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Autore: ISI    27/07/2010    2 recensioni
"Mi passai le mani sulla faccia per poi ficcarmele tra i capelli, ogni singolo muscolo del mio corpo scosso da un tremito che, ne ero sicuro, un giorno avrebbe finito per contrarmi tanto e tanto forte il cuore da farmelo scoppiare.
“Se spera che io faccia davvero ciò che voleva l'uomo che l'ha accompagnata, allora, può benissimo girare sui tacchi e fare dietro-front: mi è bastato l'Afghanistan per giocare a fare l'assassino e sinceramente non ne ho più alcuna voglia, quindi...” ma prima che potessi finire quella minacciosissima frase la ragazza scoppiò il lacrime ed esausta quanto me, senza più un briciolo di forze in quel suo corpicino magrissimo e scarno che un'indesiderata maternità aveva reso leggermente più morbido, si lasciò scivolare piano lungo la parete dell'ingresso."
Genere: Avventura, Azione, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Dall'altra Parte


Capitolo I - Metamorfosi



Dalle memorie del dottor John H. Watson



Mi sedetti, chiusi gli occhi ed attesi.

Il sole era finalmente scomparso oltre la linea irraggiungibile dell'orizzonte ed un silenzio inquietante se confrontato alla confusione che dominava quel luogo ogni giorno era finalmente calato tra quelle vecchie mura consunte ma sicure che dopo quelle del 221/b di Baker Street avevano finito per diventare la mia seconda casa.

Da quando ero rimasto solo, ossia da quando la mia dolce Mary ed il mio caro amico Holmes se n'erano andati con il passo leggero che può appartenere solo ai morti avevo sentito, commisto al dolore ed alla rabbia per la mia disgustosa impotenza innanzi a tutto quello che era accaduto, il desiderio di poter tornare ad essere utile a qualcuno.

Da molto tempo ero ritornato al servizio del mio buon padrone Ippocrate, ma i clienti d'alto borgo -passatemi il termine- frignoni come bambini di cinque anni, capaci di buttarti giù dal letto alle tre di notte per una caviglia indolenzita, le signore che svenivano in continuazione al ritmo di caduche farfalle morenti, i ragazzotti impertinenti che mi venivano a chiedere di fare la più atroce e più abbietta delle azioni, di strappare la vita che loro stessi avevano seminato nei ventri di donne occasionali usate come sfogo di un prurito momentaneo, mi ero detto che no, quella gente non faceva più per me, non era più il mio mondo e forse non lo era mai stato.

Ricordo che era sera e l'ennesimo irrequieto giovanotto bussò alle porte del mio studio trattenendo una ragazza in lacrime recalcitrante ad entrare come doveva esserlo stata la piccola Ifigenia, quando innanzi agli altari fumanti, innanzi al padre signore di popoli e ai sacerdoti dal coltello vigliaccamente celato dietro la schiena aveva realizzato che la benda candida attorno al suo capo non era un segno di buon augurio per le false nozze, quando aveva compreso che il suo sangue virgineo non avrebbe macchiato il talamo del piè veloce Achille cui era stata promessa, ma l'altare e le mani grandi del padre cui i perfidi dei avevano imposto tale atrocità come compenso dei venti.

La rabbia che che goccia dopo goccia avevo accumulata tutta dentro esplose di colpo come più d'una volta avevano fatto gli esperimenti chimici del mio ex coinquilino e quasi mi parve di essere ringiovanito nello scattare come l'uomo d'azione che avevo quasi dimenticato di essere contro quel ragazzo per sbatterlo fuori della porta a calci.

La signora Hudosn, destatasi per il baccano della lite, durata fra l'altro pochissimo, prima che perdessi, come davvero mai avevo fatto in vita mia, la pazienza, aveva assistito alla scena dalla rampa delle scale a bocca aperta e ad occhi più che sgranati.

Le persone che più avevo amato al mondo se ne erano andate irrimediabilmente dalla mia vita, non avevo più nulla per cui valesse la pena di alzarmi dal letto la mattina, o più semplicemente anche solo per aprire gli occhi, non avevo avuto a suo tempo la consolazione di un figlio dalla mia amata Mary – il che aveva comunque permesso che fosse una sola persona a soffrire- e quel... quel lurido essere insignificante mi veniva davvero a chiedere di adoperare su quella povera ragazza, su quella povera esistenza ancora troppo acerba per poter comprendere, la stessa, identica violenza che la brutalità della vita aveva fato a me?

