La Vita Nova.
Capitolo I
Non ti faccio paura?
La zingara sentì quelle quattro parole sussurrate nel vuoto, con una
nota di incredibile malinconia che per un attimo la
fecero desistere dall'attaccare l’estraneo, chiunque esso fosse. Il solo suono
di quella voce, profonda e calda, calma ma che stava intimamente gridando,
l’aveva bloccata con la mano a metà strada.
Non ti faccio paura?
Chi era quell’uomo che era entrato nella sua casa? E perché quella domanda
le sembrava tanto disperata?
Prese un bel respiro e, dimenticando la tristezza di quella voce e
tutte le ragioni che potessero esserci dietro, aprì di
scatto la porta, che sbatté contro la già precaria parete in legno, facendo
tremare tutto. L’uomo in questione era seduto sul suo letto, ma non sembrava
tanto sorpreso di trovarsela davanti, né spaventato per il pugnale che si
ritrovò puntato contro. Evidentemente l’aveva sentita arrivare; il tintinnio
dei tanti bracciali che teneva ai polsi, nel silenzio, risuonavano
come campane.
L'estraneo non mosse alcun muscolo, nonostante si sentì premere un
coltello sotto la gola, e si limitò a fissarla con occhi vacui, mentre una mano
guantata di nero continuava ad accarezzare il suo
gatto.
«Chi sei?», gli chiese senza troppe cerimonie, assottigliando gli
occhi. Il sole era già calato da un pezzo e non c’erano candele accese per
vedere bene chi si trovasse davanti. Riusciva solo a scorgere la sua imponente
sagoma accovacciata contro il muro e il bagliore sinistro dei suoi occhi
nell’ombra. «Parla, o ti taglio la gola.»
«Se volete non esitate a farlo, mademoiselle.
Ora come ora mi fareste solo un favore.»
La ragazza esitò, perplessa. Chi diavolo era
quello? Se prima l’adrenalina di dover affrontare un estraneo nella sua casa le
aveva provocato batticuore, ora era solo estremamente
incuriosita da quell’uomo. Sicuramente sapeva cosa dire e come dirlo per avere tutta l’attenzione su di sé. O per lo meno,
con lei c’era riuscito alla perfezione. E il suo tono deciso nel chiederle di
ucciderlo non aveva fatto altro che farla fremere di
più. Perché un uomo avrebbe dovuto volere una cosa simile da un’estranea? Lei,
per quanto avesse vissuto la sua giovane vita in
miseria e non certo in felicità, non aveva mai desiderato la morte, anzi. Era
convinta che prima o poi la vita le avrebbe dato ciò
che le spettava di diritto: un posto normale nella società.
«Chi sei?», ripeté, con più calma.
Le sembrò che l’uomo sorridesse amaramente, prima di risponderle.
«Veramente, mademoiselle, non lo so.»
La zingara alzò un sopracciglio. «No?»
«No. In realtà non l’ho mai saputo.», continuò
l’uomo, abbassando la voce in un suono roco e debole. «Però le poche persone
che hanno avuto a che fare con me mi hanno sempre chiamato Erik, se vi interessa saperlo.»
La giovane rimase immobile, mentre le parole di quell’estraneo le
risuonavano in mente. Anche lui senza un nome, anche lui senza famiglia... Aveva
provato scetticismo poco prima, ora era solo mossa da
un’immensa compassione. Gli era bastato sentire il dolore nella sua voce per
capire che fosse sinceramente distrutto.
«Erik.», ripeté, riponendo la sua arma nello stivale, sotto l’occhio
vigile dell’altro. «Perché sei qui?»
«Perché non ho dove andare. Non era mia intenzione profanare la vostra
casa.» L’uomo si alzò, mentre il gatto, contrariato,
emetteva un miagolio soffocato e balzava giù dalle sue gambe, andando a
strofinarsi contro quelle della sua padrona. Questa
non si fece intimorire dalla stazza dell’uomo, molto più alto e robusto di lei.
Un uomo che non voleva più vivere non poteva essere pericoloso.
