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Autore: Ariadne_Bigsby    19/07/2010    4 recensioni
Una copia dell'edizione tedesca dell'Amleto, un profumo di rose ed una bottiglia di assenzio. Questi sono i tre elementi, collegati ad un ricordo che John Lennon non riesce ad individuare, ma che ha cominciato a prendere forma durante le riprese di "Come ho vinto la guerra". Ma una canzone riporterà alla luce una serie di avvemimenti che hanno segnato la sua vita e quella degli altri Beatles, ad Amburgo, sei anni prima.
(CAPITOLO 10) Ogni sera, il pubblico rumoreggiava sotto il palco, cantando le canzoni: sembrava che il volume altissimo della musica ed il suono cupo e martellante del basso Hofner di Stu lo esaltasse. Ognuno era attratto in modo diverso dai componenti della band: Paul colpiva per il suo aspetto da bambino e per le guance tonde, George per la sua aria innocente e smarrita, Stuart per il fascino tenebroso e Pete per l’aria impassibile e rilassata e per i suoi seducenti occhi azzurri.
Ma il fulcro dell’attenzione del pubblico sia maschile che femminile era John: John aveva il fascino del ribelle, dell’anticonformista, dell’arrogante e colpiva per quell’aria perennemente torva e la postura aggressiva che assumeva sul palco.
Il pubblico rideva alle sue battute dall’umorismo feroce e tagliente e veniva totalmente coinvolta dall’energia che John sprigionava, chiedendosi se quel ragazzo conoscesse il significato della parola “limite”.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio, John Lennon , Nuovo personaggio, Quasi tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“When we're out together dancing, cheek to cheek.”

 

 

Solitude, though it may be silent as light, is like light, the mightiest of agencies; for solitude is essential to man

                                                                                                             Thomas De Quincey

 

Il caldo sole spagnolo riluceva sulla carrozzeria di un’elegante Rolls Royce nera come la pece. Gli abitanti di Almeria si erano ormai abituati a quell’aggeggio che stazionava nel  loro pueblo. Quando avevano visto per la prima volta la Rolls Royce Phantom V erano stati presi da una sorta di timore superstizioso: la Rolls Royce aveva fatto il suo ingresso nella cittadina un mesetto prima, avanzando lentamente fra le  casette bianche e bruciate da quel sole rovente: i più curiosi avevano cercato di sbirciare al suo interno per vedere chi fosse l’eccentrico proprietario di un simile mezzo ma tutto quello che avevano potuto vedere era stato il riflesso delle loro facce stranite e sgomente sui vetri appositamente oscurati. Chiunque fosse a bordo non voleva far sapere la sua identità.

 

Gli abitanti erano stati avvisati che la loro piccola città ( o meglio, i paesaggi assolati e caratteristici che la circondavano) sarebbe stata la location per un nuovo film e che avrebbero dovuto ospitare la nutrita troupe. Il problema è che nessuno li aveva avvertiti di quel coso che sembrava emanare un’aura sinistra: forse fu proprio per quell’aria inquietante che la macchina fu soprannominata El Funbre.

 

L’identità del proprietario non rimase nascosta a lungo: gli abitanti vennero presto a sapere che il misterioso proprietario era una popstar, termine che per quella semplice gente della campagna spagnola suonava incomprensibile come il cinese. Ovviamente era qualcuno di famoso, ovviamente era una personalità importante….solo che non avevano la più pallida idea di chi fosse di preciso nello sfavillante mondo dello spettacolo (ovviamente questa ignoranza riguardava solo gli adulti più anziani e meno informati)

 

In quel rovente pomeriggio, la Rolls Royce stazionava sotto un loggiato di legno per sfuggire ai raggi del sole, attirati dalla carrozzeria nera. Dall’interno non proveniva  nessun rumore e, chiunque passasse di li lanciava una fugace occhiata nella quale si mescolavano ammirazione, invidia ed anche un po’ di timore. Gli sguardi duravano in media un secondo, poi l’osservatore riabbassava lo sguardo e proseguiva per la sua strada pensando a questioni molto più importanti, come l’acqua da comprare ed il pane da infornare. La troupe era a girare il film da qualche parte in quel paesaggio desolato e tutto lasciava presagire che la star proprietaria della macchina fosse appunto impegnata nelle riprese e la avesse lasciata incustodita.

