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Autore: ReaderNotViewer    27/09/2005    8 recensioni
Se vi siete chiesti che cosa facessero i cittadini di Sunnydale mentre le Potenziali affluivano a casa Summers e il Primo perdeva tempo a cercare il suo look ideale invece che mettere assieme un piano decente, questa è la ff che fa per voi
Genere: Commedia, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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CAP.6 - SE QUALCOSA PUÓ ANDAR MALE





“California is a garden of Eden,
A paradise to live in or see.
But believe it or not, you won’t find it so hot,
If you ain’t got the do re mi.”

Do re mi di Woody Guthrie



- È vero, Taylor, tua madre è morta.

Io mi siedo sulla sedia e mi afferro al bordo del tavolo, che a dire la verità è piuttosto unto, mentre tutta la saliva sembra abbandonare la mia bocca in un colpo solo.

Mio padre mi guarda allarmato – probabilmente anche il colore sulla mia faccia è andato nello stesso posto della saliva – e mi appoggia una mano tremante sulla spalla in un gesto di conforto che mi fa venire una voglia pazzesca di alzarmi e di correre via gridando a voce alta. Gridando che cosa e andando dove non so.

- No, no. Voglio dire che tua madre è morta undici anni fa.

La prima cosa che penso è che l’alcool gli abbia definitivamente bruciato il cervello. La seconda cosa che penso è che mio padre si sia messo a parlare per metafore, che conoscendo mio padre potrebbe essere solo una variante della prima. Insomma, che stia parlando per metafore perché è diventato matto come un cavallo.

- Ma che cosa cazzo dici? – rispondo di getto prima di ricordare che non bisogna mai contraddire i matti – Due anni fa era viva e vegeta: non ti ricordi che è venuta a trovarci?

Oddio, a trovarci trovarci magari no. Diciamo che ha bussato alla nostra porta e mi ha portato a fare un giro in macchina, ma non sono nemmeno sicura che mio padre l’abbia vista di sfuggita: era tardi e quasi certamente era già completamente immerso nel suo stupore alcolico. Non avrebbe notato l’Arcangelo Michele se si fosse presentato davanti a casa nostra con quattro metri quadri di ali e una spada fiammeggiante.

Con la puntigliosità che un tempo gli era abituale e che il più delle volte s’infrange ormai contro la difficoltà di esprimere la propria opinione quando si ha la bocca impastata e non ci si ricorda dal naso alla bocca, mio padre replica con calma: - Vegeta può darsi ma di certo non viva.

La mia mente registra con una certa sorpresa che la mia veemente reazione non ha innescato una tragedia familiare prima di soffermarsi sul significato della frase: che cosa significa, non viva?

- Non viva e nemmeno morta, Taylor – aggiunge mio padre prendendo una delle mie mani inanellate in una delle sue manone ruvide, calde e tremanti e all’improvviso sembra più sobrio di quanto sia mai stato negli ultimi undici anni.

Io guardo i miei anelli – uno dei quali sembra una bandiera dei pirati in miniatura – e mi chiedo perché mi metto addosso certa roba che solo a vederla mi fa venire da vomitare.

Quando morì il canarino Stella avevo credo sei anni. Fui io a trovarlo rigido e stecchito nella sua gabbietta, corsi piangendo dalla mamma e lei mi prese in braccio e mi spiegò dolcemente che purtroppo Stella era morto. E quando ebbe finito di spiegarmi che gli animali che teniamo nelle nostre case per farci compagnia a volte muoiono e noi non ci possiamo fare niente, io mi asciugai le lacrime e le chiesi: “Sì, va bene, ho capito che è morto: ma perché non canta?”

Ripensandoci col senno di poi quell’episodio – che i miei genitori avevano l’abitudine di raccontare ad amici e a parenti per farli sorridere della mia supposta ingenuità infantile – dimostra invece secondo me che quando sei nato e cresciuto a Sunnydale impari presto che il confine tra questo mondo e l’altro non è così ben difeso e invalicabile come si sarebbe portati a credere.

- Taylor? – mi dice mio padre dopo un po’ che sto zitta.

- Credo di aver capito, papà - rispondo io togliendo la mano dalla sua e ascoltando la mia voce con sorpresa come se appartenesse a qualcun altro.