«Puoi restare, non mi darai fastidio.», gli disse, andando verso un
ceppo di legname già arso in precedenza, che accese con un fiammifero,
riscaldando ed illuminando il mulino. Quando si voltò
a guardarlo alla luce delle fiamme danzanti, la giovane vide un uomo stanco e
spossato dalla vita, il volto nascosto per metà da una mezza maschera bianca
che gli copriva la parte destra - dove aveva già visto una cosa del genere? - e
ricoperto dalla barba di qualche giorno; i capelli erano sporchi e spettinati,
neri come il mantello in cui era avvolto; era molto alto e ben piazzato, ma ciò
che le mise veramente timore furono i suoi occhi. I suoi occhi erano sconvolgenti.
Vi poteva leggere di tutto: in quelle iridi chiare c’erano
tristezza, disperazione, pianti di ore che gli avevano solcato profondamente le
occhiaie. Doveva aver sofferto molto per essere in quelle condizioni. Pensò che
con un po’ più di cura quell’uomo sarebbe potuto essere veramente affascinante.
E quei suoi modi galanti nel rivolgersi a lei, una zingara, le fecero supporre
che un tempo fosse stato veramente un uomo di classe.
«Non ho molto da mangiare, spero che un po’ di pane e qualche frutto
possa bastarti.», disse la ragazza, riscuotendosi dai suoi pensieri. «Domani
andrò a cercare qualcosa in più.»
L’uomo chinò il capo, desolato. «Non dovete
disturbarvi così. Me ne andrò all’alba, non voglio crearvi problemi di alcun
tipo.»
«A meno che non sia un ricercato dai soldati,
non mi creerai alcun problema.» La giovane non si accorse dell’ombra che passò
negli occhi del suo ospite e gli indicò l’esterno con un cenno del capo. «Vai a darti una rinfrescata, amico. L’acqua che alimentava
questo mulino è fredda, ma almeno pulisce e rinvigorisce.»
Erik annuì, ringraziandola con lo sguardo e uscì al fresco della
serata, richiudendosi la porta alle spalle e poggiandosi sopra. Sospirò
pesantemente, maledicendo sé stesso e la sua vita. Se
quella povera e gentile ragazza avesse saputo chi veramente fosse non avrebbe
esitato a cacciarlo di malo modo, né a correre per
denunciarlo alla gendarmeria. Dal giorno dell’incendio era ufficialmente
ricercato come assassino e non poteva permettersi di rovinare un’ulteriore vita innocente solo perché doveva rifugiarsi da
qualche parte. Se ne sarebbe andato la mattina dopo,
prima che albeggiasse. Le avrebbe lasciato parte del suo denaro che lui non
poteva spendere per ringraziarla dell’ospitalità e si sarebbe dileguato nel
niente, come sempre.
Come un fantasma.
La zingara aveva appena finito di preparare un impacco di erbe mediche
per il suo ospite, per dargli sostanza e rinvigorirlo un poco, quando questo
apparve sulla soglia dopo la rinfrescata sul fiumiciattolo che scorreva lì. Si
era fatto prestare il suo coltello per rasarsi e ora il suo viso appariva più
luminoso e decisamente più sensuale. Sapeva
riconoscere la vera bellezza e quell’uomo ne era la prova vivente, con i suoi
lineamenti decisi e regolari, le labbra carnose ed ipnotizzanti,
e quegli occhi... Mai aveva visto occhi come quelli. Solitamente era lei che
lasciava interdetto chi la osservava, con il suo sguardo smeraldino e
involontariamente sensuale, ma quella volta si rese
conto che gli occhi di quell’uomo erano immensamente carichi di emozioni, di
qualunque tipo esse fossero; niente a che vedere con i suoi, particolari solo
per il loro colore inusuale.
L’unica cosa che la lasciava perplessa era quella mezza maschera che
nascondeva metà del suo volto. E ne aveva visto di individui
strani durante la sua vita, ma mai uno come lui. Non l’aveva tolta, nemmeno
dopo essersi rinfrescato, come se avesse avuto paura a farlo. Non osò chiedere
niente in proposito; sapeva come prendere determinati argomenti e poteva solo
immaginare che dietro quella maschera l’uomo di nome Erik stesse nascondendo
qualcosa. Qualcosa di doloroso, data l’ombra di tristezza che aveva in viso.
«Ti ho preparato una bevanda che ti farà sentire meglio e ti riempirà
lo stomaco come dopo un pasto normale.», gli disse, porgendogli una ciotola dal
contenuto scuro e non troppo invitante. «Non ha un buon sapore, ma ti farà
bene.»
