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Autore: kenjina    12/07/2010    2 recensioni
[Dal prologo] Quanto tempo era passato da quel giorno? Non lo ricordava, ma sentiva che era troppo poco, insufficiente per sbiadire il dolore che ancora provava forte e vivido, ogni istante, come se fosse accaduto solo pochi attimi prima. [...] Ma perché rimaneva ancora così attaccato alla vita? Aveva per caso qualche ragione per cui valesse la pena continuare a nascondersi per tenersi stretta l’unica cosa che odiava con tutto se stesso? I fantasmi continuano a vagare per il mondo dei vivi finché non risolvono le loro questioni in sospeso... Forse anche lui ne aveva una? Non lo sapeva, non voleva saperlo.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Bonjour

Salve!

Finalmente mi decido a pubblicare questa creaturina su EFP! L'ho scritta l'anno scorso e finita ad inizio anno - manca solo l'epilogo che ancora non ho buttato giù, ma prima o poi verrà fuori! Spero sia di vostro gradimento, sono molto affezionata a questa storia. :) Non vi chiedo clemenza ma voglio sincerità, è un lavoro che ho portato avanti in due anni e ci ho messo l'anima, per qualsiasi cosa, discrepanza, orrore, schifezza... beh, fatemelo sapere.

Durante la pubblicazione de La Vita Nova (titolo che ho gentilmente preso in concessione dal Sommo Poeta Dante!) continuerò a scriverne un'altra (senza pubblicarla, per ora), sempre sul nostro Fantasmone preferito (oltre finire le altre mille mila fanfiction che ho attualmente in corso su questo sito), un po' più contorta di questa e che mi sta facendo dannare et deliziare... Spero di finirla prima della fine del mondo! XD

Prima di augurarvi buona lettura vorrei ringraziare chi conosce già questa cosa, chi mi ha supportato per mesi e chi sta ancora aspettando l'epilogo... Voi sapete! :P

Ci si legge la settimana prossima, con il primo vero capitolo!

Saluti,

Marta.

 

 

 

La Vita Nova.

 

Prologo.

 

La caccia alle streghe era finita da tempo, ma le superstizioni sono sempre state dure a morire.

Nella tradizione popolare le donne con occhi verdi e capelli rossi erano considerate spesso e volentieri delle streghe. Donne capaci di ammaliare, di incantare con un solo sguardo, di creare strani intrugli magici che potevano guarire così come uccidere.

E con quello sguardo ammaliatore, l’espressione di chi la sapeva lunga e quel colore del diavolo che le infiammava il volto, neanche lei era esonerata da quelle stupide credenze. Non passava giorno in cui non ricevesse occhiate scettiche e superstiziose, di persone che temevano anche solo incrociare il suo vivido sguardo per paura che si vendicasse con qualche fattura od incantesimo; le madri non volevano che i propri figli si avvicinassero a lei, mentre si esibiva nei suoi piccoli spettacoli di strada per racimolare qualche soldo e campare come poteva. Chi avrebbe mai voluto avere a che fare con una figlia del diavolo, se non altri suoi pari? Però, com’erano curiosi quegli individui che andavano da lei per comprare i suoi medicinali di erbe balsamiche ed esotiche e a farsi leggere il futuro, sempre scettici quando si trattava di una lettura buia ed oscura, e contenti quando invece gli si prospettava davanti prosperità e felicità. Gli si poteva raccontare di tutto e loro vi avrebbero creduto.

Proprio come ancora credevano alle streghe ed ai fantasmi.

Ma lei non si curava di quello che la gente comune pensava sul suo conto. Non l’aveva mai fatto, ne era sua intenzione iniziare a farsi problemi proprio ora, finché nessuno la obbligava a difendersi. Era nata e cresciuta tra gli zingari, senza una casa fissa, senza l’affetto dei genitori, arrestati e condannati a morte per un’infondata accusa di omicidio, ma tra le cure della sua unica parente che conosceva, la nonna, e in compagnia dei suoi “fratelli”, o così si chiamavano tra di loro gli altri nomadi. Non aveva una città natale, né un compleanno da festeggiare; non aveva un cognome o un riconoscimento familiare, ma solo un soprannome datole dalla sua comunità e che era tutto un programma; non aveva un futuro, ma poteva solo sognarlo; né aveva la speranza di riscattarsi da una vita che ormai le andava stretta ma che doveva tenersi per poter sopravvivere.

«Maman, perché quella signora ha i capelli di quel colore?»

La giovane zingara alzò lo sguardo smeraldino sul bel bimbo che la guardava curiosa, indicandola con un dito e strattonando la mamma per una manica dell’abito, cercando di ottenere la sua attenzione. Gli sorrise dolcemente, senza malizia alcuna. Non era sua intenzione spaventare i bambini che manifestavano tutta quella curiosità nei suoi confronti, ma era ovvio che quella sua espressione veniva sempre mal interpretata dalle madri.

