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Autore: ChelseaH    24/07/2010    4 recensioni
La morte li avrebbe accomunati tutti quanti presto o tardi che fosse, per cui che senso aveva vivere una vita tranquilla e moderata quando si poteva vivere ogni singolo minuto al limite?
Una filosofia che non tutti apprezzavano o condividevano, ma era la sua filosofia di vita.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Christopher Miles
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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DISCLAIMER: Skins e i suoi personaggi sono proprietà di Channel 4 e degli aventi diritto. Con questo scritto non guadagno nulla.


NOTE.

Scritta per il prompt Skins, Chris, Droga del Fanon Fest di FW.



On the edge.


Pillole, pillole, pillole.

C’erano quelle che prendeva per il suo stato di salute.

E c’erano quelle che prendeva per sballarsi.

Chris non era molto sicuro che fosse consigliabile assumere le due varietà contemporaneamente, era ancora meno sicuro che a tutte quelle pillole fosse consigliabile abbinare anche un assortimento più o meno vasto di fumo e polverine magiche, ma non era un suo problema.

Semplicemente non gli importava.

Soffriva di una malattia genetica che aveva già ucciso suo fratello e, anche se i medici sostenevano che lui poteva scamparla, in realtà sapeva che il suo destino era stato scritto in maniera indelebile fin dalla sua nascita, solo gli era stato concesso più tempo.

Non lo sapeva nessuno a parte Cassie, e Cassie ne era a conoscenza solo perché dividendo l’appartamento con lei gli era risultato impossibile mantenere il segreto a lungo, dopo poco lei aveva già scovato le sue ricette mediche e aveva chiesto spiegazioni. Le aveva fatto promettere di non farne parola con nessuno e lei aveva capito, del resto sapeva fin troppo bene cosa significasse non volere che gli altri sapessero dei tuoi problemi dato che anche lei ne aveva fin sopra i capelli, anche se di natura completamente diversa.

Degli altri non lo sapeva nessuno.

Non i suoi amici, non Jal.

Non ne aveva fatto parola nemmeno con Angie, quando l’insegnante ancora era in città e lui si era ritrovato a raccontarle le parti meno belle della sua vita in un estremo bisogno di sfogarsi con qualcuno. Grazie al cielo erano rari i momenti in cui si faceva prendere dallo sconforto più profondo e fortunatamente non era mai successo in presenza di uno dei suoi amici.

Non era necessario che lo sapessero, non avrebbero potuto cambiare la situazione in ogni caso.

In compenso, avrebbero potuto iniziare a compatirlo, iniziare a trattarlo diversamente – come il malato terminale che era – e lui non voleva, era l’ultima cosa al mondo che avrebbe voluto.

I suoi genitori l’avevano letteralmente abbandonato, lasciato per strada, incuranti della sua giovane età e dei suoi bisogni, limitandosi a lasciargli un mazzo di banconote che lui aveva fatto fuori nel giro di poco.

Poi si era disperato, era caduto, si era rialzato.

Fanculo, aveva pensato.

Non aveva bisogno di loro se loro non ne avevano di lui.

Non aveva mai capito se l’avessero fatto per paura di rivivere il dramma di perdere un figlio per la seconda volta o se semplicemente lo odiassero per come era fatto, e aveva anche smesso di cercare spiegazioni. Che senso aveva far luce su cose che in ogni caso non sarebbero cambiate? I suoi genitori avrebbero continuato a tenerlo lontano e lui avrebbe continuato a essere malato, inutile crucciarsi.

Era su tutto questo che rifletteva una sera, stravaccato sulla sedia di un tavolino in un locale mentre la musica troppo alta, invece di impedirgli di pensare, stava mettendo fin troppo in moto le rotelline del suo cervello. Gli altri erano tutti in pista a ballare o a cercare di rimorchiare, di fronte a lui c’era seduto solo Tony e dall’incidente di quest’ultimo, si sentiva sempre un po’ imbarazzato quando rimanevano soli, forse perché gli dispiaceva e sapeva che a parti invertite non avrebbe sopportato se qualcuno si fosse dispiaciuto per lui.

“Non stai esagerando?” gli chiese Tony indicando la striscia di roba che si stava preparando.

Tony non era più Tony da quel giorno, il vero Tony Stonem gli avrebbe detto l’esatto opposto, provvedendo di persona ad aumentare le dosi o prendendolo in giro per il fatto che non aveva il coraggio di rincarare la dose da solo.

Ma sì, in effetti stava esagerando, più del solito.

Molto più del solito.

“No.” rispose invece facendo spallucce e tirando.

Forse era troppo assuefatto a quelle cose anzi, di sicuro era così dato che ogni volta aveva bisogno di una quantità maggiore prima che gli effetti cominciassero a farsi sentire.

“Tony ha ragione, sai?” la voce di Cassie gli giunse alle spalle, poi la ragazza prese posto accanto a lui.

“Fanculo.” tagliò corto Chris, invitandola a provare la roba che aveva di fronte.

“Wow...” disse lei accogliendo l’invito.

Probabilmente nemmeno per Cassie era consigliabile mischiare le sue medicine con tutto il resto, ma in quel momento non era nello stato mentale ed emotivo più adatto per preoccuparsene seriamente.

Sarebbe morto.

Anche Cassie sarebbe morta.

Molto tempo dopo di lui, magari addirittura di vecchiaia – lo sperava per lei – ma sarebbe morta.

Come Tony, che era già quasi morto una volta.

Come tutti loro.

Che senso aveva preservarsi?

La morte li avrebbe accomunati tutti quanti presto o tardi che fosse, per cui che senso aveva vivere una vita tranquilla e moderata quando si poteva vivere ogni singolo minuto al limite?

Una filosofia che non tutti apprezzavano o condividevano, ma era la sua filosofia di vita.

Se Jal avesse saputo sarebbe probabilmente impazzita.

Perfino Cassie gli aveva fatto una ramanzina, Cassie che raramente sbottava nei confronti degli altri, Cassie che soffriva in silenzio o soffriva con gesti estremi sparendo poi dalla circolazione per un po’. Perfino lei, coi suoi mille problemi e il mondo irreale nel quale viveva si era presa cinque minuti per dirgli che doveva riguardarsi e smetterla di buttare giù tutto quello che gli capitava a tiro.

Ma lui non voleva riguardarsi, non ne vedeva il senso.

Non voleva nemmeno morire, aveva una fottutissima paura del giorno in cui sarebbe successo.

Ma non voleva e non poteva smettere di vivere solo per allontanare quel giorno da sé di poche settimane, non ne valeva la pena.

Lui viveva al massimo, faceva cazzate al massimo, gli piaceva vivere così.

Molti l’avrebbero definito un drogato ma lui si drogava in maniera quasi compulsiva solo perché le droghe gli consentivano di oltrepassare quel limite sul filo del quale di solito amava vivere, di andare perfino oltre, di provare sensazioni e trovare il coraggio di fare cose che altrimenti non avrebbe provato o fatto.

Non voleva rimpiangere nulla, voleva che la morte – quando sarebbe arrivata a reclamare qualcosa da lui – si portasse via un insieme di esperienze e di emozioni che l’avrebbero fatta diventare gobba sotto al loro peso.

Era drogato, sì.

Ma di vita.


   
 
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