Erik prese posto accanto a lei, prendendo ciò
che la giovane gli stava offrendo. «Grazie,
mademoiselle. Siete gentile.»
La ragazza, inconsapevolmente, arrossì
sotto quello sguardo inconsciamente attraente. Nessuno l’aveva mai guardata così
profondamente.
E lui se ne accorse, perché scostò velocemente l’attenzione da lei,
concentrandosi sulla sua “medicina”. Quella ragazza lo metteva stranamente a
disagio. Non solo per i suoi occhi grandi, dalla forma affilata e dal verde
smeraldo delle sue iridi, e neanche per il colore provocante dei suoi capelli,
ritirati in una disordinata treccia che lasciava sfuggire numerose ciocche
mosse sul viso scarno. Ciò che lo lasciava impacciato erano i suoi modi umili, nonostante avesse capito
che non aveva mai ricevuto educazione. Gli dava del tu come ad un vecchio amico, certo, e se avesse saputo con quale
rispetto e timore gli altri si rivolgevano a lui, qualche tempo prima,
sicuramente avrebbe cambiato tono. Ma, nonostante
tutto, l’aveva accolto come un fratello, lui, uno sconosciuto rigettato dalla
società. Non gli aveva fatto domande, né sul perché della sua condizione né
sulla maschera che portava in viso. E aveva la sgradevole sensazione che quella
donna sapesse leggergli la mente, scrutargli gli angoli più reconditi del suo
animo nero, ogni volta che lo guardava.
I suoi pensieri furono interrotti dalla testolina del gatto che
nuovamente gli si accoccolò tra le gambe, reclamando le carezze di poco prima.
«Gli piaci. Di solito gli ospiti li graffia
fino a farli scappare.», disse la giovane, mentre addentava un pezzo di pane.
«Potrei esserne gelosa, sappilo.»
Lui sorrise. «Come si chiama?» Quel gattino gli stava simpatico,
dopotutto. Quegli occhioni gialli che sembravano sorridere alle sue cure gli
mettevano addosso un’immensa tenerezza.
«Dante.», rispose lei, guardando il micio, nero come la notte che
stava calando velocemente. «Come il poeta.»
«Conoscete Dante Alighieri?» Erik si pentì subito di quella domanda
sciocca appena lo sguardo tagliente di lei lo trafisse come una lama.
«Mi sembri stupito, Erik. Forse una donna come me non può conoscere un
po’ di letteratura?»
«Non intendevo questo.», si affrettò a rispondere l’uomo, dispiaciuto.
«Non volevo offendervi.»
Lei si alzò, dirigendosi lentamente verso un mobiletto basso accanto
al letto di paglia. Ne aprì un’anta e tirò fuori un libro consumato e
impolverato, che accarezzò con cura e reverenza, come se fosse uno degli
oggetti più preziosi del mondo. «I miei genitori lo comprarono in un mercatino
dell’usato, quando ancora non ero nata.», disse, mostrando una vecchia edizione
de
Un pungolo di dispiacere colpì il cuore dell’uomo. Lui i suoi genitori
neanche li ricordava: un padre mai conosciuto, una madre che non osava nemmeno
farsi baciare da lui, inorridita dal suo aspetto mostruoso. «Come morirono?»
Gli occhi della ragazza s’indurirono. «Condannati a morte per l’accusa
di un omicidio che non avevano mai commesso.» La
giovane ripose il libro con cura dove l’aveva preso e
si poggiò con i palmi delle mani sul mobile, reprimendo la rabbia. «No. Non lo uccisero loro, quell’uomo. Non avrebbero mai
potuto fare una cosa del genere, non ne avrebbero avuto il motivo. Non erano
ben visti, specialmente mamma, perché... Beh, le
assomigliavo molto. Ma non sarebbe stata una ragione
valida.»
Il suo ospite inclinò il capo, cercando di guardarla meglio, anche se
gli dava le spalle. Non voleva portarle alla mente ricordi spiacevoli, ma la
curiosità a volte non riusciva proprio a frenarla.
Lei si accorse di quello sguardo che tacitamente le chiedeva di
continuare e prese un respiro più profondo degli altri prima di riprendere a
parlare. «La gendarmeria doveva trovare dei colpevoli, che lo fossero veramente
o meno. Non potevano certo andare in giro a raccontare
che il bambino che aveva commesso l’omicidio gli era scappato da sotto il naso.»