 

I vetri oscurati dell’auto erano serviti al loro scopo, perché il proprietario era proprio seduto nella sua macchina al riparo da sguardi indiscreti. Se qualcuno avesse avuto modi di sbirciare all’interno penetrando la “difesa” dei vetri scuri avrebbe subito notato gli eleganti sedili in pelle nera e le rifiniture cromate delle maniglie e di qualunque manopola o levetta della Rolls. Se qualcuno avesse potuto vedere oltre l’impenetrabile cortina nera avrebbe visto un giovane uomo seduto sui sedili posteriori dell’auto. Anzi, non proprio  seduto…sdraiato sarebbe stato il termine più corretto.

 

La persona all’interno della macchina aveva le spalle appoggiate molto al di sotto del posto in cui ogni persona di buon senso poggia le spalle in macchina, il busto semi schiacciato sul sedile e le gambe allungate in avanti in una posa scomposta e molto, molto rilassata.

 

L’uomo aveva capelli lunghi fino alle orecchie, leggermente riccioluti di un colore che poteva benissimo passare per un biondo scuro, anche se nell’ombra della macchina sembravano marroni. Un ricciolo ribelle copriva l’occhio sinistro dell’occupante della Rolls ma lui sembrava non darci troppo peso: era addormentato. Sulle gambe aveva appoggiato un taccuino, pieno di scritte, disegnini  e frasi cancellate con un tratto rabbioso di penna, quella stessa penna nera che giaceva abbandonata sotto la mano destra del dormiente. Il sonno doveva averlo colto mentre era intento a scrivere.

 

Tuttavia il pisolino durò poco, perché il giovane aprì gli occhi, disturbato da un lieve rumore sul vetro dell’auto. Sul finestrino era curvo un ragazzino di circa 14 anni, intento a tamburellare lievemente sul vetro con fare pensoso.

 

L’occupante dell’auto trattenne istintivamente il fiato, come per impedirsi di fare alcun rumore, stringendo convulsamente il taccuino fra le mani: il ragazzino ora aveva appoggiato la mani sul finestrino e vi aveva avvicinato la fronte, per coprire la luce ed osservare meglio all’interno dell’auto, ma rimase deluso perché non riuscì a vedere un bel nulla.

 

L’occupante dell’auto sospirò :”Beh questo senz’altro è un miglioramento. Niente ragazzine urlanti che cercano di spaccare il vetro.”

 

Il ragazzino era ancora li,immobile come una statua, mentre si mordeva lievemente il labbro inferiore. Si distingueva da tutti quei ragazzini sporchi e polverosi che circolavano per il pueblo. A differenza dei suoi scalmanati coetanei sempre intenti a fare la lotta, giocare a calcio urlando parolacce che avrebbero fatto impallidire perfino il più tollerante degli ascoltatori, completamente ignari del significato della parola “contegno” lui sembrava una ragazzino per bene. Capelli neri e ricci, occhi scuri un po’ piegati all’ingiù e naso a patatina. Indossava una maglietta bianca immacolata e pantaloncini neri lunghi fino al ginocchio.

 

L’uomo dentro l’auto sorrise, un po’ intenerito dall’aria smarrita del ragazzino e si spostò verso il finestrino alla sua sinistra, girando la manopola per abbassarlo. Il volto del ragazzino, reso scuro dal vetro nero si rivelò essere leggermente olivastro e trapunto da lentiggini scure e, mentre il finestrino si abbassava i suoi occhi si spalancarono in un’espressione di sorpresa..

