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Autore: Beliar    20/07/2010    3 recensioni
Juliet e Adrianne, allieve dell'undicesimo livello. Frequentano l'Istituto di Las Vegas, odiano Chelsea, la cheerleader più spietata dell'Universo. Juliet non sopporta la combriccola di "quel Radke", persone molto egocentriche che si credono bellissime e le migliori in tutto.
I problemi inizieranno quando Juliet e Adrianne dimenticheranno la lezione più importante: non tutte le persone sono buone.
Autrice: Beesp
Genere: Drammatico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Max Green , Nuovo personaggio, Ronnie Radke
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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“Shakespeare, il mostro mangia-Juliet”

Ciò che siamo

 

 

Info.
Autrice: Ory_StarDust_95 (posted on BeLiar Mannie).
Prompt (unico per l’intera long-fiction): #63 – Cicatrice. [Ho deciso per questo prompt perché è molto affascinante, perché c’entra con quello che voglio che venga e perché si può adattare a tutto, a qualsiasi tipo di ferita].
Personaggi: Maxwell Green, Ronald Radke, Nuovi personaggi.
Introduzione: Non tutte le persone sono buone. Juliet è cresciuta con questa consapevolezza e ha fatto sì che anche la sua migliore amica Adrianne imparasse da questa lezione. Il loro undicesimo grado di scuola, però, le porterà ad abbandonare questa importante consapevolezza, fino a farle entrare in qualcosa che è ben più grande di loro; il nome della loro fine inizia con la “R” e ha il sapore di spiagge abbandonate al chiaro di luna.
Colonna sonora: Anya – Now we are free; Nirvana – Lithium; Foo Fighters – Best Of You; Life on mars? – David Bowie.

Capitolo 1° – “Shakespeare, il mostro mangia-Juliet”.
Word Count: 2’368 parole.