«Vieni, piccolo mio, allontanati. Non guardare mai negli occhi le donne come lei, ricordalo.»

«Perché, Maman?»

«Perché quella è una strega

Una strega... Quella parolina magica che sentiva quando ancora era piccola, quanto timore metteva addosso a chi la pronunciava! Sempre un sottile sussurro che volava via nell’aria insieme al vento, provocando brividi di timore ed apprensione. Che sciocchezze.

La zingara scosse la testa, riportando la sua attenzione sulla borsa sghemba che aveva poggiato per terra con la speranza che qualche anima pia la riempisse di monete. Contò solo qualche franco, che fece in fretta a nascondere in tasca, e ritirò i suoi pochi averi dall’angolino di strada in cui stava sempre: un mazzo di tarocchi, qualche fazzoletto colorato per giochi di illusionismo e il suo tamburello per le danze. Faceva quella vita da sempre, ma in cuor suo sperava di poter compiere il salto, anche nel vuoto, pur di ritirarsi dal mondo della strada. Cosa non avrebbe dato pur di ottenere un lavoro normale come una comune cittadina francese! Peccato, davvero peccato che ogni volta che avesse provato a cercarne uno, anche solo come semplice domestica, l'avessero sempre rifiutata di netto, togliendo fuori la scusa che non avevano bisogno di altro aiuto. Oh sì, erano spaventati da lei; temevano che potesse compiere furti, che potesse sparire con qualche bambino, che potesse sedurre con il suo sguardo il padrone di casa, che potesse addirittura fare qualche incantesimo! Le donne come lei portavano sfortuna e brutti avvenimenti, dicevano.

Sciocchezze ed ancora sciocchezze.

Così doveva continuare con i suoi spettacoletti agli angoli delle strade, con la vana speranza di attirare l'attenzione dei passanti e di guadagnare un po'.

Anche volendo, la giovane non passava inosservata, non solo per il suo particolare colore di capelli e il luccichio sinistro dei suoi occhi, ma anche per la vivacità degli abiti che indossava: viola, verdi, rossi, gialli... tutte tonalità allegre e cangianti, di vestiti trovati tra l’immondizia o abbandonati senza cura dalle domestiche delle dame di Parigi. L’ultimo “acquisto” che aveva fatto era un corpetto smeraldino, come i suoi occhi, che nascondeva in parte una camicia color panna, sboccata e larga, e una gonna che le ricadeva sulle gambe sgonfia, di un blu scuro, con decorazioni e rifiniture gialle. Dove l’aveva trovato? Steso da settimane nella lavanderia a cielo aperto di una casa in periferia. Quale spreco lasciarlo lì tra le intemperie, a rovinarsi al freddo e al vento!

I suoi passi cadenzati e lenti risuonavano sulle strade ciottolate e polverose della città, che pian piano si stava ritirando nelle proprie abitazioni per cenare, chi con sontuosi pasti, tra chiacchiere e risate, chi con un solo pezzo di pane andato a male, nel silenzio e nella desolazione, come lei. Non abitava più nella comunità dei suoi fratelli da un paio d’anni, ormai. Non perché disdegnasse la loro compagnia, anzi: qualche tempo prima passava spesso a trovarli per scambiare qualche chiacchiera e qualche novità, ma non si tratteneva mai troppo. Si era resa conto che, per quanto la rispettassero e provassero per lei un particolare affetto, avevano in ogni caso scetticismo nei suoi confronti. Ebbene sì, anche quella che doveva essere la sua famiglia aveva paura di lei. Buffo, no? Per non parlare delle complicazioni di altra natura che erano sorte col tempo e che al solo ricordo le facevano venire il voltastomaco. Era meglio perderle certe persone, piuttosto che trovarle.

La sua momentanea casa si trovava in periferia, in un mulino diroccato ed abbandonato da tempo. Non era il massimo del confort, ma per lei rappresentava già l’esempio migliore di abitazione. Aveva un cuscino di paglia coperto da alcune lenzuola logore su cui dormire, un mobile sghembo di legno mangiato dai tarli come tavolo e una latrina rudimentale per le sue esigenze. Meglio di così come poteva andare?

A pochi passi dall’allungare la mano sulla porta d’ingresso, la giovane si bloccò immediatamente, capendo che qualcosa non andava. La soglia, infatti, era socchiusa e lei non la lasciava mai aperta. Inoltre sentiva distintamente che il suo gatto, un bel micio nero come la notte che le faceva sempre compagnia, stava facendo le fusa, come se fosse coccolato.

C’era qualcuno lì dentro, qualcuno che probabilmente non doveva esserci.

E lei non voleva ospiti indesiderati.

Tirò fuori un coltello da uno degli stivali e lo impugnò con decisione in mano. Chiunque fosse stato nella sua abitazione non avrebbe fatto in tempo a vederla in viso, perché lo avrebbe colpito prima ancora di poter fare qualcosa.

Era in quelle occasioni che la vera strega che c’era in lei si mostrava in tutto il suo splendore.