 

“Ciao!” lo salutò l’occupante dell’auto in inglese, certo che il ragazzino avrebbe capito quella semplice parola.

 

Con sua sorpresa il ragazzino boccheggiò per un attimo, come se non sapesse trovare le parole adatte. Poi alla fine balbettò:”El señor John Lennon?”

 

John sapeva solo qualche parola in spagnolo, ma non ebbe difficoltà a capire quanto il ragazzino aveva detto ed annuì, sempre sorridendo (Anche se cominciava a sentire l’abituale ansia che lo attanagliava ogni volta che lo riconoscevano). Il ragazzino sembrava sempre più impacciato e si guardava intorno come se avesse paura di veder sbucare qualcuno di indesiderato. Poi tirò fuori un pezzetto di carta, glielo porse e mimò il gesto di scrivere. John raccolse la sua stilografica nera dai recessi dall’auto e scrisse il suo nome sul pezzetto di carta. Il ragazzino lo prese, sempre con quell’aria titubante e dopo aver mormorato un “Gracias” si dileguò fra le casette bianche. John chiuse il finestrino e si lasciò cadere sui morbidi sedili in pelle della Rolls Royce.

 

“Si, questo è decisamente un passo avanti. Niente orde di fan che si tirano gomitate in pancia per una semplice firma su un pezzo di carta.”

 

Si trovava in Spagna da almeno un mese, per le riprese del nuovo film di Dick Lester, suo grande amico e regista dei suoi film targati “Beatles”. Dick era un uomo dall’intelligenza sopraffina, con la quale John aveva avuto il suo bel daffare. Ricordava quanto gli avesse messo i bastoni fra le ruote durante le riprese di “A hard day’s Night” e di come Dick avesse risposto a tutte le sue frecciatine ed alle sue sfide con una prontezza ed un’arguzia senza eguali. Dopo i due film con i Beatles, Richard aveva proposto a John qualcosa di insolito: una parte nel suo nuovo film nel quale un gruppo di soldati in Nord Africa decidono di costruire un campo da golf dietro le linee nemiche. La parte di John era quella del soldato semplice Gripweed, una parte non particolarmente ampia ma pur sempre divertente..e poi a John non importava granchè della quantità di battute. C’era una sceneggiatura geniale ed assurda e tanto bastava.

 

Aveva visto dietro l’accettazione della parte la possibilità di “staccare” dalla vita frenetica di Londra: canzoni da comporre sotto l’egida di un George Martin sempre più pressante ed esigente ( ed anche particolarmente imbestialito dopo aver trovato una caricatura che John gli aveva fatto, dove Martin appariva come un domatore di circo armato di frustino con il quale minacciava 4 Clown molto somiglianti a Paul, George, Ringo e lo stesso John e che quest’ultimo aveva lasciato per caso sulla scrivania degli studi di Abbey Road), fan che li rincorrevano ovunque, concorrenza da sbaragliare, conferenze stampa, insistenti richieste di altri concerti, Brian Epstein sull’orlo di un attacco di nervi ed una moglie che gli rimproverava la sua pessima condotta come padre e marito….insomma un vero e proprio inferno!

 

Quando Richard aveva detto che aveva un’idea per un altro film, John si era quasi sentito mancare. “Non ho nessuna e ripeto nessuna voglia di rimettermi a fare il coglione davanti ad una macchina da presa per la gioia di quelle vacche che ci assillano giorno e notte. Nessuna! E poi nell’ultimo film eravamo degli estranei praticamente!” ed aveva incrociato le braccia sul petto, come a ribadire la sua decisione. Richard aveva sorriso ed aveva replicato senza scomporsi “E chi ha parlato di un film con i Beatles? Io sto parlando di un film con te.”

 

“Risparmia il fiato: non sono Paul Mc Cartney, non sono ansioso di fare il galletto della situazione tanto per incrementare la popolarità. Io faccio musica, cristo santo.”