Mi passai le mani sulla faccia per poi ficcarmele tra i capelli, ogni singolo muscolo del mio corpo scosso da un tremito che, ne ero sicuro, un giorno avrebbe finito per contrarmi tanto e tanto forte il cuore da farmelo scoppiare.

“Se spera che io faccia davvero ciò che voleva l'uomo che l'ha accompagnata, allora, può benissimo girare sui tacchi e fare dietro-front: mi è bastato l'Afghanistan per giocare a fare l'assassino e sinceramente non ne ho più alcuna voglia, quindi...” ma prima che potessi finire quella minacciosissima frase la ragazza scoppiò il lacrime ed esausta quanto me, senza più un briciolo di forze in quel suo corpicino magrissimo e scarno che un'indesiderata maternità aveva reso leggermente più morbido, si lasciò scivolare piano lungo la parete dell'ingresso.

“Si... signorina io non... io non volevo...” mi ritrovai a balbettare con una mano protesa verso di lei, ma la signora Hudson fu più veloce di me e scese le scale, dopo avermi rimproverato per averla fatta piangere, l'abbracciò spinta da quello spirito materno che è in tutte le donne, dalle più giovani alle più vecchie, dalle più dolci alle più arcigne come una dote unica e senza età, irrinunciabile per la sopravvivenza della stessa razza umana sulla terra.

Mi sedetti su di uno degli scalini della rampa che portava al piano superiore e rimasi, come prima lo era stata la mia padrona di casa, in silenziosa contemplazione dei singhiozzi della ragazza, torcendomi le mani in grembo, incredulo io stesso di come avevo finito per perdere il controllo delle mie azioni e della mia persona.

Alzai piano gli occhi, vergognoso come un cane e poco a poco incontrai la figura della ragazza: la sensibilità di Mary mi faceva vedere quanto fosse giovane e disperata quella poveretta, mentre l'esperienza del metodo deduttivo ideato dal mio caro vecchio Sherlock mi mostrò molti altri importantissimi particolari che a qualcun altro sarebbero indubbiamente sfuggiti.

La catenina d'oro che portava al collo, ad esempio, testimoniava una passata ricchezza che qualche debosciato parente troppo prossimo o il fato dispettoso dovevano averle portato via lasciando lei e la sua famiglia in un mare di debiti, così come dicevano le vesti consunte che aldilà dello sporco, però erano ben lungi dall'essere quelle che si sarebbe potuta permettere qualsiasi donna con una dote che non superasse le settanta sterline al mensili.

Molte altre cose mi narrarono i suoi lineamenti dolci ed i suoi occhi nocciola screziati d'azzurro, ma in quel momento non ero abbastanza lucido per immergermi in una analisi più specifica e coscienziosa, come invece avrebbe di gran lunga preferito fare il mio defunto amico.

“Dottor Watson che cosa...” accennò la signora Hudson, ma sapendo già dove stesse andando a parare la precedetti.

“E' notte e fuori fa troppo freddo: le prepari la stanza degli ospiti e le cucini qualcosa di caldo da mangiare, una zuppa o qualcosa del genere...” le dissi alzandomi di nuovo in piedi e prendendo dall'attaccapanni il mio soprabito color cenere “Io devo schiarirmi le idee.”

“Ma dottore, se l'uomo di prima dovesse tornare per infastidire la ragazza?” gemette preoccupata la padrona di casa ed io le indicai il piano superiore.

“Su in camera mia, nel mio guardaroba c'è il mio fucile, se, e perdonatemi la grettezza, quell'idiota dovesse rifarsi vivo mentre io non ci sono non esiti ad imbracciarlo e a chiamare la polizia: nel remoto caso in cui dovesse essere furbo quanto un fringuello lo vedrete volare via alla sola vista delle mie due canne mozze...” dissi e come se niente fosse successo uscì di casa e mi chiusi la porta alle spalle, la testa zeppa di troppe sensazioni, di troppe emozioni per poterle mettere tutte per iscritto su di un solo foglio.