E adesso che ci penso, lo è davvero la voce di qualcun altro, è la voce di mia madre, uguale e identica alla sua al punto che quando cinque anni fa la nonna morì d’infarto, credeva fosse proprio mia madre, e non io, a parlarle e a tenerle la mano fino all’ultimo. Mia madre non fece neppure in tempo a vederla viva. Adesso so anche perché: mia madre doveva aspettare che calassero le tenebre per poter fare la strada dall’aeroporto all’ospedale senza incenerirsi.

Come ho fatto a non capirlo? L’improvviso cambiamento del suo carattere, l’orario serale delle visite, l’abbigliamento inadeguato alla stagione, il pervicace rifiuto a mangiare qualsiasi cosa. Come ho fatto a essere così stupida, come hanno osato farmi fare per undici anni una tale figura da stupida?

- Perché cazzo non me lo avete detto? Non lei, non tu, mai, mai? Ci tenevate così tanto a convincermi che la mia mamma avesse preferito andare via piuttosto che restare con me? – le lacrime mi scorrono sulle guance e sento in bocca il sapore amaro di un rivolo di rimmel.

E poi mi accorgo di quello che ho detto. E penso che sono un’orfana da undici anni ma lo so soltanto adesso. In questi undici anni la donna di cui sono orfana ha continuato a venirmi a trovare e a offrirmi gelati, a mettere dollari in una busta e a spedirmeli per il mio compleanno, a telefonarmi per conoscere i miei voti a scuola e per sapere come è andata la gara di ginnastica ritmica. Una madre del cavolo, lontana e distante e che non mi ha mai chiesto di andare a vivere con lei a Detroit – e adesso si spiega perfettamente anche perché non me lo abbia mai chiesto – ma pur sempre una madre.

- Lei non voleva che tu lo sapessi – mi risponde mio padre.

- E allora perché me lo stai dicendo?

- Tu sei una donna ormai e a me non importa più quello che vuole e quello che non vuole lei – farfuglia mio padre tra le lacrime e io sono meravigliata perché non l’ho mai visto piangere da sobrio.

Ci asciughiamo gli occhi col dorso delle mani tutti e due, e non so la sua ma la mia trema così forte che rischio di infilarmi un dito in un occhio.

- Forse dovrei bere qualcosa – azzardo io e mio padre si alza barcollando, si sente un rumore di vetri che si scontrano e di sportelli che si aprono e si chiudono e poi eccolo che torna con una bottiglia di whisky piena a metà e un bicchiere pulito.

Tenendo la bottiglia con due mani mio padre versa il liquore mentre io a mia volta tengo il bicchiere con due mani; poi mi guarda mentre bevo a piccoli sorsi e sento l’alcool diffondere il suo calore nel mio corpo e riportare un minimo di chiarezza nella mia testa. Mio padre guarda la bottiglia ma invece di portarsela alle labbra come mi sarei aspettata la richiude accuratamente e la allontana da sé.

- Ti senti meglio?

- Sì, credo di sì. Temo di essere un po’ sconvolta.

Per forza che sono sconvolta: chi non lo sarebbe nel venire a sapere che sua madre è un vampiro ormai da undici anni? Ci sono molte domande che vorrei porre a mio padre e la prima che mi viene in mente è “È per questo che hai passato gli ultimi anni a bere fino a ridurti all’incoscienza?” ma non sono abituata a parlare con quest’uomo dei fatti veramente intimi e personali della mia vita o tantomeno della sua perciò alla fine gli chiedo invece di raccontarmi che cosa successe esattamente undici anni fa.

È una storia breve ma mio padre la rende ancora più breve e quando ha finito di esporre i fatti mi accorgo che non mi ha detto di preciso quando o dove accadde o se qualcun altro oltre a lui venne mai a sapere che la mamma era stata sorpresa da un vampiro sulla strada tra il lavoro alla tavola calda e casa. Mi dice solo che era inverno, che si faceva buio presto e che quello stronzo del padrone aveva minacciato di licenziarla se non si fosse fermata per un’ora ancora. Non so perché la mamma non avesse telefonato a papà sul lavoro per farsi venire a prendere in macchina o non cercasse di farsi dare un passaggio da qualcuno dei clienti. Forse aveva bisticciato con papà prima di andare al lavoro ed era arrabbiata con lui e il ricordo di quella stupida lite è diventato per undici anni l’unica compagnia di mio padre oltre alla bottiglia.

