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Autore: Glance    21/07/2010    5 recensioni
Mi aggirai per quelle stanze cercando i miei ricordi, scandagliando nella mente per riportarli a galla.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Edward Cullen
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
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C’è qualcosa di grandioso nella privazione e nello stesso tempo di terribile.
Il vuoto, l’oscurità, la solitudine e il silenzio, è tutto così infinitamente immenso e terrificante.
Mi ero svegliato un giorno camminandoci dentro, confuso e annebbiato. Per vivere soli bisogna essere un animale o un dio.
Certo non ero quest’ultimo. Tutto ciò che potesse essere riconducibile a qualcosa di divino in me si era perduta.
Non mi riconoscevo più, il rapporto con gli altri mi era difficile ed innaturale. Riuscivo ad avere un po’ di pace nella solitudine, che ricercavo con metodo.
Perso. Mi ero perduto in un labirinto di sensazioni che percepivo in maniera talmente nitida da riuscire a stratificarle . Era come guardarle attraverso delle lenti tridimensionali. Riuscivo a coglierne le più piccole sfumature. Me ne sentivo parte avendo la certezza di poterle afferrare, ma nello stesso istante altre mille attraversavano la mia mente.
Era difficile abituarsi a contenerle. Tutto era così forte e immediato. Tutto così veloce.
Tranne il tempo. Quello sembrava essersi fermato. O forse si era solo dilatato tendendosi come un elastico e un giorno avrebbe finito d’estendersi ritornando indietro, trascinando con se tutto quello che aveva abbracciato.
Sarebbe ritornato da dove era partito e tutto sarebbe ricominciato.
Sarebbe stato così. Ma io sarei mai ritornato ad essere ciò che ero stato?
Cento anni come un giorno, o un’ora. L’idea che avevo del tempo, la mia capacità di comprendere, imparare era per alcuni versi inesistente. Ero saggio, questo si, quei quasi cento anni erano serviti a registrare ricordi di esperienze, su cui avevo riflettuto ed elaborato i miei tormenti esistenziali arrivando ad attuare strategie comportamentali. Non crescevo per cui in me niente cambiava, ne il mio aspetto ne quello che nel mio passato da umano avevo imparato.
Mi muovevo tra quelle figure così velocemente che avevo l’impressione che fossero immobili. Non visto li osservavo mentre erano impegnati a vivere la loro vita.
Avevo avuto anche io una vita.
Sì. Lo ricordavo ogni tanto, cosa ero stato.
Quando, un giorno tutto era precipitato, e mi ero ritrovato ad annegare.
Sentivo di stare scivolando verso quel torpore senza sogni ne ricordi dove tutto all’improvviso si sarebbe spento.
Ero come la fiamma di una candela che ardeva incerta sotto il mio stesso respiro.
Un profumo intenso a quel tempo impregnava l’aria di ogni respiro che a fatica riuscivo ancora a concedermi e poi quel dolore tra il dormiveglia dal mio corpo agonizzante ed inerme venne a tenermi prigioniero per giorni. Svegliarmi e capire che tutto era cambiato che non era più come prima tra i ricordi che si andavano sfocando ad una velocità incomprensibile.
Essere diventato ciò che ero non era facile da accettare. Cessare d’esistere per tutti e poi scoprire che tutti avevano cessato d’esistere per me. Sapere di essere rimasto solo, l’ultimo. Pensare di poter impazzire.
La certezza che non ci sarebbe stata più una vita da fare scorrere. Vivere per sempre. Quando realizzai questo ebbi come la sensazione di soffocare.
Ma quello come tante altre cose che appartenevano a ciò che ero stato non mi potevano più accadere. Nella mia mente cercavo di tenere ancorati i ricordi arpionandoli come potevo tra i miei pensieri.
Forse un tempo lontano qualcuno aveva pianto per me. Ma c’era oggi qualcuno a portare un fiore su una tomba vuota?
Ebbi il bisogno irrefrenabile di sapere. Chi ero stato e cosa era rimasto di me.
Tornare dove tutto era iniziato e finito.
C’era una casa che aveva contenuto la mia umanità. Una casa che aveva raccolto gioie e dolori, sogni e promesse.
La mia casa, dove tutto era iniziato, dove ero stato un bambino e poi un ragazzo.
La voglia di raggiungerla e la paura di non trovarla o non riconoscerla.
La casa che un tempo avevo abitato. Il solo posto che avrebbe potuto raccontarmi che c’ero stato anch’io, che ero stato vivo.
In quel luogo il mio cuore aveva battuto.
Cercare qualcosa di cui si ha un ricordo sfocato, appena una sensazione non è facile.
