Destra. Sinistra. Giusto. Sbagliato.
E poi ancora dritto, verso una via immersa in truce nebbia che ti guarda fra spifferi arrossati dal sangue, giù verso la scarpata dell’oblio che ti avvolge con le sue ali nere gocciolanti lacrime amare. Correre e non fermarsi, fuggire da ciò che ti insegue, essere sempre all’erta fra i graffi dei rovi che incombono come pareti di vetri spezzati, cocci di cuori infranti che ti piovono addosso. Feriscono, tagliano, bevono dai tuoi liquidi sparsi.
Destra. Sinistra. Giusto. Sbagliato.
Si scivola da quell’altura verso cui si cercava rifugio. Ti aggrappi alle radici di quel giovane olmo che sporge verso il burrone, perché non vuoi cadere vittima della tempesta dolce e soffice che ti attende all’abisso. Una bufera di sale che s’attaccherà alle tue ferite, e brucerà insana fino a smembrarti la carne. Dolorosa e terribilmente gentile. È un vortice, un gorgo biancastro che sembra attirarti e allontanarti da una possibile salvezza o la fine. Ma la radice tiene, e piano, mano dopo mano e sforzo di braccia, si è sulla terra ferma e solida di irte spine e sterpaglie. E quindi via verso il labirinto da cui non v’è uscita.
Confusione. Maledetta confusione che schiavizza e non lascia liberi. E se solo si avesse l’arma, la spada, per sconfiggere il nemico di guerra. Eppure non si conosce nemmeno chi manovra questi fragili fili, e le difese sembrano anch’esse finite nella tormenta e distrutte dalla forza dei venti. Si cerca come fermarla, come poter infilzare un bastone negli ingranaggi dell’orrore e poter arrestare il tutto; riappropriarsi delle perdute certezze è ormai un sentiero di stelle: lontano.
Cos’è giusto? È un giro, un tondo fatto di lamiere affilate, questo muoversi velocemente alla ricerca di nuove ali?
Cos’è sbagliato? Amarlo ancora dopo tutto questo caos che t’imprigiona e ti rende vittima ignara, sofferente detenuta di un incubo oscuro?
E ti chiedi se solo vi sia differenza, ora che il pensiero è scandito da un cuore malato, ora che la mente è vago fumo nell’aria. Ora che il tormento è il mostro rinchiuso nella grotta, da dove si sentono solo urli e strusciar di catene. È tutto finito; assurdo come l’improvviso è inaspettato, come l’atteso sa essere l’insensato puntuale dell’incontro col futile fato.
Perché la calma è giunta, sono spuntate le rose, e il sole ha levato il velo del lutto. Le cicatrici restano impregnate del sale che ancora brucia sotto un filo di disgrazia, l’abito è lacero laddove si è scalfito fra gli scrosci di ghiaccio inviati dal cielo. Ma tu sei lì e qualcosa è rimasto, dentro un povero corpo che s’accinge a scavarsi un gracile sepolcro di petali secchi. Un goccio di follia si nasconde nella tenue risata, mentre cadi nella tua semplice bara. E non dici addio, ma l’arrivederci verso una rinascita nell’innocenza fatta d’organza.
Un raggio buca la coltre di sottili nubi, viaggia fino alla lapide in marmo. Accarezza una foto in bianco e nero, sorvola il mazzo di tulipani, sfiora il viso di chi poco fa ti ha baciato. Spirito nell’anima, ha toccato i tuoi resti vermigli dopo la lunga battaglia, e l’amore è tenero nell’approdare verso i porti del cielo. A braccia aperte t’accoglie il destino.