Juliet Capulet, da quand’era nata, aveva mostrato una spiccata personalità debole. Facilmente condizionabile e insicura, era più simile a un’erbaccia che ostacolava la crescita delle rose rosse del giardino di un re. Il re in questione, probabilmente, era proprio suo padre.
Una nuova mattina si accingeva ad avviarsi nello splendore del sole quel giorno di Settembre. Assieme all’autunno si sarebbe manifestato il primo compito dell’anno. Letteratura. Durante il l’undicesimo grado[1] toccava a Shakespeare. Ma Juliet non aveva mai amato molto il famoso scrittore-tragediografo, a causa del suo stesso nome, che spesso era seguito da commenti come “Ti chiami come Giulietta di ‘Romeo e Giulietta’!”.
Era stata una crudeltà dei suoi genitori, era lei a pagarne le conseguenze, però.
La materia, nel complesso, era una delle sue preferite. Deludere la professoressa, abbassando la sua media, non era esattamente tra i suoi propositi dell’anno. Perciò aveva studiato Shakespeare meglio degli altri personaggi del programma, approfondendo anche la sua biografia, cercando di scoprire il maggior numero di informazioni; certo, lo odiava ancor di più, ma almeno avrebbe ottenuto una ‘B’ assicurata, se non anche una ‘A’.
Con un’allegria insolita per i suoi standard, spalancò le ante dell’armadio della sua piccola stanza buia e gialla, che vomitò fuori qualche paio di stivali che avrebbe dovuto gettare due settimane prima, delle t-shirt – se avesse osato indossarle sarebbe morta congelata in pochi secondi – e dei pantaloncini di quando aveva ancora sei anni. Li accartocciò e li nascose nel cesto dei vestiti sporchi, mentre frugava in basso tra in ciarpame di cui non si veniva a capo, in cerca di qualcosa che non fosse sporco. Per fortuna, quel pomeriggio sarebbe stata libera da ogni impegno, il giorno dopo era sabato e né suo padre né la scuola l’avrebbero ostacolata con turni al locale o pile e pile di compiti da svolgere. (Per non parlare della nuova cliente del “Capulet”, una maniaca del cellulare che trascorreva tutto il tempo con quell’aggeggio e cambiava ordinazione ogni dieci minuti, costringendo Juliet a correre avanti e indietro per il locale soltanto per appuntare i suoi pasti ipocalorici sul taccuino).
Come al solito, impiegò i suoi miseri dodici minuti a infilarsi nel bagno, farsi una doccia, coprire gli occhi di un leggero strato di ombretto pesca e di matita, per poi fasciare i piedi con dei calzini con disegni di orsacchiotti e gattini – imbarazzanti, in realtà – e delle scarpe da ginnastica vecchiotte, un po’ malandate, ma che avevano consumato tanti chilometri insieme a lei, e a cui era affezionata. Le aveva anche durante il suo primo concerto l’estate dei suoi quattordici anni.
Al pian terreno c’era sua madre che sistemava le ultime sedie accanto ai tavolini d’alluminio del bar. Sembrava stanca, ma nonostante la pelle tirata salutò sua figlia con un sorriso e un bacio sulle guance. « Adrianne sarà qui a momenti, ha chiamato poco fa ». Juliet annuì e si sistemò al bancone, dove subito la madre ripose un piatto di frittelle ricoperte di sciroppo d’acero, le sue preferite. « A fine settimana si ha sempre bisogno di una botta in più ». E con un’espressione semi-addolorata si barricò nello spazio dietro la tenda, a sinistra della cassa. Lì dentro, per lo più, ci sistemavano le scorte e i frigoriferi per i cibi che avevano bisogno di stare al freddo, ma era un ottimo posto – l’avevano sperimentato le stesse Juliet e Adrianne – per riflettere e stare soli.
« Juls! ». Adrianne le apparve alle spalle, fiondandosi sullo sgabello accanto al suo, e urlando un saluto alla madre dell’amica. Poi rubò la forchetta dalla mano di Juliet e mangiò un pezzetto delle sue frittelle. « Buone… COMPLIMENTI SIGNORA CAPULET! ».
« GRAZIE, ADRIENNE! SE VUOI CE NE SONO DELLE ACCANTO ALLA CASSA ».
« È MOLTO GENTILE, MA HO GIÀ FATTO COLAZIONE ».
« D’ACCORDO ». Durante il dialogo, naturalmente, nessuna delle due aveva pensato che fosse meglio avvicinarsi anziché urlare come delle ossesse, quindi Juliet fu costretta a sistemarsi le mani ben bene sulle orecchie per non diventare sorda.
« Pronta per Shakespeare? » Le domandò Adrianne, quando Juliet finì di ripulire il piatto. L’altra annuì semplicemente, infilò una giacca autunnale di jeans e un braccio nelle spalline del suo zaino. Adrianne prese la sua borsa del suo manga preferito che le era stata regalata proprio da Juliet e salutò la signora, mentre varcavano la soglia del “Capulet”. A Las Vegas non c’era nessuno che non lo conoscesse, metà dei ragazzi della classe[2] di Adrianne e Juliet andavano a cenare lì e spesso le intravedevano tra la ressa di persone, quando ce ne erano un po’ troppe; Adrianne si sistemava al bancone, qualche volta si decideva ad aiutare i gestori, altre si spostava da un tavolo all’altro parlottando con i compagni.
La passeggiata verso il loro istituto non era troppo faticosa, ma avevano il tempo per discutere di questo o di quell’argomento e se avevano bisogno di ripetere le lezioni del giorno ci sarebbero riuscite senza affrettarsi troppo.
« …non capisco come abbiano fatto a bocciarlo. Se avessi assistito a una delle loro lezioni, saresti rimasta sconvolta. A parte il fatto che non sembrerebbe mai una specie di genio, invece lo è. L’amico l’ho incontrato qualche volta per i corridoi, è divertente. Se la cava, non è male. Legge parecchio e gli piace la poesia, ma non è come Ronnie. Ha una media perfetta! Soltanto ‘A’. Invece Max ha anche due o tre ‘B’ ».