 

 

Quanto tempo era passato dall’ultima volta in cui aveva avuto un tetto sicuro sopra la testa?

Giorni?

Settimane?

Mesi?

Neanche lo ricordava. Perché non voleva ricordare. Niente di tutto ciò che era stata la sua vita valeva la pena di essere ricordato. Né quando la propria madre, inorridita dalla sua creatura, l’aveva abbandonato in mano agli zingari; né il giorno del suo primo omicidio, la sua folle ed agognata vendetta sul suo aguzzino che lo picchiava e lo derideva davanti a decine di persone; né quella ragazza mossa da pietà che lo aveva aiutato a scappare e gli aveva trovato rifugio sotto quel teatro maledetto. Lo stesso teatro che aveva dato inizio e fine a tutto. Era cresciuto nascosto alla società, nascosto alla vita, come un reietto, emarginato solo per uno scherzo beffardo della natura. E lui, come a farsi beffe di questo, era diventato un uomo, un uomo geniale a dirla tutta. E lui ne era consapevole, certo: aveva costruito il suo piccolo regno dal nulla, gli aveva dato vita, e aveva dato vita anche al teatro stesso. Perché lui componeva, componeva musica che dir sublime era poco, canzoni superbe ed ammaliatrici che incantavano chiunque le ascoltasse.

Ma lui non esisteva, lui per la società era un fantasma.

Poi era arrivata lei, piccola e graziosa nel suo completino da ballerina, ma con una voce che prometteva già tante speranze. E lui era diventato un angelo, il suo angelo. L’aveva confortata, ingannata forse, ma era grazie a lui che la sua piccola musa era diventata ciò per cui ora era amata: una cantante bravissima e sopraffina. Ma lei era anche troppo ingenua per capire quale sentimento lo spingesse ad insegnarle tutto il suo sapere, a renderla la regina delle sue opere, a starle costantemente dietro per proteggerla. E lui era totalmente accecato dalla passione e dall’amore che provava per lei per rendersi conto che non gli era mai appartenuta, non come desiderava. Aveva ucciso, aveva spaventato, gettato ulteriore fango sul suo nome, rischiato di rovinarle l’esistenza solo perché non accettava che lei amasse un giovane amico d’infanzia, bello e popolare, e non lui, un emarginato sfigurato che viveva all’oscuro da tutti.

Quanto tempo era passato da quel giorno? Non lo ricordava, ma sentiva che era troppo poco, insufficiente per sbiadire il dolore che ancora provava forte e vivido, ogni istante, come se fosse accaduto solo pochi attimi prima.

Aveva lasciato l’Opera, la sua unica vera casa, per l’ignoto. Non poteva più restare lì; per quanto sicuri fossero quei sotterranei con tutte le trappole che vi aveva disseminato, era stato tradito dall’unica persona al mondo che aveva la sua piena fiducia e il suo piccolo mondo era stato profanato e gettato al vento, con odio, con risentimento. Non avrebbe potuto continuare a vivere lì, non con il dolore dei ricordi, sempre vivi ogni qualvolta spostasse lo sguardo in ogni angolo, non con il timore di essere stanato in qualunque momento ed essere condannato a morte.

Ma perché rimaneva ancora così attaccato alla vita? Aveva per caso qualche ragione per cui valesse la pena continuare a nascondersi per tenersi stretta l’unica cosa che odiava con tutto se stesso?

I fantasmi continuano a vagare per il mondo dei vivi finché non risolvono le loro questioni in sospeso...

Forse anche lui ne aveva una? Non lo sapeva, non voleva saperlo.

Chiuso tra quelle quattro mura sghembe, piene di spifferi, il tanto temuto Fantasma dell’Opera sospirò, abbassando lo sguardo sul gattino nero che gli si era accovacciato sulle gambe, per niente intimorito, anzi. Faceva anche le fusa ad ogni sua carezza!

«Non ti faccio paura?», gli chiese, sarcastico, mentre il micio, dopo averlo guardato con i suoi occhioni gialli, si rotolava sulla schiena, reclamando altre coccole.

Osservò l’ambiente intorno a sé e si rese conto che quel posto era abitato. Una povera anima come lui, forse, povera ed isolata dalla società perché diversa. Non voleva disturbare chiunque fosse il padrone di quel vecchio mulino, ma era l’unico posto che aveva trovato dopo giorni e giorni di vagabondaggio per quelle campagne. Era stanco di girovagare nella speranza di trovare riposo e alloggio, stanco di dover rubare il cibo perché non poteva permettersi di spendere tutti i suoi soldi in un’accogliente locanda, temendo di destare curiosità e di essere riconosciuto. A confronto, preferiva mille volte la vita sotto il teatro, che quella. Lì, almeno, aveva un’identità, aveva una casa, aveva uno scopo, aveva le sue cose, la sua musica.

Ora l’unica cosa che poteva fare era trascinare se stesso affinché non morisse prima del tempo.

 

 

Continua...

 

   
 
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