Vagai vigliaccamente per la città a passo spedito, ignorando o almeno provando ad ignorare il dolore della ferita alla gamba, souvenir della più stupida delle umane azioni, acuito dall'umidità della notte.

Dovevo schiarirmi le idee, dovevo trovare un attimo di pace, dovevo riuscire a non pensare anche per un solo secondo e buttare via quell'enorme zavorra di confusione che mi pesava sulle spalle.

Non ero ancora riuscito a scovare il bandolo di me stesso quando una fitta più forte delle altre che fino ad allora mi avevano torturato la gamba riuscì a strapparmi un gemito costringendomi a sedermi sul bordo del marciapiede come uno dei tanti barboni che l'affollavano.

“Ehy, Sir, ti senti bene?” a quelle parole così improvvise sussultai ed alzando lo sguardo spaventato incontrai gli occhi un po' stanchi e un po' preoccupati di un bambinetto che non dimostrava più di sei o sette anni.

“sì, sì, sto bene, sto bene, non preoccuparti ragazzo e grazie per l'interessamento...” gli risposi rinfrancato di colpo da una gentilezza che un borghese dal doppio petto tutto bello inamidato non mi avrebbe mai e ripeto mai rivolto; mi frugai in tasca e stavo per offrirgli qualcosa per ringraziarlo ma lui scosse il capo deciso.

“E no Sir, si vede lontano un miglio che lei non si sente bene, accidenti!” esclamò incrociando le braccia al petto facendo quelle che mi parvero essere le mosse di un adulto “Venga, si alzi e si appoggi a me, la porterò io in un posto in cui potranno aver cura di lei, ecco, sì, venga con me, avanti, non faccia complimenti, si appoggi pure a me...” sbigottito e sconcertato com'ero invero presi a seguirlo, rifiutando però per orgoglio e per amor proprio di appoggiarmi alle sue piccole spalle gracili.

Le cose si stavano facendo sempre più assurde, sempre meno credibili: le persone che più amavo al mondo, le uniche per le quali davvero non mi sarebbe parso un sacrificio, ma un giusto scambio equivalente, dare la mia vita, se ne erano andate via dalla mia vita come acqua dalle mani ed ora quel bambinetto con la goccia mi trascinava da qualche parte, come un'esca forse per trascinarmi dentro un vicolo dove una serie di manigoldi più grandi mi avrebbero forse picchiato a morte per rubarmi i pochi spiccioli che avevo in tasca.

Beh mio caro John, che vuoi farci, te la sei cercata da solo! Pensai in un sospirò, ma quando il bambino si fermò non eravamo in un vicolo e non c'era nessuna brutta faccia pronta a prendermi a badilate, solo, innanzi a noi, un edificio che dignitosamente dimostrava i cento e forse più anni che aveva.

“Ma dove... dove mi hai portato?” gli domandai spaesato e lui zitto mi guidò all'interno dell'edificio stesso.

Dire che fossi rimasto a bocca aperta significherebbe utilizzare un bel eufemismo... e che eufemismo!

Le stanze di quel grande palazzone antico erano state risistemate in qualche maniera, vi erano stati posti una serie di vecchie letti e di barelle improvvisate che ospitavano i malati del ghetto, gli operai feriti nelle fabbriche, le madri cui non era rimasta che la propria prole ancora da partorire e tanti altri nobilissimi esempi di umanità che abbandonati a se stessi per troppo tempo ricevevano ora una cura, un aiuto, una minestra o anche solo una parola di conforto in quel luogo così... così incredibile.

Mescolate ai malati camici bianchi di dottori e di infermieri si aggiravano da una parte all'altra, qualcuno lamentandosi che non c'erano più garze, qualcuno dicendo che serviva un catino d'acqua calda, qualcun altro semplicemente chiacchierando con i propri pazienti delle ultime leggi sugli scioperi.

Una sensazione viscerale mi colse lasciandomi senza fiato quando compresi quanta miseria e quanta gloria vi fossero al contempo in quel luogo, quando realizzai che quello sarebbe stato il mio nuovo mondo.