La gola di Erik si seccò all’istante, mentre ascoltava inerme quelle
parole. «Un... bambino?»
Lei annuì, stringendo i pugni. «Sì, un
ragazzino che era stato preso sotto le cure della mia famiglia. Io ero troppo
piccola per ricordarmelo, ma me l'hanno sempre
descritto come un mostro sfigurato, magro e brutto. Lo deridevano di fronte a
tutti per il suo aspetto, e per questo capisco il suo gesto. Anche
io avrei fatto la stessa cosa.»
Erik dovette far ricorso a tutto l'autocontrollo di cui disponeva pur
di non farsi scappare due lacrime che gli pungevano gli occhi.
«Lo capisco, ma non posso perdonarlo. Anche se non voleva, mi ha
rovinato la vita e ha stroncato quella dei miei.»,
continuò lei, con voce tremante. «Sai, ho fatto una
promessa. Se un giorno dovessi scoprire chi è stato, se questo bambino fosse
cresciuto e diventato adulto e io lo dovessi trovare...
Non esiterò a compiere il mio primo omicidio. Non m’importa se poi farò la
stessa loro fine, ma il sapore della vendetta dovrò provarlo, prima o poi, no?» Ed era vero: non aveva mai ucciso nessuno,
a differenza di altri suoi compagni che invece collezionavano furti e morti
come se niente fosse. Ma era sicura che prima o poi
avrebbe trovato il responsabile della rovina della sua vita, della morte dei
genitori. Era cresciuta senza sapere cosa volesse dire il calore di un
abbraccio materno, o la normale gelosia di un padre; era cresciuta senza
l'affetto di chi l'aveva messa al mondo, di chi l'amava
veramente per quello che era. Non avrebbe permesso di farla passare liscia a
quello che un tempo era solo un bambino e che aveva lavato via, con un solo
gesto, le vite dei suoi genitori. Sapeva aspettare,
lei. La pazienza e il saper mantenere rancore per anni era
uno dei suoi migliori pregi, e chi la conosceva questo lo sapeva bene.
Erik, nel frattempo, non riuscì a risponderle, troppo occupato a
convincersi che si trattava solo di una coincidenza, di una curiosissima coincidenza.
Un bambino di appena nove anni... Il volto
sfigurato, deriso... Il suo aguzzino... Un cappio stretto intorno al collo... Poi
la fuga, le urla, il dolore…
«Va tutto bene?», gli chiese la giovane, sedendosi nuovamente accanto
a lui. «Non volevo parlare di cose spiacevoli, non con una persona che mi
sembra averne passate di peggio.»
L’uomo nascose a stento un gemito di disappunto e finì di bere la sua
bevanda. «Sì, va tutto bene, mademoiselle. Grazie per
la vostra ospitalità.»
Lei sorrise, per la prima volta in tutta la serata. Per quanto fosse
triste e depresso, quell’uomo era buffo. Nessuno le aveva mai dato del voi
in segno così rispettoso, né l’avevano mai chiamata mademoiselle!
«Com’è?»
Erik posò la ciotola ormai vuota, corrugando la fronte e non riuscendo
a contenere una smorfia. «Un po’ aspra. Ma bevibile.»
«Faceva schifo, lo so.», rise lei, illuminandosi. «Ma
vedrai che domani ti sentirai meglio. Ora mangia un po’,
altrimenti mi collassi davanti agli occhi.»
Il suo ospite fece come gli aveva detto e lei lo osservò di sottecchi,
mentre mangiava con fame un’intera pagnotta e qualche mela matura. Le
dispiaceva non potergli offrire altro, ma era tutto quello che possedeva. Una
zingara come lei, del resto, non aveva niente se non il minimo indispensabile.
D’altra parte, Erik non riusciva a capacitarsi di quello che aveva
appena sentito. C’era solo un’altra prova che avrebbe potuto sfatare le sue
paure oppure fargli capire che le sue supposizioni erano purtroppo vere. Non si
era mai pentito del suo gesto, anzi. Per lui quello fu un atto dovuto, per
fuggire da quella condizione ridicola che Dio gli aveva affibbiato. Ma la
consapevolezza di avere davanti una vittima innocente
di quello che aveva fatto lo faceva stare male, più di quanto già non stesse.