Il perché di tutte quelle chiacchiere a Juliet pareva molto chiaro. Ma se c’era qualcuno che odiava, si trattava proprio della combriccola di quel Radke e della sua spalla destra, Green o qualcosa del genere – ovviamente secondi a Chelsea. Pensavano di essere i più belli e i migliori in tutto. Metà della fauna femminile della scuola faceva parte della coda di ragazze che chiedevano a Ronald di uscire. Lui a tutte, indistintamente, rispondeva di ‘no’. Gentilmente, naturalmente. Altrimenti sarebbe parso un cafone: aveva sempre qualcos’altro a cui pensare. L’altro, all’incirca tre quarti in altezza rispetto a Ronnie, era discretamente popolare. Attraeva più per la sua apparente sensibilità che tanto Adrianne stava lodando. Juliet era sicura che i voti non fossero il metodo per misurare l’intelligenza di una persona, però. Quel gruppo era un accozzaglia di idioti e nient’altro. Se poi gli insegnanti li amavano non era un problema che la riguardava.
« Juliet? JULIET?! ».
« Che c’è? ». Il rimuginare troppo su Radke l’aveva messa di cattivo umore e, tra l’altro, aveva perso tutte le parole della sua amica.
« Siamo arrivate ».
« Fantastico ». Bofonchiò Juliet. « davvero meraviglioso ». La sua attenzione era stata catturata quasi immediatamente dal disprezzo profondo che le infondevano, già di prim’ora, le cheerleader. Erano posizionate al centro del cortile e sventolavano i loro pon-pon gialli e verdi.
« Quest’oggi ci saranno i provini, non mancate! » Esclamò la prima donna della Scuola, con il suo tono più falso e dolce, che era come miele per le api, utile fin quando fosse riuscito ad attirare povere vittime nella sua setta Satanica, dove chi entrava non sarebbe più riuscito a uscire (pena l’umiliazione pubblica); una volta scoperti gli orari impossibili degli allenamenti e la dura dieta ferrea a cui tutti, nessuna esclusa, dovevano sottoporsi, Chelsea[3] tirava fuori la sua vera natura di Barbie cotonata e vipera, con i suoi commenti continui sul peso, la sua ossessione della bellezza, della ‘popolarità’ e il suo bisogno di sentirsi la migliore e imbattibile. Una ragazza, due anni prima, aveva diffuso la notizia che suo padre era il suo psicanalista, pareva che Chelsea fosse disturbata e che fosse stata catalogata addirittura come un soggetto pericoloso. Per una settimana, al mattino, aveva trovato vari insetti o animali disgustosi nell’armadietto. La Domenica la sua camera era stata riempita interamente di serpenti – non velenosi, almeno –: era stata costretta a cambiare Istituto e non la si vedeva in città da parecchio. Il regime di Chelsea era indiscutibile, sia tra quelli a cui faceva comodo che tra i rarissimi che avrebbero desiderato ribellarsi: Chelsea, puntualmente, li disperdeva e confondeva, a volte fino a renderli folli ed emarginati. C’era qualcosa, però, che non avrebbe mai potuto raggiungere: Ronald Radke. Ronald era conosciuto a Scuola, era tra i bocconcini più ambiti, ma per certi versi era anche il più odiato, a causa della sua mania di protagonismo, dei suoi tre tatuaggi e la sua aurea di ‘alternativo’. Chelsea, tuttavia, non sembrava turbata dalla sua personalità e, anzi, era stata entusiasta sin dall’inizio di provare a uscire insieme a lui senza mai riuscirci. Anche quell’anno di sicuro avrebbe progettato nuovi modi per adescarlo. Ancora una volta, per la gioia di Adrianne e Juliet, avrebbe fallito.
« Non è- grr, la odio ». Ripeté, ancora, Juliet. « Adrianne, secondo te le fanno male le guance a sorridere sempre? ».
« Potresti smetterla? Sto cercando di farmi entrare in testa il nome della madre di Sir William ».
« Ti ricordi quasi interamente ‘Romeo e Giulietta’ e non uno stupido nome? ».
« No, Juliet. No ». Posò il libro sulle gambe di Juliet e cantilenò un pezzo della vita di Shakespeare ad alta voce, controllando che tutte le informazioni fossero esatte. « Mi chiedo perché mai non possiamo nascere con già tutto stampato nella testa ».
« Sarebbe il mio sogno. E frittelle a vita ».
« Make cupcakes not muffins! ». Mentre Adrianne completava la filastrocca delle due pagine, tralasciando soltanto qualche virgola e dei punti qui e lì, Juliet giocherellava con il suo naso e nella sua testa incolonnava le informazioni più importanti, alcuni versi delle opere per lei più significative e un paio di frasi celebri. Conosceva il metodo della professoressa e questo era un buon sistema per capire come prepararsi. Era quello il trucco della Scuola: adattarsi agli insegnanti e programmare il proprio metodo d’apprendimento a seconda di ciò che veniva loro richiesto. Si comportava in quel modo da quando si era resa conto che, comunque, nei test non le sarebbe mai stato domandato l’intero programma, ma soltanto le parti principali – che, quasi sempre, erano le più inutili.
« Dannata campanella! ». Le due riposero libri e quaderni nelle cartelle e si incamminarono verso l’entrata principale dove una fila di ragazzi si accorciava passo dopo inesorabile passo. Adrianne mormorava frasi a mezza voce, coperta dal frastuono dei compagni; Juliet inspirava ed espirava profondamente e canticchiava una canzone di uno dei suoi gruppi preferiti per tranquillizzarsi.

