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Autore: Anacarnil    14/07/2010    2 recensioni
"Il ghignò sul volto di Lyon si allargò ancora, mentre Anacarnil tremava incontrollato, il dolore fisico ormai dimenticato, rilegato in fondo ai suoi pensieri. Era altro dolore, quello che lo coglieva, molto più pericoloso di quello materiale, a cui era tanto abituato. Calime, la sua Calime…" Il triangolo Anacarnil, campione della cittadella Iruvian, Calime, sua compagna, tradita dalla lontananza, e Lyon, gretto e meschino rivale del campione, si tinge del rosso del sangue.
Genere: Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Vorrei essere luce, per poter guardare aldilà delle tenebre del mio cuore.

Vorrei essere ombra, e perdermi nella notte che avanza.”

                                                                                                               Calime

 

 

L’uomo dai lunghi capelli neri avanzò, ostentando un ghigno malizioso e crudele sul volto liscio e perfetto. Il silenzio regnava sovrano, l’unico suono udibile era il frinire in lontananza di grilli e cicale, e lo stormire quieto dell’erba sotto i suoi piedi.

Le fiaccole sulle mura, a molta distanza dalla sua figura, baluginavano flebilmente, mandando bagliori impercettibili verso la pianura deserta.

Nella mano impugnava una lunga spada, minacciosa nell’oscurità e nel buio.

Guardava attraverso l’abisso che erano gli occhi dell’altro uomo. Sotto il cappuccio parevano neri come l’ossidiana, come finestre sul nulla, scuro vuoto di esistenza ed espressione.

Si fermarono, uno di fronte all’altro, squadrandosi con malcelato odio, l’uno nascosto tra le pieghe rassicuranti della cappa, l’altro perversamente scoperto, la cascata di neri capelli che scendeva lungo le spalle robuste, gli occhi dardeggianti, infuocati, il ghigno stampato ostinatamente sul volto trasfigurato.

«Di te non rimarrà che il ricordo, grande Campione Anacarnil…» Una voce untuosa, melliflua, scaturì dalle sue labbra schiuse appena, mentre si squadravano, immobili.

«È finito il tempo…della gloria…» Il ghignò si allargò sul volto di Lyon, deformando i lineamenti, rendendo il volto una maschera di perversione.

Quando il suo interlocutore si chinò, lento, verso il suo volto, vide un’ oscura minaccia di morte nei suoi occhi spenti.

«Dovrai pagare… per aver giocato con il mio orgoglio e la mia fedeltà…»

Le parole vibrarono di veleno nell’aere fresco, i denti stretti nel pronunciare le poche parole, lentamente, quasi controllasse la sua furia, la placasse, tentasse di reprimerla.

Si scostarono, le lame sguainate, stridio metallico ad accompagnare quel gesto repentino.

Un duello mortale.

La lotta per il dolore. La sofferenza.

Si scambiarono con impeto colpi su colpi, intrecciando le spade in una macabra danza di muscoli e nervi tesi.

Non risparmiavano un solo gesto, miravano l’uno a uccidere l’altro, a ferirlo, a renderlo sofferente ai propri piedi, devastarlo, nel corpo e nello spirito.

Erano ambedue maestri, nell’arte della guerra. Uno più fortunato dell’altro in tal senso, poiché Lyon Covenant non era riuscito nell’intento di fare carriera, a differenza del suo mortale avversario.

Continuarono a scambiarsi colpi, fintanto che l’uomo bruno, perfido e sleale per natura, non scivolò proprio di fronte al guerriero, pestandogli il piede e deviando il decorrere della spada, che fendette l’aria sibilando.

Anacarnil digrignò i denti, non tanto per il dolore, quanto per essere stato ingaggiato in una leva che lo aveva messo, in pochi secondi, in ginocchio. Strinse i denti, mentre Lyon torceva con quanta violenza era in grado di utilizzare, la gamba del rivale, spezzando tendini, girando le ossa tanto da farle sconnettere.

Il Campione si irrigidì, tremando per l’atroce sofferenza generata da quel gesto. Gli occhi spalancati, le mani protese ad artigli mentre tentava invano di ribellarsi, di sciogliere quella presa di sofferenza.

Lyon accostò il volto all’orecchio dell’altro, suadente, un sibilo minaccioso, la sua voce divenne la nenia di terrore nella mente del legionario.