«Come vi chiamate?», le domandò, lanciandole una fugace occhiata e
sperando che non pronunciasse mai quel nome che gli arrivò alla mente come uno
sbiadito ricordo.
La giovane sospirò, giocando distrattamente con il ciuffo finale della
sua treccia. «Non ho un nome, in realtà. E’ più un
appellativo.» Vedendo l’occhiata curiosa che il suo
ospite le riservò, decise di rispondergli con un sorriso provocatorio.
«Mi chiamano Phénix.
Non poteva sapere, però, che gli occhi di Erik si fecero grandi non
per la curiosità di quel nomignolo, ma perché si vide il mondo crollargli
addosso, come se già non dovesse portarsi dietro un peso più gravoso di lui.
Era lei, dunque, la bambina dai bellissimi occhi smeraldo e dai capelli rossi
che quegli zingari amavano chiamare così. Ricordava perfettamente i genitori di
quella piccola, così innamorati di lei, così desiderosi di vederla crescere nel
migliore dei modi, sebbene non avessero niente da darle; sempre così gentili
con lui, senza mai osare un commento di disprezzo nei suoi confronti. Ricordava
di come il resto degli zingari soleva guardarli con scetticismo e di come loro,
invece, continuavano la loro vita senza problemi. E ricordava
quel nome particolare solo per il bizzarro colore dei suoi capelli e la
diffidenza che alcuni di loro provavano nei confronti della madre e nei suoi,
sebbene fosse ancora solo una bambina di poco meno di due anni.
E lui, lui inconsapevolmente li aveva condannati quei genitori,
stroncando qualsiasi programma quella famiglia avesse, solo perché erroneamente
loro si trovavano lì in quel momento, solo perché lui era uno scherzo della
natura che voleva vendicarsi delle beffe che subiva ogni giorno. In realtà non
aveva mai saputo delle conseguenze di quel suo gesto, una volta isolatosi dal
mondo. E venirlo a sapere così, proprio da lei era l'ennesimo brutto scherzo
che la vita gli stava giocando.
Era lui il bambino che aveva ucciso, quel giorno.
E lei la bambina che aveva reso orfana.
Lei era la sua questione
in sospeso.
Continua...
Elby, carissima! E' un piacere rileggerti!
*_* Tranquilla, son sparita anche io, ti capisco
quando dici che ci sono cose che prosciugano tempo e forze, quindi non devi
scusarti! Ti concederò una seconda possibilità, accordato. ù_ù
XD
Ma passiamo alla recensione! *_* Son
così contenta che ti piaccia la donzella dai capelli rossi - anche
io ho un debole per i capelli di questo colore, o per questo colore a
prescindere, ecco! - e ho sempre amato le congetture che tempo fa si facevano sulle donne così (lo so, è una cosa orribile,
i roghi e tutto quanto, ma è affascinante!)... Non potevo pensare di creare un
altro personaggio alla Christine, altrimenti saremmo punto e a capo! :D E a proposito: non-Erik/Christine
for president!
Per quanto riguarda il " ...lo impugnò
con decisione in mano" hai ragionissima, mi è scappato! Son quei particolari
che effettivamente appesantiscono una frase, grazie per avermelo fatto notare. :)
Questo capitolo come ti è sembrato? L'avevi già letto? *smemorata mode on* Ho deciso di rendere subito di dominio
pubblico il mistero della storia (che ovviamente non sarà l'unico, altrimenti
che due palline!), perché ho pensato che sarebbe stato interessante che il
lettore sapesse, mentre i diretti interessati no. Sadica, lo so, ma mi diverto
torturare i personaggi delle mie storie così, capiscimi... Dovrò divertirmi un
po' anche io, no? :P
Ti ringrazio per i complimenti e per gli auguri, ricambio gli auguri per il tuo quasi-lavoro-dei-sogni!
*-* Ah, l'epilogo è finalmente nato, dopo mesi di travaglio... Era anche ora! Così posso dedicarmi alle altre mille mila
cose che ho in pentola, sperando che non brucino.
Ancora grazie, spero di rileggerti presto!
Un saluto a te e a tutti i lettori e/o lettrici!
Marta.