 

Richard non accennava a togliersi quel sorrisetto compiaciuto dalla faccia e questo irritava il giovane musicista, che si accese una sigaretta tanto per avere qualcosa da fare.

 

“John, non intendo farti fare il galletto della situazione o cose del genere. Ti sto parlando di un film serio.”

 

John lo guardò sollevando le sopracciglia che sparirono dietro alla sua frangetta “Se si parla di serietà non puoi contare su di me. Sono anti-serio per scelta.”

 

“Non sto parlando di quel tipo di serietà., Intendo che ho intenzione di fare un altro tipo di film: niente Beatles, niente musica. Francamente non mi servi neanche per una parte importante, ma solo per un ruolo di contorno…”

 

“Mh-mh…continua….” Lo esortò John aspirando una boccata di fumo ed appoggiandosi allo schienale della sedia.

 

E quello che Richard gli aveva esposto in seguito lo aveva convinto: un film girato in Spagna, lontano da Londra, lontano da tutti….cosa poteva chiedere di più?

 

Ed ora era li, sotto quel sole cocente, i capelli tagliati corti (ma non come si conveniva ad ogni soldato che si rispetti, bensì con un taglio che gli consentiva di tenere i suoi capelli riccioluti e che lo avrebbe reso inconfondibile) una divisa militare e, udite udire degli occhiali  da vista tondi!

 

Tuttavia l’euforia iniziale si era presto trasformata in un’apatia silenziosa: poiché non era il personaggio principale, John aveva molto tempo libero e quel tempo libero lo passava  rinchiuso nella macchina, lontano da sguardi indiscreti, assillato dall’idea che le fan avrebbero potuto raggiungerlo anche li. Passava i pomeriggi nascosto dai vetri oscurati della sua mastodontica macchina, sorseggiando Cointreau, fumando una sigaretta dopo l’altra (l’abitacolo era perennemente saturo di fumo) ed ascoltando Bob Dylan fino allo sfinimento.

 

John non  era tranquillo: sentiva qualcosa di strano da quando aveva lasciato Amburgo (dove avevano iniziato le riprese in alcuni appositi studi), qualcosa che aveva a che fare con il suo passato ma che non riusciva a ricordare. Questo forse era anche colpa sua: ad Amburgo ci era andato imbottito di erba e con il cervello ancora fumante per tutti i trip che non si stancava mai di fare e che erano la sua fonte d’ispirazione. Non si era goduto il soggiorno amburghese, tormentato da questo pensiero indefinito che gli aleggiava in testa e l’ottenebramento dei sensi causato dalla marijuana e dall’acido. Era come se avesse vissuto quei giorni di lavoro sul set in una stanza poco illuminata, dove potevi vedere i contorni delle cose senza riuscire ad avere un’immagine precisa.

 

Era proprio quel pensiero indefinito, quell’essenza intangibile di un ricordo che, aleggiandogli intorno come una fantasma gli impediva di godersi appieno il sole spagnolo, la cordialità della gente e perfino interessarsi a quello che succedeva sul set, pur mantenendo buoni rapporti con il resto della troupe e senza mai montarsi la testa.

 

“Che palle, non posso continuare così. Dovevo venire qui per rilassarmi ed invece….” John sbuffò mentre si versava l’ennesimo bicchiere di quel prezioso liquore francese, che teneva nel frigo-bar della Rolls “se questa dannata sensazione non se ne va mi sono fottuto la vacanza.” Apoggiò le labbra al bicchiere, bagnandole appena con il liquore.

 

“Eppure deve essere qualcosa di  importante se non riesco a togliermelo dalla testa.”

 

John infatti, in quella nebbia che il tempo e le droghe avevano creato attorno a  quel ricordo, riusciva a distinguere qualche fugace immagine. Poteva distinguere un’edizione tedesca dell’ “Amleto” di Shakespeare , un leggero profumo di rose ed una bottiglia di assenzio. Nulla di più.

