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Autore: kenjina    19/07/2010    0 recensioni
[Dal prologo] Quanto tempo era passato da quel giorno? Non lo ricordava, ma sentiva che era troppo poco, insufficiente per sbiadire il dolore che ancora provava forte e vivido, ogni istante, come se fosse accaduto solo pochi attimi prima. [...] Ma perché rimaneva ancora così attaccato alla vita? Aveva per caso qualche ragione per cui valesse la pena continuare a nascondersi per tenersi stretta l’unica cosa che odiava con tutto se stesso? I fantasmi continuano a vagare per il mondo dei vivi finché non risolvono le loro questioni in sospeso... Forse anche lui ne aveva una? Non lo sapeva, non voleva saperlo.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Bonjour

La Vita Nova.

 

Capitolo I

 

Non ti faccio paura?

La zingara sentì quelle quattro parole sussurrate nel vuoto, con una nota di incredibile malinconia che per un attimo la fecero desistere dall'attaccare l’estraneo, chiunque esso fosse. Il solo suono di quella voce, profonda e calda, calma ma che stava intimamente gridando, l’aveva bloccata con la mano a metà strada.

Non ti faccio paura?

Chi era quell’uomo che era entrato nella sua casa? E perché quella domanda le sembrava tanto disperata?

Prese un bel respiro e, dimenticando la tristezza di quella voce e tutte le ragioni che potessero esserci dietro, aprì di scatto la porta, che sbatté contro la già precaria parete in legno, facendo tremare tutto. L’uomo in questione era seduto sul suo letto, ma non sembrava tanto sorpreso di trovarsela davanti, né spaventato per il pugnale che si ritrovò puntato contro. Evidentemente l’aveva sentita arrivare; il tintinnio dei tanti bracciali che teneva ai polsi, nel silenzio, risuonavano come campane.

L'estraneo non mosse alcun muscolo, nonostante si sentì premere un coltello sotto la gola, e si limitò a fissarla con occhi vacui, mentre una mano guantata di nero continuava ad accarezzare il suo gatto.

«Chi sei?», gli chiese senza troppe cerimonie, assottigliando gli occhi. Il sole era già calato da un pezzo e non c’erano candele accese per vedere bene chi si trovasse davanti. Riusciva solo a scorgere la sua imponente sagoma accovacciata contro il muro e il bagliore sinistro dei suoi occhi nell’ombra. «Parla, o ti taglio la gola.»

«Se volete non esitate a farlo, mademoiselle. Ora come ora mi fareste solo un favore.»

La ragazza esitò, perplessa. Chi diavolo era quello? Se prima l’adrenalina di dover affrontare un estraneo nella sua casa le aveva provocato batticuore, ora era solo estremamente incuriosita da quell’uomo. Sicuramente sapeva cosa dire e come dirlo per avere tutta l’attenzione su di sé. O per lo meno, con lei c’era riuscito alla perfezione. E il suo tono deciso nel chiederle di ucciderlo non aveva fatto altro che farla fremere di più. Perché un uomo avrebbe dovuto volere una cosa simile da un’estranea? Lei, per quanto avesse vissuto la sua giovane vita in miseria e non certo in felicità, non aveva mai desiderato la morte, anzi. Era convinta che prima o poi la vita le avrebbe dato ciò che le spettava di diritto: un posto normale nella società.

«Chi sei?», ripeté, con più calma.

Le sembrò che l’uomo sorridesse amaramente, prima di risponderle. «Veramente, mademoiselle, non lo so.»

La zingara alzò un sopracciglio. «No?»

«No. In realtà non l’ho mai saputo.», continuò l’uomo, abbassando la voce in un suono roco e debole. «Però le poche persone che hanno avuto a che fare con me mi hanno sempre chiamato Erik, se vi interessa saperlo.»

La giovane rimase immobile, mentre le parole di quell’estraneo le risuonavano in mente. Anche lui senza un nome, anche lui senza famiglia... Aveva provato scetticismo poco prima, ora era solo mossa da un’immensa compassione. Gli era bastato sentire il dolore nella sua voce per capire che fosse sinceramente distrutto.

«Erik.», ripeté, riponendo la sua arma nello stivale, sotto l’occhio vigile dell’altro. «Perché sei qui?»

