre con sé la sua lucidità mentale. Era solo una tregua temporanea, certo, ma sempre meglio che niente. “Sì. Forse penserà che tu puoi capire il suo dolore meccanico. Sai dov’è tuo fratello?”

“Nel suo ufficio.” Sempre così ben informata. “Ma dorme…”

“Non l’hai svegliato per dargli il caffè?”

“No, mi sono detta che non valeva la pena andare nell’ufficio. Visto che dorme.”

Questo era l’unico problema delle visite di Lenalee. Di tanto in tanto, il suo terrificante senso-del-fratello si palesava, e gli dava i brividi.

“Certo,” disse. Non c’erano commenti migliori. Allora come diamine facevi a sapere che dormiva? l’avrebbe solamente relegato a una risposta spaventosa. “Tanto senza dati non mi serve sveglio. Perciò, Peter—”

Si voltò e scoprì che Peter era scomparso.

“Ha paura di te, sai.” spiegò Lenalee, mordendosi un labbro per combattere un sorriso.

Reever si accigliò. Se Peter aveva tanta paura di lui, allora perché non faceva il suo lavoro?

Lei rise della sua espressione, si chinò e gli diede un bacio sulla fronte. “Vado a parlare con numero 65 per te,” disse, e si allontanò che ancora ridacchiava.

Tenne gli occhi aperti per la possibile venuta di Kanda, ma lui non si fece vivo. La sua prossimità a Lenalee si era allentata nel corso degli anni. Nella maggior parte dei casi li si trovavano ancora nella stessa ala del castello, però, ogni qual volta erano a casa contemporaneamente.

Maledetti esorcisti. Tutto questo lavoro era per loro, e se Reever avesse potuto avere il permesso di serbare loro vero rancore, la situazione sarebbe stata più tollerabile. Perché doveva essere così facile volergli bene? Rovinava tutto.



Al terzo anniversario del suo trapianto in quella gabbia di matti, Reever si svegliò e notò una provetta che conteneva una sostanza verde e effervescente collocata precariamente sul suo comodino. Non sapeva cosa fosse. Non sapeva come fosse arrivata lì. Non capiva come avesse mai potuto lasciare una cosa del genere tanto vicina al posto in cui dormiva.

Santo Dio, pensò. Ora sono uno di loro.

Solo tre anni. C’erano voluti solo tre anni perché minassero ogni sua buona abitudine e lo trasformassero in un altro scienziato pazzo qualsiasi, schiavizzato e privato del sonno.

Era tutta colpa del supervisore.

Gli anniversari erano occasioni che ben si prestavano alle elucubrazioni, pertanto continuò ad elucubrare fino alla mensa.

Ormai non faceva quasi più colazione; oggi avrebbe fatto uno sforzo speciale per l’anniversario. Quando viveva ancora nel mondo reale faceva sempre colazione, perché sua madre ripeteva che era il pasto più importante della giornata. In quella gabbia di matti era solito sostituire la colazione con una decina di caffè. Gli sarebbe venuta un’ulcera. Gli sarebbe venuta un’ulcera e l’avrebbe chiamata Komui.

“Felice anniversario!” cantò a squarciagola Johnny, sedendosi di fronte a lui e facendo scivolare sul tavolo una torta di cioccolata in miniatura.

Reever sbatté le palpebre. “E tu come facevi a saperlo?” Johnny era uno su cui non si poteva contare neanche per sapere che mese fosse.

“Uh.” Si risistemò nervosamente gli occhiali sul naso coll’impugnatura della forchetta. “Me l’ha detto Lenalee.”

“Oh.” Allora tutto a posto. Il mondo non era prossimo alla fine. Per ora.

“Felice anniversario, Reever!” esclamò Lenalee in persona. “Ho fatto promettere a mio fratello di non metterti nei casini. O di non costringerti a fare casini.”

“Lenalee, questa è la cosa più bella che tu abbia mai fatto per me,” disse, con autentica sincerità.

“Lui non viene perché non crede nelle mattine.”

“Credimi, lo so.”

Però piano piano vennero un po’ tutti gli altri, con suo grande stupore. Persino Peter, che gli regalò una crostata di mele. Non che Reever fosse intenzionato a mangiarla prima di essersi sincerato dell’assenza di veleno. Nulla che l’avrebbe ucciso, non era quello lo stile di Peter. Una cosa leggera che avrebbe potuto essere fraintesa con un’intossicazione alimentare. Ce lo vedeva a fare una cosa del genere.

Forse perché era paranoico, ma tant’è.

A proposito di paranoia, era arrivato Kanda. Era arduo stabilire se sapesse dell’anniversario o meno. Li scrutò torvamente mentre passava dove altre persone avrebbero potuto salutare e si diresse da Jerry per reclamare la sua colazione.

Sembra un uomo ogni giorno di più, pensò Reever, poi si schiaffeggiò mentalmente. Non avrebbe fatto il sentimentale proprio con Kanda. Anniversario o no.

Dio, tre anni. Stentava a crederci. Tre anni, e Reever aveva perso solo un esorcista che non conosceva bene, e neanche per colpa sua. Avevano perso più finder, ma lui ne conosceva pochi e poco. La sua sezione non lavorava molto con loro.

Si rendeva conto che era solo una questione di fortuna. E che era destinata a esaurirsi, probabilmente più prima che poi.

Felice anniversario a me, pensò, e alzò la tazza di caffè per farsi un brindisi da solo.

Istigando così Johnny a chiedergli se avesse dormito abbastanza. Avrebbe dovuto fargli una ramanzina sul diritto delle persone a elucubrare in pace.



“Supervisore, siete sicuro che il ragazzo sia un esorcista?” chiese nervosamente Peter dopo che Lenalee se ne fu andata.

“Ma certo, certo! È lampante,” garantì Komui, poi prese il caffè e si avviò a incontrare l’esorcista con la solita flemma, allegro, dimentico di tutto il resto, e completamente inutile.

“Come no,” disse Reever. “Peter.” Peter rabbrividì. “Di’ alla sezione gestionale di preparare una stanza per un nuovo esorcista. Numero 65, rinfrescati la memoria sui parassiti; è un po’ che non ne veniva uno nuovo. Dmitri, va’ a preparare l’ambulatorio. Credo che Kanda l’abbia preso in pieno. Johnny, Tapp, voi due dovete finire di mettere a posto il laboratorio prima che esploda qualcosa. Io vado ad avvertire Hevlaska.”

“E poi possiamo conoscerlo?” chiese Johnny speranzoso.

“E poi possiamo tornare al lavoro,” sbottò lui.

Lamenti sparsi.

“Va bene, basta così,” disse poi, alzandosi in piedi. “Diamo inizio allo spettacolo.”
   
 
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