 

John osservò il liquido trasparente nel suo bicchiere e lo roteò leggermente.

“Prima o poi mi ricorderò di cosa si tratta” concluse mentre beveva il  Cointreau tutto d’un sorso

 

 

“E anche questa non mi convince. Porca miseria, comincio a pensare che sia stata tutta una perdita di tempo!”

Era ormai sera e  John se ne stava disteso sul suo letto, nell’hotel dov’era alloggiato: appoggiato alle gambe aveva il solito taccuino, ormai stropicciato e pieno dei soliti tratti di penna sbarrati da una decisa linea orizzonatale.

 

Erano due ore che il cantante dei Beatles cercava un’ispirazione per il testo che stava scrivendo ma non gli veniva in mente nulla. Era riuscito a buttare giù soltanto una frase, un invito a seguirlo da qualche parte. Ma dove? Era questo il problema che assillava la mente del cantante ventiseienne.

 

Scaraventò con rabbia il taccuino sulla poltrona vicina e si alzò dal letto: non aveva voglia di scendere con gli altri nel pub dell’hotel, non voleva ascoltare le solite chiacchiere vuote e ripetitive: sesso, sesso, sesso, soldi, sesso, macchine, case, compere, conto in banca. Ecco quali erano i principali argomenti di conversazione. Non che lui non amasse conversare, ma quella sera era troppo di malumore per fare qualunque cosa che riguardasse l’interazione con altri.

 

Si diresse verso la valigia, alla ricerca delle sigarette, sepolte da qualche parte sotto le camicie e , sospirando alla vista delle maglie messe alla rinfusa, ci tuffò le mani dentro cercando freneticamente il pacchetto rettangolare : le sue mani tuttavia incapparono in un altro oggetto, rettangolare anch’esso ma molto più sottile. John lo tastò per un attimo, aggrottando le sopracciglia, non capendo di cosa si potesse trattare.

 

Sfilò la mano dalla valigia, tirandosi dietro due maglie che caddero a terra, osservando l’oggetto che aveva tirato fuori: era un libro, più precisamente le “Confessioni di un oppiomane” di Thomas de Quincey.

 

Gli occhi di John si illuminarono per un attimo: ma si, si ricordava di quel libro! Lo aveva comprato in un (come al solito) piovoso pomeriggio Londinese. Era rimasto affascinato dal titolo e dalla tematica e, in men che non si dica si era ritrovato seduto nel suo appartamento di Emperor’s Gate, completamente sordo agli strilli delle fan, assiepate davanti al portone sotto la pioggia battente, completamente immerso in quel resoconto della vita da oppiomane dell’autore. Tuttavia aveva dovuto interrompere la sua lettura a causa di alcuni imprevisti (detti anche “amante che si lamentava della carenza di attenzioni” e “film alle Bahamas”).

 

John aprì il libro, constatando con piacere che il lembo di foglio che aveva  piegato per tenere il segno della pagina era rimasto li e che quindi poteva riprendere ad immergersi in quell’atmosfera squisitamente vittoriana di confessioni di un tossico dipendente che voleva conferire nuova dignità all’uso delle droghe.

 

Cominciò a leggere prima ancora di distendersi di nuovo sul letto, gli occhi avidamente incollati alle pagine, desideroso di sapere come l’autore avrebbe proceduto nel suo viaggio nel mondo dell’oppio e del laudano, come se si trattasse di un caro amico da cui voleva ricevere notizie interessanti.