“Signore, sto parlando con lei, si sente bene?” una voce dal forte accento americano mi riscosse allora dal torpore della meraviglia e mi ritrovai a fissare un giovanotto che non dimostrava più di venticinque anni dalla foltissima chioma sorprendentemente scarlatta -ancor meglio di quella del signor Jabez Wilson del caso della Lega dei capelli rossi, che sicuramente se l'avesse visto, l'avrebbe subito eletto come proprio presidente- e due occhi di scura clorofilla che me lo facevano riconoscere, con un margine d'errore davvero irrisorio, come di origini irlandesi.

“Ah, sì, sì, sto benissimo, la mia ferita di guerra alla gamba mi stava dando qualche problemino come al solito, ma questo ragazzino si è offerto di portarmi qui anche se non ce ne sarebbe stato alcun bisogno...” gli spiegai e lui alzò gli occhi al cielo per poi sospirare guardando il bambinetto.

“Leonard, quante volte ti ho detto che non devi andare in giro ad importunare le persone, mh?” lo rimproverò senza rabbia né irritazione dandogli una vigorosa scompigliata ai capelli castani del ragazzino “Comunque benvenuto al Saint Georg, l'ospedale dei poveri, il mio nome è Henry Dandelion, piacere di conoscerla signor...?” mi fece interrogativo porgendomi una mano che non poteva essere che quella di un abile, abilissimo chirurgo.

“Watson, John Watson...” mi presentai io a mia volta e fu da quella stretta di mano, da quell'amicizia che tutto per me ricominciò ed ora eccomi qua.

Eccomi qua in un ripostiglio -anche se sarebbe più appropriata la perifrasi 'Stanza in cui sono state ammassate cose vecchie ed inutili'- del Saint Georg seduto sul panchetto di un vecchio pianoforte a coda che probabilmente era stato trovato ancora intatto quando i medici che avevano scovato questo luogo lo avevano eletto, senza il benché minimo tentennamento o la più piccola esitazione, come loro base operativa.

Non mi ricordo più neanche come ci finì per la prima volta in questa stanza piena di logore cianfrusaglie che mi parlano sottovoce di una antica nobiltà decaduta di origini francesi o belghe, fatto sta che alla vista di quel meraviglioso pianoforte qualcosa si mosse dentro di me e mi sedetti innanzi a lui chiusi gli occhi ed attesi.

Allora come ora le melodie che Mary canticchiava mentre riordinava casa o cuciva si unirono armoniose alle melodie dello stradivari di Holmes, in un connubio che le mie dita inesperte dei tasti bianchi e neri e le mie orecchie, digiune di musica e poco allenate provarono di sera in sera a ricreare con scarsi e deludenti risultati, almeno finché Roccaverde Silvio, il Michelangelo Buonarroti del bisturi, italiano di nascita e di cuore e inglese d'adozione non si ritrovò a passare davanti al mio piccolo rifugio per spalancarne la porta gridando “Assassino!” alla stecca più clamorosa che detti.

Silvio Roccaverde, nato sotto il potere mediceo di una delle città più belle in assoluto d'Italia, Firenze, era un tipo caldo, passionale e con un cervello straordinariamente creativo sotto quell'ammasso di ricci color della pece, in grado di mettere tutto se stesso in qualsiasi cosa facesse e l'appassionasse davvero con quella spontaneità e gioia di vivere degli italiani che molti, a torto e senza conoscerlo bene, considerano faccia tosta.

Sentirlo parlare poi era davvero divertente, visto il suo intercalare allegro e la sua predisposizione a mancare, anche in inglese così come faceva in italiano, tutte le c... in bocca a lui una parola qualsiasi come category diveniva 'ategory, un'altra come combat si trasformava in 'ombat e così via fino a che non scoppiavamo tutti a ridere, lui compreso.