«Dovevi sentirla…mentre ansimava, gemeva, godendo, fremeva tutta, sotto di me, e mi guardava sorridente…»

«Sme…ttila…»La violenza non era solo fisica, era pura induzione mentale, la voce proiettava immagini scabrose e infide nella mente del guerriero biondo, bloccandogli il respiro, mentre riaffioravano i ricordi della scoperta terribile.

Calime si era lasciata andare, in una notte sola, alla frenesia della carne, aveva danzato tra le lenzuola, insieme al fautore della sua momentanea disfatta.

«Era uno spettacolo vederla sotto di me, la mia pelle che scorreva sulla sua…i sensi accesi per soavi secondi, minuti, ore…Era una dea…La mia dea per quella notte…»

Il ghignò sul volto di Lyon si allargò ancora, mentre Anacarnil tremava incontrollato, il dolore fisico ormai dimenticato, rilegato in fondo ai suoi pensieri. Era altro dolore, quello che lo coglieva, molto più pericoloso di quello materiale, a cui era tanto abituato.

Calime, la sua Calime…

Aveva condiviso la sua vita con lei, con lei aveva vissuto momenti bellissimi, ricordando il suo volto, il suo sorriso, le sue dolci effusioni…

La sua assenza aveva fatto sì che Calime lo allontanasse dai suoi pensieri, per due ore, le due ore fatali della sua vita, avrebbero dato una svolta, la chiave per cambiare, dimenticare…uccidere.

I gemiti soffocati di Anacarnil divennero subitamente gutturali versi di rabbia e frustrazione, suoni raschiati di gola, che scaturivano dai recessi dell’Inferno ove era ora la sua mente.

Il tremore soffuso divenne movimento convulso, tutto il corpo era sottoposto a quel violento attacco d’ira. Le mani, come artigli di un demone, scattarono all’indietro, afferrando Lyon, troppo lento per scansare quelle tenaglie di morte. Rimase stupefatto, lasciando la presa sulla gamba per porre le mani sulle braccia del Campione. Ancora una volta, fu troppo lento. Venne scaraventato in avanti, andando a cozzare di schiena contro il terreno duro. Gli furono immobilizzati gli arti anteriori, mentre il suo avversario riprendeva la spada, e, senza badarci, gli mozzava il primo braccio, in un fendente rapido, letale.

Il sangue zampillò mentre Lyon urlava di dolore, i sensi accesi, questa volta per l’indicibile dolore, che dal braccio si dipanava al corpo intero.

Rabbiosamente tentò di scansare le armi del guerriero dai cerulei occhi, ma ormai, in preda al delirio, la lama corse a premere l’altro braccio sano a terra, e a schiacciare lentamente, ma con inesorabile potenza.

L’urlo di Lyon si spanse nell’aere come scarica di energia, riecheggiando per la conca di Iruvian.

Lentamente, la ferita al braccio si aprì, lasciando scorrere sangue e sangue, raggiunse le ossa, i nervi, i tendini, spezzandoli tutti, senza distinzioni. Poi, del braccio non rimase che un moncone zampillante sangue.

Anacarnil, terribile giustiziere, si alzò, sporco di sangue da capo a piedi, zoppicando, la spada impugnata saldamente nella destra, guardando lo spettacolo raccapricciante di arti tagliati e la pozza di sangue che si allargava accanto al corpo del bruno uomo.

«Soffri…» Disse, la voce che pareva l’eco del ringhio di una belva feroce.

Fermo fino a qualche secondo prima, la spada corse in basso, accompagnata dal moto del corpo, verso una delle due gambe.

Un gesto secco, i muscoli lacerati in un solo colpo, fino in fondo.

Lyon si agitava freneticamente, l’urlo ormai rimbombava nei meandri della mente del guerriero, perversamente desideroso di generare altra sofferenza, nell’unico modo che gli era concesso, come lui aveva subito quella sofferenza venendo a conoscenza di quella notizia raccapricciante.

Poco distante, rumore di passi lievi nell’erba.

Ma nessuno dei contendenti lo poté udire.

Tagliando anche la seconda gamba, di Lyon non rimaneva che un groviglio di carne e sangue, un fagotto urlante per lo strazio, agonizzante.

S’inginocchiò, il Campione, o la bestia che ne segnò il passo, per premere di punta la spada sul petto del principe urlante.

Calime si fermò, gli occhi sbarrati, a pochi passi di distanza, inerme a seguire quello spettacolo di morte e sofferenza.

