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Autore: Wendy C    15/07/2010    3 recensioni
Cosa succederebbe se una ragazza del 1958 pronunciasse un incantesimo in grado di trasportare le persone dal futuro al passato? E' quello che è appunto successo alla nostra protagonista (Becky) che dovrà vedersela con una missione alquanto bizzarra, che avrà a che fare con John Lennon e gli altri 3 Beatles.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: George Harrison, John Lennon , Nuovo personaggio, Paul McCartney , Stuart Sutcliffe
Note: AU, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Please, love me.

 

Prologue:

Penny sfogliava convulsamente il vecchio libro, con le pagine consunte, della nonna. Era un libro di stregoneria, o almeno sua nonna le aveva sempre detto così, ma Penny non è che credesse molto nella stregoneria. Però era curiosa di provare, tanto per fare qualcosa in una qualunque giornata afosa di agosto. –Ecco! Proviamo questo!- disse poi rivolta all’amica Lisa. L’incantesimo recitava:

Se il tuo amore vorrai salvare,

queste parole dovrai recitare.

Da futuro chiamare dovrai,

una fanciulla che farà delle sue virtù e conoscenze,

salvezza per le tue pene del presente.

-Sei sicura Penny?- chiese titubante Lisa.

-Certo, poi è solo un gioco- e così dicendo pronuncio il fatidico incantesimo che cambiò tutto. Anche se apparentemente, per i tre giorni successivi non successe nulla di insolito.

 

 

Capitolo 1:

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E’ dalla fine che comincia l’inizio.

 

 

7 dicembre 2010

L’auto sfrecciava lungo la statale 26 verso l’aeroporto di New York, mentre nell’abitacolo risuonava la voce di John Lennon.

Imagine there's no Heaven, It's easy if you try.

 Di li a poco avremmo dovuto prendere quel maledetto aereo per Liverpool.

-Spiegami ancora una volta perché dobbiamo trasferirci a Liverpool- chiesi acida a mia madre, era una domanda retorica si sa, ma volevo provare un ultimo tentativo per farla sentire in colpa e magari riportarmi a casa.

-Beks, lo sai, non puoi restare a New York, ne abbiamo già parlato con lo psicologo- rispose esasperata mia madre.

-Ho quasi 18 anni, a settembre vado al college,e credi che trattenermi a Liverpool per qualche mese possa cambiare la situazione?- chiesi a dir poco scocciata, sicuramente mi stava prendendo in giro, il suo ragionamento non aveva senso.

-Puoi anche andare al college in Inghilterra non trovi? Andiamo Rebecca, non rendere le cose più difficili di quello che non sono già ora- e mi guardò in modo supplichevole.

-Io non ho nessun problema cavolo!!! Sei tu che stai complicando tutto portandomi via da New York- questa era veramente l’ultima carta, o la va o la spacca.

You may say that I'm a dreamer, But I'm not the only one.

-Non mi freghi Becky, mettiti il cuore in pace- dopo quelle parole capii che non avevo altre possibilità di tornare a casa. Misi il broncio e rimasi zitta per il resto del viaggio, fino all’aeroporto.

Non volevo andarmene da New York, era casa mia, era l’ultima cosa rimasta che mi legava a David, che mi legava a mio padre e alla mia spensierata infanzia. Era tutto quello che avevo, non volevo andarmene.

Mi sentivo come se mi avessero strappato una parte di me, come se quel dolore che aveva costretto mia madre a cambiare città fosse tornato vivo e pulsante. Me lo ricordo come se fosse ieri, ricordo ancora quando andai a trovare David per l’ultima volta.

 

-Cosa farò senza di te?- chiesi fra le lacrime, mentre David era sdraiato su quel letto, così asettico e insignificante, il rumore del respiratore in sottofondo.

-Ce la farai- mi rispose con un sorriso nel volto ormai incavato, era diventato molto magro, colpa della malattia. Però riuscivo a riconoscere ancora quegli occhi blu pieni di vita e di gioia, come sempre.

-Non puoi abbandonarmi, me lo avevi promesso- la mia voce era straziata dal dolore, avrei tanto voluto essere forte come lui, ma non ci riuscivo, piangevo, piangevo e piano, piano…poco alla volta morivo dentro.

