Il ramo di ginepro vibra sotto il peso di un frammento di ghiaccio, condensato nel freddo inverno sulla sua sottile punta. Dall’incantevole stalattite illuminata da un gelido sole, gocciolano lievi stille azzurrine. Cadono e si poggiano ritmicamente sul manto di neve fresca, lasciando un piccolo solco, quasi impercettibile, come unico segno del loro passaggio.
Dal frammento di ghiaccio, se si avvicina lo sguardo e si socchiudono le palpebre, si scorge qualcosa che danza all’interno. Aspetta. Si muove e riflette, alza leggermente la veste. Ci sta raccontando una storia.
Perché l’acqua che scorre, e che noi osserviamo in questo inverno lontano, prima ha saputo assistere paziente ad ere di vecchi racconti da narrare nella sua vita novella.
Nel ghiaccio, la nostra figura è abbigliata di una giacca di lana cucita a mano, la fattura mutevole e morbida celebra sere passate a filare davanti a un camino come unica luce. È scalza, che danza sulle punte dei piedi, e sopporta il gelo; con le mani ci invita a raggiungerla nel suo piccolo universo di misteri e segreti. Ci prende e trascina, via, con sé, presi dal suo vortice di silenziosa passione. E si precipita, prigionieri del ghiaccio.
«Talvi! Talvi, dove sei finito?» la giovane fruga un po’ ansiosa fra i cespugli denudati, scuote gli arbusti provocando cascate di neve, chiama nel bosco un solo nome che riecheggia, subito riassorbito dal riflettersi mite dei tronchi lignei. Nella sua ricerca disperata, si ferisce a del filo spinato. Inciampa, cadendo sul terreno gelido, mentre il ferro acuminato si fa strada nel suoi piedi fragili e sottili, non protetti.
Le rifugge un grido, e piccole gocce rosse lasciano una scia di orme funeste. Il sole batte e comincia a sciogliere i residui dell’ultima nevicata, trasforma il candido e il bianco in una poltiglia quasi fangosa e spiacevole al tatto.
Ma la giovane prosegue il cammino. «Talvi? Talvi, dove sei?»
È tardi per cercare il suo gattino. Mentre il sangue ricorda il fatuo percorso, vermiglio liquido delicatamente baciato dal sole, lei ritorna sconfitta nella sua dolce dimora. Nel bosco, due occhi velati d’oro la inseguono a distanza, e il tintinnare di un campanellino d’argento passa inosservato.
Nella sua stanza, dall’alto della torre isolata, non si medica i piedi. Prende il carillon che ha sempre tenuto poggiato sul comodino, lo adagia sul davanzale della finestra. Lo carica girando con lentezza studiata la rotellina, lo sguardo offuscato da reminiscenze che non attendono musica per riprendere a danzare in testa.
L’oggetto, sferzato da un vento pungente, coraggioso apre le sue spire al mondo. Dall’ovale ricamato d’oro, spuntano due figure che al ritmo delle soffici note girano su se stesse, si abbracciano mortalmente per terminare il gioco con un bacio fatale. Lo scrigno si richiude sul loro incantevole funerale, su una bellezza fuggevole e ambigua che si costringe a replicarsi ogni volta uguale, identica a com’era prima. Perfetta.
E dalla finestra ricorrono le sferzate a reclamare i loro gridi di protesta, perché nel gelido inverno l’amore è come sangue gettato su neve fresca: mortale e impossibile.
Il carillon cade, precipita giù dalla torre infrangendosi sul ghiaccio di una lamina d’acqua, cristallizzata dal freddo come un incubo impresso fra scarti di fantasie distorte.
La giovane osserva, muta, si porta una mano alla bocca e trattiene un sospiro. Le due anime sono spirate da una breccia dello scrigno d’oro dipinto, e ora, come ad esalare un ultimo e tenue respiro, salgono trascinate da magici refoli di vento.
Dalle soglie del bosco, s’affaccia un gatto. Cammina soffice finché non raggiunge il luogo dell’immutabile delitto. Alza gli occhi e li punta sulla figura sporta leggermente dall’anfratto della finestra. È sguardo impaurito, e innocente è la piega della sua bocca sottile.
«Talvi…» sussurra la giovane. Si precipita verso le scale, e corre, corre per arrivare veloce dal suo amato animale.
Quando giunge nel tranquillo giaciglio del carillon, Talvi non c’è. La ragazza cade in terra, scossa dai singulti per l’amore perduto. Il dono di un amore più grande e lontano, di cui nelle notti rammenta il suono musicale della voce suadente, il tocco gentile delle mani ammalianti.
Le sue lacrime formano un cuore di fessure fra la neve sciolta. Sul riflesso delle schegge di ghiaccio rivede sagome non sue, ma volti di amanti di mondi dispersi, occhi che rispecchiano la sua stessa disperazione striata di strazi. Fra essi, l’ombra dell’altra sua metà, dissipata da frescure più nuove.
Ragazzina pallida e silenziosa, chissà quale è il tuo nome. Sarà favoleggiante e rivestito di velluti preziosi, intarsiato da rare gemme e filigrane argentate, sarà leggiadro, amabile. Ma sarà vero, reale, o visione e miraggio?