Chicago era la mia città. Non più quella che avevo vissuto da essere umano, ma dove doveva pur essere rimasto qualcosa, una traccia.
Tornare dopo quasi cento anni per cercarla.
Avevo alimentato la mia inquietudine per tentare di tenere con me i miei pensieri, per non perdermi. Non volevo semplicemente esistere. Non potevo limitarmi a fare solamente quello. Usare l’immortalità per smettere di avere obiettivi. Non potevo e non volevo farlo; cedere alla mia mostruosità.
Trovare una ragione e un senso nel continuare per potermi sentire in qualche maniera ancora vivo.
L’epidemia non ci aveva risparmiati, io e i miei genitori fummo tra i primi a prendere il contagio.
Non ero sicuro di cosa fosse capitato agli altri. Mi ero augurato per loro che fossero sani e salvi. Le visite in ospedale erano vietate. Sperai che i miei cugini stessero bene. E quella speranza era ancora in me, che qualcuno della mia famiglia si fosse salvato, avesse potuto continuare a vivere.
Tutto era cambiato, tra quello che avevo perduto dei mie ricordi e quello che si era trasformato era difficile riuscire a trovare dove avevo abitato.
Cercai di riuscire a ricordare la zona. Era situata in alto una villa con la facciata dai mattoni rossi. La cancellata che delimitava il giardino.
Mi giunsero gli echi di risa e immagini sbiadite di bambini che si rincorrevano.
Un’altalena, un salice.
Una voce dolce, di una dolcezza struggente, disarmante, invase la mia mente mentre la sensazione di un a carezza riscaldava la pelle gelida del mio viso.
Il soffice di lunghi capelli mossi dal vento e di braccia delicate e rassicuranti che tenendomi mi facevano roteare. Gli occhi si riempirono di un color rame insolito e lucente.
I capelli di mia madre e il loro profumo.
Come guidato da una mano invisibile giunsi dinanzi a quell’edificio che il tempo non aveva cambiato proprio come me.
Immobile rimasi in attesa che l’ultima luce del giorno che andava congedandosi si fosse definitivamente arresa al buio della sera.
Oltre il cancello con un balzo. Il prato curato, il salice e un altalena. Una palla rotolò spinta dalla leggera brezza della sera. Un cane abbaiò e mi venne vicino, ma non si ritrasse dalla mia carezza fredda. Guaì debolmente e si acquattò in terra.
Silenzio. Non percepivo che quello provenire dalla casa.
Forse non era abitata, ma non sembrava non esserlo. All’interno non c’erano luci.
Silenzio e oscurità, ciò che io ero.
Mi guardai intorno, non c’era nessuno e la tentazione d’entrare fu forte.
Fu facile aprire la porta. La malinconia attraversò il mio corpo facendolo vibrare.
Alzai il pesante anello d’ottone e rimasi come paralizzato. Sotto c’era incisa una data, quella del mio compleanno. L’avevo incisa io stesso lo ricordavo chiaramente. Chissà perché proprio quel ricordo era rimasto così nitido in me. L’accarezzai.
All’interno si respirava un sapore antico. L’arredamento era stato probabilmente mantenuto simile all’originale.
Mi aggirai per quelle stanze cercando i miei ricordi, scandagliando nella mente per riportarli a galla. Li avevo impressi tra le pagine dei mie diari e così fu sufficiente pensare di sfogliarli.
Era come sentire nuovamente la mia vita sfiorarmi. Tutto il mondo che avevo avuto e amato era ancora racchiuso in qualche modo tra quelle mura.
C’era un posto però che più di tutti io amavo frequentare stando a quello che avevo trascritto: lo studio di mio padre.
Entrai come un viaggiatore del tempo. Arrivavo dal futuro nel mio passato e ad un tratto lo vidi. Un ritratto alla parete sopra il camino. Il ritratto di un ragazzo dai capelli di un intenso color rame e lo sguardo verde e penetrante che guardava in faccia il suo futuro con la sfida negli occhi. La posa fiera che fissava un punto indefinito.
Poi la mia mente s’inondò di pensieri e la luce si accese.
Un attimo ed ero fuori.
- Che strano pensavo di avere chiuso questa finestra.- La voce di un ragazzo. La sua sagoma dietro la pesante tenda.
- Lui chi è.- Domandò quella di una ragazza.
- O lui è il ragazzo perduto.- Ci fu un attimo di silenzio.
- Cosa vuol dire il ragazzo perduto?- Continuò la ragazza.
- Quello che ho detto.- Rispose lui e sentii un accenno del suo divertimento.