Lyon voltò lo sguardo, gli occhi sbarrati erano colmi di immagini di indicibile dolore, e fissò Calime, ansimando, un rivolo di sangue che scorreva dalla sua bocca sin sotto il mento.

Paralizzata dall’orrore, l’elfa assisté allo spirare ineluttabile del guerriero bruno, quando la lama penetrò nel petto, rubando a lui la vita, e disperdendola nell’aere come l’ansito del vento.

«PERCHÈ?» Urlò, la voce acuta risuonò ove prima era quella del morto dinanzi a lei.

Si avventò sull’altro, la mano tesa si librò verso il volto dell’inerme Campione.

Anacarnil si alzò, lentamente, come se lo schiaffo non l’avesse nemmeno sentito sulla pelle. La guardò, dall’alto della sua statura, come se il dolore alla gamba fosse irrilevante.

E i suoi occhi assunsero una tristezza, nera come un sudario di disperazione, mentre la osservava, ricoperto di sangue da capo a piedi.

«Devi dirmelo tu…»La voce parve scaturire dai recessi della terra, cupa, bassa, un brontolio spento.

Respirando affannosamente, Calime lo squadrò allibita.

«SEI UN MOSTRO!»

Venuta a conoscenza dell’incontro che doveva suggellare la fine di una vita, era corsa freneticamente nel punto ove avrebbero combattuto, Anacarnil e il suo pretendente, Lyon.

Non urlò quelle parole perché lo odiava. Era spaventata, terrorizzata dalla piega che avevano assunto gli eventi.

Si ritrasse, attonita, da quello sguardo così surreale, per scappare via. E nello scappare, stringendo i denti per scacciare via quelle immagini di morte dalla testa, udì, alle sue spalle, poche parole.

«Sarai tu a uccidermi…»

Il sibilo corse sospinto dal vento, verso l’elfa spaurita, verso Iruvian.

 

***

 

Nella sala del trono, l’inquietudine pareva trasudare dalle austere mura, dal pavimento, dal soffitto.

Mikael accolse con apprensione il sopraggiungere della donna e mesto le si rivolse.

«Qual è il tuo nome, giovane fanciulla?»

«Non ha importanza, mio re. Sono qui per avvisarvi. Anacarnil, il vostro stimatissimo Campione è… impazzito. Ha commesso un omicidio, uccidendo un suo pari razza, senza un reale motivo plausibile.»

«…»

La voce della donna era fredda, priva di inflessione. Da sotto il cappuccio, osservò con tristezza il volto del Re degli umani, stringendo i denti per provare a continuare.

«Dovete catturarlo, vostra Maestà. Lasciarlo libero significa dargli la possibilità di uccidere ancora.»

«Certamente…»

Mikael abbassò lo sguardo, scompigliando la sua capigliatura fulva. Pareva vulnerabile, in quel momento, nella barba non vi era traccia alcuna del sorriso gioviale che era solito ostentare, nonostante il suo carattere burbero e schivo.

Sospirò, prendendo tempo, tentando di dilatarlo per poter riflettere, quasi il tempo stesso fosse un filo deposto nelle sue mani callose, capace di allungarsi a piacimento.

«Questo significa che dovrà essere sottoposto alla esecuzione capitale…»

Lo disse con estrema mestizia. Sentiva il mondo intero gravare sulle sue spalle.

Anacarnil era sua amico, lo era sempre stato. Di più, per lui era stato un figlio. Decretare la sua morte significava decretare la morte dell’animo di un povero vecchio…

Cosa era successo?

Perché aveva ucciso così, apparentemente senza un motivo valido?

Era stato provocato?

Mikael scosse il capo.

«Ti ringrazio di avermi reso queste…preziose informazioni. Sei libera di andare.»

«I miei…ossequi.»

Si accomiatò. Poi, quasi anch’ella fosse sul punto di crollare, si voltò, allontanandosi dalla sala a passo svelto, quasi volesse scomparire, mutare forma, dissolversi nell’aria stessa.

 

***

 

Tre giorni dopo

 

***

 

Dalla grata in cima al soffitto, sulla parete sopra la figura vestita di stracci e incatenata, si irradiava una pallida luce, incupita dal caotico vorticare del pulviscolo.

Lo sguardo era perso da qualche parte sul muro disadorno dinanzi a sé. Il cervello vagava, macchina inesauribile di pensieri e divagazioni.