 

Ma John non si portò molto avanti con la lettura, poiché rimase colpito da un passaggio del libro dove l’autore spiegava come nei consumatori di droghe (allucinogene e non) si manifestasse una specie di malessere, un’ansia non ben definita che portava  a rievocare momenti del passato, recente o meno che il  tempo e la voglia di dimenticare avevano provveduto a nascondere nei recessi del cervello. John spalancò gli occhi, rivedendo il suo malessere in quelle righe e cominciò a leggere con frenesia, saltando anche le frasi che gli parevano inutili, ma non ottenne nessuna valida risposta. Il libro infatti non spiegava come sviscerare questo problema, come riportare alla luce quei ricordi rimasti sepolti sotto la coltre del tempo, quel tempo che non perdona e che rende vana ogni promessa di memoria imperitura, ma si limitava ad indicare come questo fenomeno fosse comune in tutti coloro che facevano uso di droghe.

 

“Che fregatura!” sbottò John scagliando il libro accanto al taccuino “speravo che potesse aiutarmi..ma niente!”

 

Si mise a sedere sul letto e gettò un’occhiata alla finestra: i suoi occhi miopi gli impedivano di vedere chiaramente i contorni delle cose, ma riuscì a capire che ormai era sera inoltrata. Si affacciò al balcone e respirò a pieni polmoni la fresca aria settembrina, che prendeva il posto della calura delle ore di sole.

 

Dai piani inferiori proveniva un allegro vociare e tintinnii di bicchieri: voci in spagnolo, italiano, tedesco ed inglese si mescolavano fra loro in un’allegra cacofonia.

 

John Lennon sospirò ed appoggiò le mani al balcone continuando ad inspirare quell’aria fresca, completamente priva di residui di tabacco o porcherie di sorta. “Devo imparare a rilassarmi, a non fare troppo caso a tutte le paranoie che mi faccio e vivere la vita attimo per attimo, senza rimuginare troppo sul passato. Che senso ha dopotutto? Ho tutto quello che potrei desiderare..” Ma dentro di sé John sapeva che non era così: quella sensazione non lo abbandonava e lo faceva quasi vergognare di mentire a sé stesso. Ma cosa diavolo era quella sensazione?

 

“Ho capito. Mi ci vuole un brandy Alexander.” E, dopo aver spalancato per bene le finestre si diresse verso l’armadio, per indossare qualcosa di decente.

 

 

Ormai era mezzanotte ed il bar al piano terra cominciava a spopolarsi. L’unica persona che ancora restava attaccata al bancone era quel John Lennon. Era sceso verso le dieci e mezzo, con un’aria perfettamente rilassata ma con un sorrisino troppo tirato per poter credere che non avesse qualche balzana idea in testa. Si era aggregato alla troupe, che l’aveva accolto con sonore pacche sulle spalle e con insistenti richieste di unirsi alla partitina a poker che era in corso. John aveva gentilmente declinato le loro proposte, dicendo che era sceso perché non voleva fare l’eremita e perché voleva bere qualcosa per risollevarsi un po’, perché sentiva profondamente la mancanza di casa e degli studi di Abbey Road ( “Wow, Dick ha ragione!” aveva pensato John, constatando  la facilità con la quale i colleghi avevano creduto alle sue scuse “ se con la musica mi va male posso tranquillamente buttarmi sulla cellluloide).

 

Il bar era arredato in maniera elegante con uno stile che ricordava molto “Le mille ed una notte”, con tanto di fontanella sul pavimento, dalla quale sgorgava acqua fresca. Le poltrone erano dei soffici pouf verde scuro o viola, corredati da bassi tavolini con motivi  arabeschi. Il barman stesso sembrava uno sceicco arabo, con il suo portamento elegante, il turbante in testa, la pelle ambrata ed i baffoni corvini. La troupe aveva fatto una partita a Poker e poi avevano iniziato una partita di Dama Alcoolica che finì con una sbronza collettiva (alla quale John non partecipò, poiché aveva ordinato un solo brandy Alexander e si era premurato di berne pochi sorsi alla volta per farlo durare il più a lungo possibile).