Nell’aula quasi ogni posto era già occupato, ma chi avrebbe negato di far decidere a Max – Max! – quale sarebbe stato il migliore per lui e permettergli di occuparlo? Una biondina con un caschetto delizioso era seduta in terza fila, accanto alla finestra. Era perfetto per lui. Le picchiettò sulla spalla e si preparò con lo sguardo più seducente che possedesse. La biondina gli sorrise, lui le svelò i suoi propositi e a lei bastò che lui le promettesse che quel pomeriggio avrebbero pranzato insieme alla mensa. Facile come bere un bicchier d’acqua. Non era nemmeno troppo brutta. Fantastica giornata. Si sistemò le mani dietro la nuca mentre due compagne che aveva intravisto nei corridoi varcavano la soglia. Una delle due, quella che sembrava parlare da sola, al fianco aveva una borsa di un noto manga. I capelli erano particolarissimi, di un viola scuro, con una frangia rosa: rasati ai lati, un taglio lungo fino alle spalle, scalato e scompigliato. Il volto si contraeva in smorfie che seguivano le parole, mentre l’amica ondeggiava la testa a tempo di chissà quale ritmo. Non lo degnarono di uno sguardo e si sistemarono in due banchi vicini, gli ultimi rimasti, in seconda fila.
Prima che potesse catturare la loro attenzione in qualche modo – era frustrante sentirsi ignorato – comparve la professoressa nel suo metro e cinquanta d’altezza e i suoi pantaloni neri sformati. I soliti. Un golfino verde e una ciondolo a forma di Girasole.
« Ci siamo tutti, ragazzi? ». Brusio generale e un “Sì” stentato. Persone come Chelsea e la sua compagna di vita Deborah[4] si limavano le unghie, perché un voto non poteva compromettere il loro stato di promozione certa, i genitori avevano abbastanza soldi per comprar loro anche l’Università. Bob in fondo a tutto che si grattava la nuca con un’espressione inebetita, sarebbe andato male e ci avrebbe riso su. Frankie, poco lontano da Adrianne e Juliet, si mangiucchiava le unghie, sperando che finalmente sarebbe riuscito a ottenere una sufficienza. Impacciato muoveva la sedia, stridendo le gambe del banco sul pavimento, irritando quelli che ormai si erano già addentrati nei cinque fogli del test (risposta multipla e tre domande aperte finali).
« Primo quesito: Segna con una crocetta il numero esatto dei Sonetti di Shakespeare. Ok, ce l’ho ». Adrianne era sicura che ce l’avrebbe fatta. Una ‘A’, fa’ che sia una ‘A’, pregò, mentre con la matita contrassegnava le caselle.