Era felice di aver spento una vita, di averlo fatto in nome del suo orgoglio, distrutto da quell’azione irrispettosa.

Aveva fallito nell’amare, e nel farsi amare. Era contento di trovarsi prossimo all’esecuzione.

Contento di essersi abbandonato al volere delle guardie, che per tanti anni aveva comandato. Loro lo ammiravano, obbedivano ai suoi ordini non per subordinazione, ma perché era divenuto per loro l’ideale del guerriero leale, di alti valori, fedele, instancabile, aitante.

Per loro, Anacarnil era un esempio da seguire.

Avevano reagito con dubbio e confusione quando era stato ordinato loro di catturarlo, di sbatterlo nelle segrete del Palazzo, quasi fosse un qualsiasi delinquente.

Con ancora maggiore confusione avevano reagito una volta venuti a sapere che sulla sua figura gravava la pena capitale.

Avrebbero visto morire il loro idolo, sapendo che erano stati loro i fautori del suo destino.

Il pesante portone di ferro massiccio cigolò sui cardini, producendo un clangore disarmante, e Anacarnil voltò il capo, lo sguardo perso, vuoto, a fissare il nuovo venuto.

Era divenuto in una manciata di ore, la sua ombra, della passata figura di Campione rimaneva solo la muscolatura, sempre sviluppata al millimetro, potente, poderosa.

Del suo sguardo attento non era rimasto che un vago alone. Ora giaceva sugli oggetti vitreo, quasi Anacarnil avesse perso davvero la ragione.

In cuor suo, però, sapeva benissimo di essere cosciente. Sveglio, attento.

E dalla sua cinica razionalità derivava il suo interminabile dolore.

Aveva fallito.

Aveva perso tutto ciò per cui aveva lottato così duramente.

Aveva visto infrangersi i sogni, i suoi sogni.

Mikael si avvicinò, richiudendo con calma la porta dietro le sue spalle, lo sguardo grave, gli occhi che trasmettevano un’innaturale tristezza.

«Dimmi perché… Anacarnil… Dimmi perché l’hai fatto… ».

Gli si parò innanzi, tanto vicino da poter essere aggredito, seppur Anacarnil fosse incatenato per le braccia e inerme.

Era sicuro che non avrebbe mai fatto del male al suo re.

Il Campione, o quel che ne rimaneva, non rispose. Scambiò uno sguardo col suo signore, ma lo distolse subito. Tornò a fissare un punto sul pavimento, quasi la sua mente fosse proiettata altrove.

«Dimmi che non sei stato tu ad uccidere quel principetto…Dimmi che sono solo voci diffamanti sul tuo conto…».

Attese che Anacarnil rispondesse, ma da lui venne solo uno scuotere del capo, lento, inesorabile.

«…»

Mikael chinò il capo, stringendo i pugni.

«Modificherò la tua pena. La ridurrò a una semplice detenzione. Quando si saranno calmate le…»

Venne interrotto da Anacarnil.

«Il mio cuore continua a battere, ma il mio animo corrotto perse la sua luce giorni addietro. Lascia che io muoia con lui.»

Il Re alzò lo sguardo per incrociare quello di Anacarnil.

Le iridi avevano il colore del ghiaccio, non più del cielo limpido e terso. Probabilmente aveva ragione. Sembrava davvero morto dentro, senza possibilità alcuna di invertire il corso del fato.

Non credeva a quello che stava accadendo. Voleva rifuggire quella realtà, scappare, dimenticare. Eppure, una vocina dentro di sé lo spingeva ad affrontare quella situazione. Doveva agire, o non si sarebbe mai perdonato la codardia della fuga. Materiale o immateriale essa fosse stata.

Mikael deglutì, incapace di proferire verbo, così debole da apparire, come il suo interlocutore, l’ombra del magnanimo Re che era stato fino a cinque minuti prima.

«Ci rivedremo allora, un giorno, figlio mio.»

«…»

«Addio.»

Fece per voltarsi, senza attendere risposta. Sull’uscio della porta, la mano posata sul saliscendi, si voltò a guardarlo, l’ultima volta, e ne incrociò lo sguardo.

Anacarnil sorrideva.

 

***

 

Nel silenzio attonito della Piazza di Edasthar, un messo regio sprecava fiato ad ufficializzare l’atto di condanna a morte del Campione Anacarnil.