- Anthony Edward Masen, non azzardarti a tenermi sulle spine. Non ti permetto di prendermi in giro. Sei sempre il solito.- Rispose lei e a quelle parole l’emozione più forte che avessi mai provato s’impadronì di me.
“Masen” Quello era il mio cognome, si chiamava come me.
- Lui, cara la mia curiosona, è un mio antenato, un procugino credo.
Aveva diciassette anni quando morì di spagnola nel 1918.- Tutto il mio corpo s’immobilizzò.
- Per questo il ragazzo perduto?- Disse la ragazza.
- Oh no. Abbiamo intitolato così il quadro perché di lui in effetti non si è saputo di preciso come sia andata. Intendo che non si seppe mai che fine fece realmente. I suoi genitori sicuramente morirono, furono seppelliti insieme, ma di lui non venne mai ritrovato il corpo. Un prozio andò a reclamarlo visto che la maggior parte della famiglia era stata colpita dal morbo e chi non era morto non era certo in condizioni di andare a sincerarsi di nulla. Però non riuscirono a trovarlo, quindi si suppose che venne scambiato con qualcun’altro e seppellito al posto suo. Chi può sapere come andò, erano tempi in cui doveva regnare un gran caos.- Il racconto venne seguito senza interruzioni. Fu una sorpresa sapere come fosse realmente andata anche per me.
- E’ triste se ci pensi, non trovi? Chissà dove è andato a finire.- Si levò un sospiro.
- In effetti la storia di Edward è triste, hai ragione. Morire a diciassette anni di una malattia. Chissà quali erano i suoi sogni e le sue speranze. Da questo ritratto sembra un tipo in gamba.- Quello che parlava era un mio familiare e la mia voglia di poterlo vedere aumentava ogni momento.
- Era bello, aveva lo sguardo dolce. Quasi triste direi. Forse in qualche modo sapeva. Chissà.- La ragazza aveva colto qualcosa di me pur non conoscendomi.
- La mia bellissima ragazza sentimentale. Si, era bello non c’è che dire, ma quella è una dote di famiglia.- La sentii sorridere.
- In effetti ti somiglia tanto. Avete lo stesso colore di capelli e gli occhi sono incredibilmente verdi.- Mi somigliava! Quel ragazzo, aveva in se qualcosa dei miei tratti da umano. La curiosità fu forte, ma non potevo rischiare di farmi vedere come mi sarei giustificato. Un ragazzo diciassettenne che ricorda straordinariamente l’immagine raffigurata in un dipinto avrebbe destato troppi sospetti. Quello ritratto nel quadro ero io e non mi ero riconosciuto.
Ero ormai rassegnato a non poterlo vedere, quando la pesante tenda si aprii e lui si affacciò alla finestra per accendersi una sigaretta.
Impressionante! Era come guardarmi da umano. Come sarei stato a venticinque anni. Su per giù quella l’età che poteva avere. Mi faceva effetto guardarlo. Se tutto fosse andato come doveva non lo avrei mai conosciuto. Non avrei mai saputo niente di lui e di quanto mi somigliasse. Chissà da quale ramo discendeva. Tramite chi eravamo imparentati.
Si voltò verso la ragazza e le fece cenno di avvicinarsi a lui e mentre con il braccio le cingeva la vita la invitò guardare le stelle.
- Ti amo.- Le disse. Poi la baciò. Contraccambiato con trasporto.
Dalla tasca prese un piccolo involucro e gli occhi della ragazza si illuminarono. Per me non era un problema guardarli da dove ero. Il vecchio salice offriva un buon posto d’osservazione. Mi sentii a disagio a rubare quel momento così speciale. Ma non riuscii ad andare via. Forse perché avrei voluto poter essere al suo posto. Io non avrei mai potuto avere un momento così e in qualche modo lui me lo stava regalando.
- Mi vuoi sposare, curiosona? – Il sorriso della ragazza si allargò e i capelli ondeggiarono al suo sì.
Notai che era di una bellezza dolce. I suoi grandi occhi si riempirono di lacrime.
Mi voltai e andando via li lasciai a quel loro momento.
La mia solitudine centenaria mi ripiombò addosso con tutto il suo peso.
Mi sarei mai potuto trovare anche io in un momento come quello. Avrei mai amato? Ma soprattutto: sarei mai stato amato?
Andai via portando con me l’immagine di quella ragazza dalla bellezza discreta. Vagai nella notte e un nuovo disaggio sentivo che si era insinuato in me. Ovunque guardassi rivedevo il suo viso. Per me non ci sarebbe mai stato un momento così.







E' una cosa scritta un pò di tempo fa che in qualche punto avevo già ripreso per un'altra storia. Spero vi piaccia. Un saluto. Glance.
  
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