-Lo so- aveva la voce spezzata. –Ti prego, non voglio un altro motivo per avercela con Dio- e mi strinse la mano con la poca forza che gli era rimasta.

-Ti amo- dissi con un nodo alla gola.

-Anche io ti amo- .

 

La sera che se ne andò, nessuno dei due aveva parlato. Eravamo rimasti tutto il tempo in silenzio, stringevo la sua mano, accoccolata di fianco a lui. Ad  un certo punto la presa si allentò, sempre di più. Non piansi, non subito, all’inizio non riuscivo ancora a capacitarmene, era morto. Andato per sempre. Non avrei mai più sentito la sua risata, il suo profumo, nessuna chiamata da parte sua, non avrei più potuto baciarlo, parlargli. Era finita per sempre. Continuavo a pensare a queste cose, mentre guardavo l’alba fuori dalla finestra, senza riuscire a versare una lacrima. Ormai non ne avevo più. Ero traboccante di dolore. Dolore che non riuscivo ad esternare e che piano, piano si trasformò in odio, odio verso tutti, verso il mondo, verso la vita.

Un odio straziante, odiavo pure David, perché mi aveva lasciata a quel modo.

Poi l’odio a sua volta si trasformò in indifferenza verso tutto ciò che prima rendeva la mia vita degna di essere vissuta. Avevo smesso di uscire con gli amici, di andare alle lezioni di danza classica, non andavo nemmeno più a trovare il mio cavallo. Ero diventata una specie di automa, facevo il giusto necessario per sopravvivere, l’unico piccolo svago che mi concedevo erano i Beatles e la mia chitarra, una splendida Epiphone Les Paul regalatami da mio padre poco prima che morisse in un incidente stradale quando avevo solo dieci anni.

Mi rendevo conto che così la situazione era diventata insostenibile ma non riuscivo a saltarne fuori, ogni volta che facevo un piccolo miglioramento e cercavo di tornare quella ragazza piena di vita che ero prima, ecco che qualcosa mi ricordava che David non c’era più. Era difficile da accantonare quel fatto, David non solo era stato il mio ragazzo, prima di tutto era il mio migliore amico da quando avevo cinque anni, era il mio confidente, colui che mi sosteneva quando ne avevo bisogno. Senza di lui non mi sarei mai iscritta al corso di danza. Senza di lui non avrei mai avuto il coraggio di sostenere un balletto al teatro della scuola quando avevo solo dieci anni e mio padre era morto da poco. Era il mio carpe diem, insieme avevamo vissuto ogni singolo momento al massimo, ad una velocità supersonica. Era il mio primo tutto, il primo amico con cui avevo litigato, il primo a cui parlavo quando avevo un problema, il primo a cui feci sentire una canzone scritta da me, il primo ragazzo che avevo baciato e anche il primo con cui avevo fatto l’amore. E ora lui non c’era più, quindi era abbastanza comprensibile che mi sentissi anche solo un po’ disorientata. Non è che avessi proprio smesso di vivere completamente, ma mi ero messa in pausa, come se dovessi fare il punto della situazione. Dovevo decidere chi volevo essere e cosa volevo farne della mia vita.

La settimana prima di partire avevo già deciso che sarei tornata a danza e che avrei fatto di tutto per entrare alla Juilliard proprio come avevo promesso a David, come avevo promesso anche a me stessa. Ma mia madre decise di punto in bianco che l’aria di Liverpool mi avrebbe fatto bene, per “staccare”, come dice lei, da tutto. E così aveva deciso di andare a vivere nella vecchia casa della zia Penny, morta ormai da qualche anno. Non che Liverpool non mi piacesse, era la città che dava i natali ai miei Favolosi 4, ma i miei piani di riprendere a danzare e di andare alla Juilliard andarono in fumo. Inoltre non volevo lasciare New York, quei ricordi per quanto mi facessero male erano meglio che finire catapultata in un luogo a me estraneo. Ma mia madre fu irremovibile, soprattutto perché anche secondo lo psicologo “cambiare aria” mi avrebbe fatto bene. E figuriamoci se lei non ascoltava lo psicologo, che di me non sapeva proprio nulla.