«Perché non ho dove andare. Non era mia intenzione profanare la vostra casa.» L’uomo si alzò, mentre il gatto, contrariato, emetteva un miagolio soffocato e balzava giù dalle sue gambe, andando a strofinarsi contro quelle della sua padrona. Questa non si fece intimorire dalla stazza dell’uomo, molto più alto e robusto di lei. Un uomo che non voleva più vivere non poteva essere pericoloso.

«Puoi restare, non mi darai fastidio.», gli disse, andando verso un ceppo di legname già arso in precedenza, che accese con un fiammifero, riscaldando ed illuminando il mulino. Quando si voltò a guardarlo alla luce delle fiamme danzanti, la giovane vide un uomo stanco e spossato dalla vita, il volto nascosto per metà da una mezza maschera bianca che gli copriva la parte destra - dove aveva già visto una cosa del genere? - e ricoperto dalla barba di qualche giorno; i capelli erano sporchi e spettinati, neri come il mantello in cui era avvolto; era molto alto e ben piazzato, ma ciò che le mise veramente timore furono i suoi occhi. I suoi occhi erano sconvolgenti. Vi poteva leggere di tutto: in quelle iridi chiare c’erano tristezza, disperazione, pianti di ore che gli avevano solcato profondamente le occhiaie. Doveva aver sofferto molto per essere in quelle condizioni. Pensò che con un po’ più di cura quell’uomo sarebbe potuto essere veramente affascinante. E quei suoi modi galanti nel rivolgersi a lei, una zingara, le fecero supporre che un tempo fosse stato veramente un uomo di classe.

«Non ho molto da mangiare, spero che un po’ di pane e qualche frutto possa bastarti.», disse la ragazza, riscuotendosi dai suoi pensieri. «Domani andrò a cercare qualcosa in più.»

L’uomo chinò il capo, desolato. «Non dovete disturbarvi così. Me ne andrò all’alba, non voglio crearvi problemi di alcun tipo.»

«A meno che non sia un ricercato dai soldati, non mi creerai alcun problema.» La giovane non si accorse dell’ombra che passò negli occhi del suo ospite e gli indicò l’esterno con un cenno del capo. «Vai a darti una rinfrescata, amico. L’acqua che alimentava questo mulino è fredda, ma almeno pulisce e rinvigorisce.»

Erik annuì, ringraziandola con lo sguardo e uscì al fresco della serata, richiudendosi la porta alle spalle e poggiandosi sopra. Sospirò pesantemente, maledicendo stesso e la sua vita. Se quella povera e gentile ragazza avesse saputo chi veramente fosse non avrebbe esitato a cacciarlo di malo modo, né a correre per denunciarlo alla gendarmeria. Dal giorno dell’incendio era ufficialmente ricercato come assassino e non poteva permettersi di rovinare un’ulteriore vita innocente solo perché doveva rifugiarsi da qualche parte. Se ne sarebbe andato la mattina dopo, prima che albeggiasse. Le avrebbe lasciato parte del suo denaro che lui non poteva spendere per ringraziarla dell’ospitalità e si sarebbe dileguato nel niente, come sempre.

Come un fantasma.

 

La zingara aveva appena finito di preparare un impacco di erbe mediche per il suo ospite, per dargli sostanza e rinvigorirlo un poco, quando questo apparve sulla soglia dopo la rinfrescata sul fiumiciattolo che scorreva lì. Si era fatto prestare il suo coltello per rasarsi e ora il suo viso appariva più luminoso e decisamente più sensuale. Sapeva riconoscere la vera bellezza e quell’uomo ne era la prova vivente, con i suoi lineamenti decisi e regolari, le labbra carnose ed ipnotizzanti, e quegli occhi... Mai aveva visto occhi come quelli. Solitamente era lei che lasciava interdetto chi la osservava, con il suo sguardo smeraldino e involontariamente sensuale, ma quella volta si rese conto che gli occhi di quell’uomo erano immensamente carichi di emozioni, di qualunque tipo esse fossero; niente a che vedere con i suoi, particolari solo per il loro colore inusuale.

L’unica cosa che la lasciava perplessa era quella mezza maschera che nascondeva metà del suo volto. E ne aveva visto di individui strani durante la sua vita, ma mai uno come lui. Non l’aveva tolta, nemmeno dopo essersi rinfrescato, come se avesse avuto paura a farlo. Non osò chiedere niente in proposito; sapeva come prendere determinati argomenti e poteva solo immaginare che dietro quella maschera l’uomo di nome Erik stesse nascondendo qualcosa. Qualcosa di doloroso, data l’ombra di tristezza che aveva in viso.