Le mani legate, pareva essersi discostato dal pubblico che lo fissava dal basso. Era calmo, tranquillo di aver raggiunto tutti i suoi scopi.

Il cappio gli premeva sotto il collo, ma era ben poco conto.

Nessuno credeva alle sue orecchie.

Il paladino, Campione di Edasthar, il loro Eroe, l’Eroe delle genti del Sud. Anacarnil Dereken, era condannato a morte.

Molti, silenziosamente si chiesero quanto fosse strano il mondo. Una parodia della vita era quell’atto, una caricatura grottesca dell’esistenza di una persona che aveva dedicato se stesso al fine superiore del bene della sua gente.

Aveva sacrificato se stesso per assicurare all’Uomo una vita tranquilla, priva di turbolenze.

Ora, lo stesso Ente che il Campione aveva tante volte difeso, protetto strenuamente, lo condannava a morte.

Forse, tuttavia, non era propriamente il suo Regno.

Forse qualcosa di più.

Aveva accettato il suo destino senza proferire parola.

Sinceramente convinto delle sue azioni, per quanto immorali fossero state negli ultimi tempi.

Nella folla accalcata sotto la forca, muta e immobile ad assistere alla fine di una leggenda vivente, si fece spazio una giovane elfa incappucciata, i capelli ben nascosti nelle pieghe del cappuccio, gli occhi smeraldo che brillavano alla luce del sole.

Mikael era assente.

Anche i regnanti provano dolore.

Calime guardava, respirando profondamente, il suo compagno di una vita intera. Inerme. Era scombussolata da tanta ostinazione nella morte. Aveva pensato di poter risolvere tutto.

Ma l’aveva tradito ancora una volta.

Era stata una distrazione fatale. Tutto quell’attendere l’aveva distolta dal suo intento di fedeltà assoluta. Lei amava Anacarnil, ora più che mai. Pareva uno spettro d’inchiostro sbiadito, lì, tra la folla, una come tanti, irriconoscibile.

Nell’attendere Anacarnil, era stata rapita dallo sguardo di quell’uomo dai capelli corvini, gli occhi blu, intensi, lo sguardo piacente.

Per poche ore si era lasciata incantare, persuasa dal piacere che stava ottenendo.

Ma poi, a mente fredda, ne era rimasta terrorizzata. Perché quel suo piccolo segreto era trapelato tanto in fretta?

L’avrebbe dimenticato.

E ora, aveva lei stessa condannato ciò che più importante avesse mai avuto. Perché era stata spaventata da quel comportamento, perché aveva pensato di risolvere tutto in qualche maniera meno tragica.

Eppure era stata lei a rendere a Mikael quell’informazione. Lei aveva visto la crudeltà negli occhi spiritati del suo amato. Lei lo aveva visto torturare perversamente Lyon. Non era la cosa giusta da fare, ma si rese conto che per Anacarnil la resa dei conti era inevitabile.

Si sentì mancare dentro, svuotarsi come vaso forato colmo d’acqua.

Il messo terminò di parlare, arrotolò la pergamena reale, ridiscese gli scalini. Al suo posto, si fece spazio sul palco il boia, la mano sulla leva che avrebbe azionato il meccanismo della botola su cui poggiava Anacarnil.

Il silenzio divenne completo.

Serpeggiò tra i presenti la sensazione di un malessere psichico di enorme entità.

Col fiato sospeso, attendevano, e speravano, all’unisono, che quella botola si inceppasse, non funzionasse a dovere.

Solo allora, Calime si accorse di avere avuto lo sguardo di Anacarnil fisso nel suo, per tutto il tempo di riflessione, distaccata dal mondo.

Strinse i denti.

Scendi da lì.

 

Perdonami.

 

Io ti amo ancora…

 

Ti prego…

Sul volto del Campione si dipinse un ghigno, i denti aguzzi scoperti, mentre guardava Calime.

La frase, nella mente corrotta da elucubrazioni cupe e devastanti dell’elfa, riaffiorò.

Sarai tu a uccidermi.

«E mi vedrai spirare.» Il sorriso non si spense mentre sibilava queste parole nel silenzio surreale della Piazza. Una lacrima solitaria sgorgò dagli occhi del Campione, mentre guardava Calime, e nel suo sguardo si spegneva.

Nessuno recepì il messaggio. Solo lei.

Poi, il cigolio della leva che si abbassa.

E fu tutto nero.

   
 
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