Quindi eccoci qui a Liverpool; il taxi si fermò davanti a questa casa simile a tutte le altre in Menlove Avenue, fuori pioveva e il vento tagliente mi colpì in pieno viso appena scesi dall’auto. Mia madre e mia sorella presero i bagagli ed entrarono prima di me, mentre io rimasi li fuori a contemplare la strada. Una volta, in una qualche casa prima della nostra ci abitava John Lennon, solo a pensarci mi vennero i brividi e naturalmente scoppiai a piangere. Un po’ per John e un po’ per lo stress del viaggio e i soliti motivi, decisi così che forse era meglio di entrare, chissà cosa avrebbero pensato i vicini vedendomi infreddolita e completamente fradicia mentre piangevo sul vialetto di casa. Ecco, pensai, iniziavo già a ragionare come una ragazza di periferia; non mi ero mai curata dei vicini a New York, nemmeno li conoscevo.

Entrata in casa mi trovai subito di fronte a un corridoio che portava alle scale per il piano superiore, alla mia destra c’era un salotto e a sinistra la cucina. L’arredamento era ancora tutto in stile anni ’70, una volta questo appartamento apparteneva alla zia Penny, la sorella di mia nonna, che siccome quando è morta non aveva figli, ha lasciato tutto in eredità a mia madre. Quindi se ora sono qui devo anche ringraziare –si fa per dire- la cara zia Penny.

-Becky non è che verresti a darci una mano con i bagagli?- sentii chiedere con tono retorico, mia madre.

-Arrivo!- e così dicendo presi a salire gli scalini che scricchiolavano sempre di più man mano che salivo.

-Mamma, questa casa è una catapecchia!- brontolai entrando in quella che, a quanto pare, lei aveva deciso fosse la sua camera da letto.

-Non incominciare a lamentarti Rebecca- rispose spazientita senza nemmeno guardarmi in faccia, -e piuttosto, vai a disfare i tuoi bagagli, li trovi nell’ultima camera in fondo al corridoio- .

La finestra di camera mia si affacciava sul retro del giardino, la stanza era abbastanza grande e spaziosa. C’era un vecchio letto in legno massiccio, con la testata ricoperta di velluto verde acqua, alla mia destra in fondo alla stanza; di fronte invece c’era uno scrittoio con uno specchio molto antico, forse risaliva ai primi del ‘900. E per finire un grande armadio marrone scuro di fronte al letto. Per prima cosa, prima ancora di disfare i bagagli, presi il quadro con il poster dei Beatles e lo appesi proprio di fianco al letto, dove c’era un chiodo ancora appeso alla parete e faceva proprio al caso mio. E proprio li di fianco c’era una piccola scritta incisa nel legno: “John” e un cuoricino, chissà chi l’aveva fatta. Poi improvvisamente tornai alla realtà e mi accorsi che ero completamente fradicia, mi tolsi i vestiti e presi un paio di jeans grigi e una T-shirt blu che diceva: “Defend New Orleans” , andai nel bagno di fronte alla mia camera e feci una doccia calda. Proprio quello che ci voleva. Tornata in camera, siccome faceva freddo, sopra i jeans indossai delle calze azzurre di lana e poi misi le All Star blu. Con tutti i capelli arruffati, sembravo una appena scappata dal manicomio, ma poco mi importava, tanto ero sdraiata sul letto di camera mia e non dovevo farmi vedere da nessuno. Sdraiata sul letto notai che sul soffitto c’era una botola, sembrava quasi una porticina per la casa di un nano, se non fosse stato che, appunto, si trovava sul soffitto. Mi fece venire in mente “Alice nel paese delle meraviglie” quando all’inizio si trova a dover scegliere da quale porta poter scappare.

Prova a scappare in quella…magari è collegata con una soffitta di New York. Sorrisi a quel pensiero e incuriosita mi alzai in piedi sul letto e l’aprii.

Improvvisamente scese giù una scaletta di legno tutta impolverata, evidentemente erano moltissimi anni che nessuno la usava più.