«Ti ho preparato una bevanda che ti farà sentire meglio e ti riempirà lo stomaco come dopo un pasto normale.», gli disse, porgendogli una ciotola dal contenuto scuro e non troppo invitante. «Non ha un buon sapore, ma ti farà bene.»

Erik prese posto accanto a lei, prendendo ciò che la giovane gli stava offrendo. «Grazie, mademoiselle. Siete gentile.»

La ragazza, inconsapevolmente, arrossì sotto quello sguardo inconsciamente attraente. Nessuno l’aveva mai guardata così profondamente.

E lui se ne accorse, perché scostò velocemente l’attenzione da lei, concentrandosi sulla sua “medicina”. Quella ragazza lo metteva stranamente a disagio. Non solo per i suoi occhi grandi, dalla forma affilata e dal verde smeraldo delle sue iridi, e neanche per il colore provocante dei suoi capelli, ritirati in una disordinata treccia che lasciava sfuggire numerose ciocche mosse sul viso scarno. Ciò che lo lasciava impacciato erano i suoi modi umili, nonostante avesse capito che non aveva mai ricevuto educazione. Gli dava del tu come ad un vecchio amico, certo, e se avesse saputo con quale rispetto e timore gli altri si rivolgevano a lui, qualche tempo prima, sicuramente avrebbe cambiato tono. Ma, nonostante tutto, l’aveva accolto come un fratello, lui, uno sconosciuto rigettato dalla società. Non gli aveva fatto domande, né sul perché della sua condizione né sulla maschera che portava in viso. E aveva la sgradevole sensazione che quella donna sapesse leggergli la mente, scrutargli gli angoli più reconditi del suo animo nero, ogni volta che lo guardava.

I suoi pensieri furono interrotti dalla testolina del gatto che nuovamente gli si accoccolò tra le gambe, reclamando le carezze di poco prima.

«Gli piaci. Di solito gli ospiti li graffia fino a farli scappare.», disse la giovane, mentre addentava un pezzo di pane. «Potrei esserne gelosa, sappilo.»

Lui sorrise. «Come si chiama?» Quel gattino gli stava simpatico, dopotutto. Quegli occhioni gialli che sembravano sorridere alle sue cure gli mettevano addosso un’immensa tenerezza.

«Dante.», rispose lei, guardando il micio, nero come la notte che stava calando velocemente. «Come il poeta.»

«Conoscete Dante Alighieri?» Erik si pentì subito di quella domanda sciocca appena lo sguardo tagliente di lei lo trafisse come una lama.

«Mi sembri stupito, Erik. Forse una donna come me non può conoscere un po’ di letteratura?»

«Non intendevo questo.», si affrettò a rispondere l’uomo, dispiaciuto. «Non volevo offendervi.»

Lei si alzò, dirigendosi lentamente verso un mobiletto basso accanto al letto di paglia. Ne aprì un’anta e tirò fuori un libro consumato e impolverato, che accarezzò con cura e reverenza, come se fosse uno degli oggetti più preziosi del mondo. «I miei genitori lo comprarono in un mercatino dell’usato, quando ancora non ero nata.», disse, mostrando una vecchia edizione de La Vita Nova, dell’Alighieri. «E’ la loro unica cosa che mi è rimasta.»

Un pungolo di dispiacere colpì il cuore dell’uomo. Lui i suoi genitori neanche li ricordava: un padre mai conosciuto, una madre che non osava nemmeno farsi baciare da lui, inorridita dal suo aspetto mostruoso. «Come morirono?»

Gli occhi della ragazza s’indurirono. «Condannati a morte per l’accusa di un omicidio che non avevano mai commesso.» La giovane ripose il libro con cura dove l’aveva preso e si poggiò con i palmi delle mani sul mobile, reprimendo la rabbia. «No. Non lo uccisero loro, quell’uomo. Non avrebbero mai potuto fare una cosa del genere, non ne avrebbero avuto il motivo. Non erano ben visti, specialmente mamma, perché... Beh, le assomigliavo molto. Ma non sarebbe stata una ragione valida.»

Il suo ospite inclinò il capo, cercando di guardarla meglio, anche se gli dava le spalle. Non voleva portarle alla mente ricordi spiacevoli, ma la curiosità a volte non riusciva proprio a frenarla.