“Assassino!” mi gridò sbattendo di colpo la porta nell'aprirla e potei vedere i suoi occhi nerissimi fiammeggiare “O che tu c'hai 'ontro 'odesta bellissima creatura?” mi apostrofò parlando del pianoforte come fosse una persona e sedutosi accanto a me sul panchetto mi guardò come il maestro guarda lo scolaro disobbediente, per poi dirmi “Ora guard'amme!” e detto questo le sue mani presero il via sui tasti innalzandone una melodia calda e struggente che sapeva di mediterraneo e di antichi amori, tutt'altra cosa rispetto alle sviolinate nervose di un Holmes in preda alla cocaina.

Silvio Roccaverde fu da allora il mio maestro ed insieme a Henry uno dei miei nuovi e più cari amici.

Questo era tutto quello che era successo da poco più di un anno a questa parte.

A ripensarci allora, mentre le mie dita vagavano sui tasti bianchi e neri del piano per riportare in vita ricordi spenti dalle immagini sbiadite per il troppo dolore, mi meravigliai di quanto una persona come me potesse essere cambiata in così poco tempo e di quanto i miei occhi avessero visto, di volta in volta sempre più meravigliato, sempre più preso dalla vita, come ringiovanito, come rinato, ma con il fardello della perdita che ne ero sicuro, non avrebbe mai abbandonato la mia anima.

“E tu ha stonato, eh!” a quella voce, per quanto familiare, sobbalzai, alzando subito gli occhi verso i due ultimi arrivati nella stanza, ossia Silvio e Henry.

“Non essere troppo duro con lui,Silvio, mica suona da una vita come te!” lo rimproverò bonariamente sedendosi a gambe incrociate -come facevano gli indiani, diceva lui- su di una grossa cassapanca e prendendo a frugarsi nella tasca del camice che indossava alla ricerca del porta sigarette che trovò irrimediabilmente vuoto.

“Pignatta vota e boccale asciutto: ecco come si guasta i' tutto...” borbottò mettendo in rima la saggezza e scuotendo a sua volta il proprio porta sigarette come se in quel modo avesse potuto miracolosamente estrarne qualcosa da fumare “Un m'è rimasta 'na cicca neanche a me, sennò te n'offrivo!” disse ed io sorridendo smisi di suonare offrendo loro quanto avevano invano cercato nelle loro tasche, mentre mi alzavo e mi rimettevo il soprabito.

“Hai finito il turno?” mi domandò Henry in una boccata di fumo azzurrognola ed io annuii.

“E no' altri si prende i' su' posto...” terminò l'italiano con l'orario dei turni stampato in quella sua portentosa memoria fotografica che l'aiutava tanto nel suo lavoro “Toh, manca un quarto a mezzanotte, tu ti va a fa' un cicchetto adesso?”

“Sì, con questo freddo ne sento proprio il bisogno...” dissi allacciandomi il cappotto e congedandomi da loro con un cenno, augurandogli un buon lavoro.

Allontanandomi potei udire solo qualche parola dei due ed Henry che prendeva in giro Silvio e gli faceva: “S'ha dì' d'andà'?”


Uscì dal Saint George ed una ventata gelida mi investì come tutti quei cambiamenti fino ad ora avevano travolto la mia vita dandomi, contrariamente a quanto tutti avrebbero potuto sospettare, sempre maggiori soddisfazioni.

Camminai per qualche isolato verso quello che avevo eletto come mio pub preferito, quando un grido di un uomo si alzò atroce contro il cielo nero ferendo le alte stelle.

Proveniva dalla Loreen Glasgow Library.




Eccoci alla fine del primo capitolo di questa long fic nata da un'idea repentina e colta più che al volo...

Che dite, il linguaggio è poco vittoriano,vero?

E Watson, ciccino mio, si sente così cambiato dopo tutto quello che è successo... e chissà cosa succederà poi!

Vaneggiamenti inutili a parte ho appena eletto Roccaverde Silvio come mio alterego ufficiale (farlo parlare in dialetto toscano è troppo divertente, mentre scrivevo avevo un sorriso che mi andav da un orecchio all'altro!), anche se io non ho idea di come si suoni un pianoforte, mentre Henry è per me il fico della situazione... Dio benedica i capelli rossi e gli occhi smeraldini!

Sono riuscita a mettervi la pulce nell'orecchio? Fatemi sapere che ne pensate, ok?

Alla prossima, sperando di aggiornare in un lasso di tempo umano!

ISI!

  
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