Che scemenza, pensò Max arrivato al punto trentatré.

« Juliet, smettila, per favore. Hai un panino, cibati con quello ». Tra un sorso di coca e l’altro Juliet mordeva le povere unghie delle sue dita. Quello stupido vizio durava da anni e ancora non si decideva a smetterla. « Dico sul serio ».
« Ho paura ».
« Sei andata bene! ».
« IO ODIO SHAKESPEARE! Lo odio, è un mostro immondo ».
« E ti mangerà, certo. Per favore, il panino ». Juliet tirò fuori dal sacchetto il suo sandwich al pollo e ketchup. Adrianne ancora si domandava come l’amica facesse a mangiare quel condimento ovunque, Juliet invece non approvava il suo amore per la maionese.
A quanto pareva Juliet era davvero affamata, perché non parlò per il resto del suo pranzo e, se pure Adrianne aveva iniziato per prima, Juliet riuscì a finire cinque minuti prima di lei, leccandosi le dita e spaparanzandosi sulla sua sedia. « Buono ».
« Questa sera ho intenzione di guardare un bel film di Tim Burton ».
« Io horror ».
« Non capisco perché tu ti ostini a guardarli se poi ti terrorizzano ».
« È quello lo scopo, mi pare ovvio ».
Adrianne alzò le spalle. « Poco male, inizieremo alle diciannove e vedremo entrambi ».
« Dormirai da me! Yay ».
« Povera me ». Lancio del cibo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] L’undicesimo grado ha una fascia d’età sedici-diciassette anni. Quindi corrisponde precisamente al nostro terzo anno di Liceo. Ho pensato che fosse il momento giusto per studiare Shakespeare, ecco perché l’ho sistemato durante questo anno. (Non sono riuscita a trovare uno straccio di programma scolastico Americano su internet).
[2] Le classi in America – così come in Inghilterra – sono strutturate per anno e sorteggio – immagino. Vengono assegnati un tot di ragazzi per ogni insegnante. Quindi la classe di Adrianne e Juliet è ben diversa da quella che potrebbe essere la nostra. Non è fissa, tanto per cominciare, e i componenti possono anche non avere le stesse materie, perché ce ne sono tre obbligatorie e altre tre da scegliere. (Così c’era scritto, anche se non sono convinta che siano soltanto tre quelle obbligatorie).
[3] Odio il nome Chelsea. Odio le cheerleader. Quindi Chelsea è una cheerleader. Mi pare semplice.
[4] E odio il nome Deborah. Non lo so, in questo periodo della mia vita, mi stanno antipatiche le Deborah (soprattutto se con l’‘H’ finale) e le Chelsea.

Angolo dell’Autrice: Mi pare superfluo spiegare chi sia Juliet e chi sia Adrianne. È logico.
Vedremo se riuscirò a portare a termine questo progetto che immagino da mesi e che finalmente ho avuto il coraggio di pubblicare.

Disclaimer: I personaggi di Maxweel Scott Green e Ronald Joseph Radke non mi appartengono. I fatti da me narrati sono pura invenzione e non sono scritti a scopo di lucro. Insomma, non guadagno sul corpo di ‘sti due. Sono una persona onesta io e poi non hanno bisogno del mio aiuto per prostituirsi, ce la fanno benissimo da soli a vendere il cu*o.
Per adesso inserisco rating verde, ma nel corso della storia potrà succede che il colore cambierà. Dipende dal cambiamento – probabile – dei contenuti della storia.

Spero che questo capitolo sia stato di vostro gradimento e che commenterete. Anche negativamente, eh. *Elemosina recensioni*. A preeesto.

  
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