Lei si accorse di quello sguardo che tacitamente le chiedeva di continuare e prese un respiro più profondo degli altri prima di riprendere a parlare. «La gendarmeria doveva trovare dei colpevoli, che lo fossero veramente o meno. Non potevano certo andare in giro a raccontare che il bambino che aveva commesso l’omicidio gli era scappato da sotto il naso.»

La gola di Erik si seccò all’istante, mentre ascoltava inerme quelle parole. «Un... bambino?»

Lei annuì, stringendo i pugni. «Sì, un ragazzino che era stato preso sotto le cure della mia famiglia. Io ero troppo piccola per ricordarmelo, ma me l'hanno sempre descritto come un mostro sfigurato, magro e brutto. Lo deridevano di fronte a tutti per il suo aspetto, e per questo capisco il suo gesto. Anche io avrei fatto la stessa cosa.»

Erik dovette far ricorso a tutto l'autocontrollo di cui disponeva pur di non farsi scappare due lacrime che gli pungevano gli occhi.

«Lo capisco, ma non posso perdonarlo. Anche se non voleva, mi ha rovinato la vita e ha stroncato quella dei miei.», continuò lei, con voce tremante. «Sai, ho fatto una promessa. Se un giorno dovessi scoprire chi è stato, se questo bambino fosse cresciuto e diventato adulto e io lo dovessi trovare... Non esiterò a compiere il mio primo omicidio. Non m’importa se poi farò la stessa loro fine, ma il sapore della vendetta dovrò provarlo, prima o poi, no?» Ed era vero: non aveva mai ucciso nessuno, a differenza di altri suoi compagni che invece collezionavano furti e morti come se niente fosse. Ma era sicura che prima o poi avrebbe trovato il responsabile della rovina della sua vita, della morte dei genitori. Era cresciuta senza sapere cosa volesse dire il calore di un abbraccio materno, o la normale gelosia di un padre; era cresciuta senza l'affetto di chi l'aveva messa al mondo, di chi l'amava veramente per quello che era. Non avrebbe permesso di farla passare liscia a quello che un tempo era solo un bambino e che aveva lavato via, con un solo gesto, le vite dei suoi genitori. Sapeva aspettare, lei. La pazienza e il saper mantenere rancore per anni era uno dei suoi migliori pregi, e chi la conosceva questo lo sapeva bene.

Erik, nel frattempo, non riuscì a risponderle, troppo occupato a convincersi che si trattava solo di una coincidenza, di una curiosissima coincidenza.

Un bambino di appena nove anni... Il volto sfigurato, deriso... Il suo aguzzino... Un cappio stretto intorno al collo... Poi la fuga, le urla, il dolore…

«Va tutto bene?», gli chiese la giovane, sedendosi nuovamente accanto a lui. «Non volevo parlare di cose spiacevoli, non con una persona che mi sembra averne passate di peggio.»

L’uomo nascose a stento un gemito di disappunto e finì di bere la sua bevanda. «Sì, va tutto bene, mademoiselle. Grazie per la vostra ospitalità.»

Lei sorrise, per la prima volta in tutta la serata. Per quanto fosse triste e depresso, quell’uomo era buffo. Nessuno le aveva mai dato del voi in segno così rispettoso, né l’avevano mai chiamata mademoiselle! «Com’è?»

Erik posò la ciotola ormai vuota, corrugando la fronte e non riuscendo a contenere una smorfia. «Un po’ aspra. Ma bevibile.»

«Faceva schifo, lo so.», rise lei, illuminandosi. «Ma vedrai che domani ti sentirai meglio. Ora mangia un po’, altrimenti mi collassi davanti agli occhi.»

Il suo ospite fece come gli aveva detto e lei lo osservò di sottecchi, mentre mangiava con fame un’intera pagnotta e qualche mela matura. Le dispiaceva non potergli offrire altro, ma era tutto quello che possedeva. Una zingara come lei, del resto, non aveva niente se non il minimo indispensabile.

D’altra parte, Erik non riusciva a capacitarsi di quello che aveva appena sentito. C’era solo un’altra prova che avrebbe potuto sfatare le sue paure oppure fargli capire che le sue supposizioni erano purtroppo vere. Non si era mai pentito del suo gesto, anzi. Per lui quello fu un atto dovuto, per fuggire da quella condizione ridicola che Dio gli aveva affibbiato. Ma la consapevolezza di avere davanti una vittima innocente di quello che aveva fatto lo faceva stare male, più di quanto già non stesse.