 

Alle 11 e 30 i colleghi, traballanti e su di giri si erano alzati, avevano dato la buonanotte a John e allo “Sceicco Josè” e si era ritirata nelle proprie stanze, lasciando John seduto su un pouf verde, davanti ad un tavolino pieno di bicchierini vuoti. John aveva finito in un  sorso quello che era rimasto del cocktail e si era diretto al bancone, ordinando in tono risoluto un bicchiere di Porto. Ormai era passata mezz’ora e lui era sempre li, assorto nei suoi pensieri, osservando senza vederla davvero la pista da ballo dove giovani coppie si scatenavano al ritmo delle ultime canzoni rock n’roll (fra le quali alcuni dei successi dei Beatles).

 

A mezzanotte tuttavia accadde qualcosa che svegliò John dalla sua trance. Vista l’ora tarda, qualcuno decise di optare per canzoni più “soft”, ballabili in coppia scelta sottoscritta con entusiasmo da tutti i ragazzi presenti.

 

John avrebbe continuato a navigare nei propri pensieri, o meglio, su quel pensiero che non riusciva ad afferrare se non avesse sentito quella particolare canzone.

Heaven, I'm in Heaven,
And my heart beats so that I can hardly speak;
And I seem to find the happiness I seek
When we're out together dancing, cheek to cheek.

John conosceva quella canzone: era un vecchio successo di Fred Astaire, risalente ad anni prima della sua stessa nascita, ma non era quello il punto. Quella canzone entrò nelle orecchie del musicista, che ascoltava attonito, come una chiave che cerca la sua serratura. E quella serratura era proprio quel fantasma d’idea che aleggiava da giorni nella mente di John. Come una chiava che trova la serratura giusta, la canzone sbloccò qualcosa nella mente di John e tutto quello che era rimasto chiuso nella sua mente, sopito dalla sua stessa forza di volontà che dal tempo, i fumi dell’alcool e le droghe dilagò con la forza di un fiume in piena. Solo in quel momento la nebbia che aveva circondato quei tre elementi che John aveva conservato nei suoi ricordi parve diradarsi, dando un senso compiuto a tutto.

 

Qualcuno di nome Proust scrisse che, un biscotto inzuppato nel tè poteva portare ad una rapida successione di idee e ricordi. John aveva appena vissuto la “sua” esperienza Proustiana.

 

 

Penny Lane:

Dunque eccomi qui a spiegare il perché di questo capitolo dalle pesanti influenze Proustiane (che fra l’altro è  uno degli autori che devo leggere come compiti per le vacanze). La storia mi è venuta in mente grazie a questo caldo soffocante: ieri sera stavo passando la mia solita nottata d’inferno, a causa del caldo insostenibile e con un’immensa voglia di buttarmi in un lago  ghiacciato. Per passare un po’ il tempo mi sono messa a leggere per la 3453583247238472 (periodico) volta la biografia di John (quella scritta da Philip Norman). Prima sono capitata sul capitolo dell’ “Esperienza Amburghese” poi sul capitolo dove si parla del film “Come ho vinto la guerra” di RTichard Lester. Vi direte, cosa c’entra Amburgo con il film? Beh, mentre John stava girando il film lesse davvero il libro di De Quincey che ho citato perché era davvero attanagliato da vari ricordi (soprattutto quelli dell’infanzia)  e (non so se si wera capito ) trovò l’ispirazione per “Strawberry Fields Forever”. Io ho semplicemente sfruttato questo tuffo nel passato  che ha fatto il nostro Johnnino approfittando del fatto che la troupe aveva fatto una capatina ad Amburgo, dove i Beatles cominciarono a farsi strada e…..l’ispirazione è venuta tutta d’un colpo e mi sono messa alla scrivania a buttare giù quanto scritto. Beh, spero che il capitolo sia stato di vostro gradimento e che lo sia pure la storia nei capitoli  a venire. Per adesso vi saluto e ringrazio anticipatamente chi leggerà e chi recensirà! Besosss!

 

 

 

 

 

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