Era buio lassù, quindi tirai fuori dalla tasca il cellulare per fare un po’ luce. Salii le scale con un po’ di timore, avevo sempre avuto un’inconscia paura del buio, pensavo sempre che da un momento all’altro qualcuno o qualcosa mi sarebbe saltato addosso, eppure era stupido perché sapevo perfettamente che non ci sarebbe stato nessuno. Arrivata li su trovai subito l’interruttore della luce, una volta accesa vidi che era una soffitta piena di vecchie cose in disuso. C’erano vecchi bauli, quadri, una vecchia lampada da salotto, di quelle che da piccola mi facevano sempre pensare a bustini per dame dell’800 e poi c’era anche una vecchia –e rotta aggiungerei- chitarra classica tutta impolverata. Curiosa com’ero –e come sono tutt’ora- aprii il primo baule che mi trovai davanti, dentro c’erano un sacco di lettere, quaderni e diari, ne aprii uno a caso.

 

20 Agosto, 1958

 

Caro diario,

Nessuno mi capisce davvero, la mamma continua a dire che dovrei pensare a diventare una buona casalinga e che è disdicevole che una ragazza della mia età non sappia ancora stirare e dice che dovrei smettere di suonare il violoncello, dice che con quello non mi guadagnerò mai da vivere e non troverò mai marito. Tanto è inutile, non lo troverei comunque marito, a me piace solo John ma a lui non interesso. Non mi ha mai considerato in “quel modo”, eppure andiamo alla stessa scuola, abitiamo nella stessa via e siamo pure molto amici. A lui però interessa solo la sua stupida band, i “Quarryman”…ma che nome è dico io? Almeno poteva trovarne uno più originale!! In ogni caso sono proprio depressa perché non c’è nulla nella mia vita che vada per il verso giusto. L’altro giorno per la noia ho pure provato a fare uno di quegli incantesimi del libro di nonna Betty, ma mi sa che sono solo cavolate perché non è successo nulla.

 

Tua,

Penny.

 

Zia Penny aveva scritto questo? ZIA PENNY CONOSCEVA JOHN LENNON!!!?????? Per un attimo mi mancò il respiro, mi dimenticai che ero triste perché David era morto, perché ero andata via da New York e per tutta una serie di altre circostanze poco gradevoli. Così mi voltai verso l’apertura della botola per raccontarlo, ma che dico, urlarlo a mia madre e mia sorella; solo che non feci in tempo a raggiungere l’apertura nel pavimento che una scossa, come di un terremoto, colpì la casa. Cascai a terra e quello che successe dopo fu alquanto confusionario, ricordo che non sentii urla, quasi come se quella scossa la percepissi solo io.

Poi qualcosa mi cascò in testa e il resto è nulla.

Quando mi risvegliai, avevo le tempie che mi dolorava un po’, cercai di alzarmi ma mi girava la testa così mi misi a sedere. Rimasi scioccata da quello che vidi, la stanza era sempre la stessa ma gli oggetti di prima non c’erano più, e la piccola finestrella che prima era chiusa ora era aperta e vi entrava la luce del sole e non di un debole sole di Dicembre, sembrava proprio estate, da vedere così. Cercai di non mettermi a urlare o piangere, forse ero morta. O forse ero solo svenuta e in questo momento mi trovavo in coma all’ospedale. Che bella prospettiva.

-Mammaaaa!!!??- provai a chiamare, magari…

Non sentii nessuna risposta.

-Aiutoooo!!!- urlai di nuovo.

Questa volta sentii dei passi decisi sotto di me, sentii la porta di camera mia aprirsi e qualcuno che convulsamente saliva la scaletta di legno per entrare in soffitta.

-Mary!! Avevo ragione io!! Ci sono riuscita alla fine!- urlò una giovane ragazza guardandomi con un’aria molto felice e sorpresa. Sembrava proprio zia Penny. __________________________________________________________________________________________________________ Bene....alla fine mi sono decisa a pubblicarla...erano 3 mesi che ci rimurginavo sopra...spero che come primo capitolo vi piaccia.
*si perchè secondo te qualcuno lo viene a leggere sul serio?* n.d. John
*Si!!! io ci spero scusa eh :( * n.d. me
*Dai John lascia che si illuda almeno un pochino* n.d. George

  
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