«Come vi chiamate?», le domandò, lanciandole una fugace occhiata e sperando che non pronunciasse mai quel nome che gli arrivò alla mente come uno sbiadito ricordo.

La giovane sospirò, giocando distrattamente con il ciuffo finale della sua treccia. «Non ho un nome, in realtà. E’ più un appellativo.» Vedendo l’occhiata curiosa che il suo ospite le riservò, decise di rispondergli con un sorriso provocatorio. «Mi chiamano Phénix. La Fenice. Indovina perché?», gli chiese, sorridendo e indicandosi i capelli.

Non poteva sapere, però, che gli occhi di Erik si fecero grandi non per la curiosità di quel nomignolo, ma perché si vide il mondo crollargli addosso, come se già non dovesse portarsi dietro un peso più gravoso di lui. Era lei, dunque, la bambina dai bellissimi occhi smeraldo e dai capelli rossi che quegli zingari amavano chiamare così. Ricordava perfettamente i genitori di quella piccola, così innamorati di lei, così desiderosi di vederla crescere nel migliore dei modi, sebbene non avessero niente da darle; sempre così gentili con lui, senza mai osare un commento di disprezzo nei suoi confronti. Ricordava di come il resto degli zingari soleva guardarli con scetticismo e di come loro, invece, continuavano la loro vita senza problemi. E ricordava quel nome particolare solo per il bizzarro colore dei suoi capelli e la diffidenza che alcuni di loro provavano nei confronti della madre e nei suoi, sebbene fosse ancora solo una bambina di poco meno di due anni.

E lui, lui inconsapevolmente li aveva condannati quei genitori, stroncando qualsiasi programma quella famiglia avesse, solo perché erroneamente loro si trovavano lì in quel momento, solo perché lui era uno scherzo della natura che voleva vendicarsi delle beffe che subiva ogni giorno. In realtà non aveva mai saputo delle conseguenze di quel suo gesto, una volta isolatosi dal mondo. E venirlo a sapere così, proprio da lei era l'ennesimo brutto scherzo che la vita gli stava giocando.

Era lui il bambino che aveva ucciso, quel giorno.

E lei la bambina che aveva reso orfana.

Lei era la sua questione in sospeso.

 

 

 

Continua...

 

 

Elby, carissima! E' un piacere rileggerti! *_* Tranquilla, son sparita anche io, ti capisco quando dici che ci sono cose che prosciugano tempo e forze, quindi non devi scusarti! Ti concederò una seconda possibilità, accordato. ù_ù XD

Ma passiamo alla recensione! *_* Son così contenta che ti piaccia la donzella dai capelli rossi - anche io ho un debole per i capelli di questo colore, o per questo colore a prescindere, ecco! - e ho sempre amato le congetture che tempo fa si facevano sulle donne così (lo so, è una cosa orribile, i roghi e tutto quanto, ma è affascinante!)... Non potevo pensare di creare un altro personaggio alla Christine, altrimenti saremmo punto e a capo! :D E a proposito: non-Erik/Christine for president!

Per quanto riguarda il " ...lo impugnò con decisione in mano" hai ragionissima, mi è scappato! Son quei particolari che effettivamente appesantiscono una frase, grazie per avermelo fatto notare. :)

Questo capitolo come ti è sembrato? L'avevi già letto? *smemorata mode on* Ho deciso di rendere subito di dominio pubblico il mistero della storia (che ovviamente non sarà l'unico, altrimenti che due palline!), perché ho pensato che sarebbe stato interessante che il lettore sapesse, mentre i diretti interessati no. Sadica, lo so, ma mi diverto torturare i personaggi delle mie storie così, capiscimi... Dovrò divertirmi un po' anche io, no? :P

Ti ringrazio per i complimenti e per gli auguri, ricambio gli auguri per il tuo quasi-lavoro-dei-sogni! *-* Ah, l'epilogo è finalmente nato, dopo mesi di travaglio... Era anche ora! Così posso dedicarmi alle altre mille mila cose che ho in pentola, sperando che non brucino.

Ancora grazie, spero di rileggerti presto!

Un saluto a te e a tutti i lettori e/o lettrici!

Marta.

 

   
 
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