Magari aveva così paura di tornare a casa da sola con il buio da accettare un passaggio dalla persona sbagliata o addirittura di chiederlo lei stessa alla persona sbagliata.

A me sembra di ricordare che la mamma mancava di casa da due giorni prima che papà smettesse di cercarla negli ospedali e mi dicesse che era andata via, ma evidentemente papà riuscì a farmi credere per qualche tempo che lei era uscita prima che io mi svegliassi o che non era ancora rientrata all’ora in cui andavo a letto perché adesso mi dice invece che passarono diversi giorni prima che egli finalmente incontrasse di nuovo la mamma, o meglio quello che la mamma era diventata. A quanto pare era scappata dalla stretta sorveglianza del suo nuovo padrone – il vampiro che l’aveva resa una di loro - perché voleva vedere lui e voleva vedere me. La mamma non voleva il sangue di papà e tanto meno il mio: voleva solo continuare la sua vita di prima, quella che le avevano strappato, e così aveva già progettato di trasferirsi con noi in un’altra città, trovarsi un lavoro notturno e comprare il sangue dal macellaio. La mamma all’inizio non capiva che se papà avesse acconsentito né io né lui le saremmo sopravvissuti a lungo.

Quando mio padre arriva a questo punto del racconto piango così tanto che le palpebre mi pungono e mi fanno male, ma so anche dentro di me che la mamma aveva torto. Il giorno che fossi tornata a casa piangendo perché gli altri bambini facevano i prepotenti perché erano più forti di me, il giorno in cui papà al lavoro avesse preso uno strappo alla schiena che non voleva saperne di guarire, il giorno in cui lei stessa si fosse stancata di nascondere la sua vera natura al vicinato… prima o poi si sarebbe presentata l’occasione di renderci uguali a lei. E lei non avrebbe potuto fare a meno di coglierla.

Non so se mio padre sarebbe stato abbastanza veloce o abbastanza fortunato da riuscire a distruggere il demone che si era impossessato di sua moglie e consegnare così alla pace eterna la donna che amava.

Non so se non la uccise perché aveva paura di morire nel tentativo e di lasciarmi orfana anche di padre; o perché temeva che lei avrebbe colto l’occasione per andare avanti col suo piano primitivo; o semplicemente perché non se la sentiva di infilare un paletto nel cuore della donna che aveva sposato.

So solo – perché mio padre me lo dice adesso - che mia madre mentì al suo sire fin dal primo momento, dicendogli di essere divorziata e di non avere figli: i vampiri non sono meno sciatti o trascurati di noi esseri umani e dal momento che le loro facoltà soprannaturali non comprendono la lettura del pensiero è relativamente facile ingannarli.

Dovrei forse meravigliarmi che il primo istinto della mamma fosse stato proteggerci da quelli della sua specie, ma ho tagliato i capelli a troppi vampiri per illudermi che la loro malvagità non ammetta cedimenti; e so benissimo che Spike era ferocemente leale alla sua Cacciatrice molto prima di avere quest’anima che tutti tengono in così grande considerazione.

In ogni caso, i miei arrivarono ad un accordo che evitava al tempo stesso ceneri svolazzanti e gole squarciate: come tutti dicono che dovrebbero fare i genitori quando decidono di separarsi, pensarono innanzitutto al bene dei figli, vale a dire della sottoscritta, e si sistemarono come meglio potevano in una vita di bugie e di mezze verità.

Per questo alla fine la mamma si stabilì a Detroit, dove l’inverno è rigido, le notti lunghe e da dove è difficile tornare a Sunnydale senza che il viaggio tutto intero duri di più del breve spazio tra un tramonto e un’alba.

Un tempo mi veniva a trovare spesso anche se mio padre non la faceva quasi mai entrare; e quando a dodici anni presi la varicella dalla povera Gladys e stetti veramente molto male la mamma restò accanto al mio letto una notte intera tenendomi la mano calda di febbre con la sua mano fresca.

In quanto a papà, non ci lasciò un attimo da sole e solo adesso ne conosco il vero motivo: me lo posso immaginare con la paura che gli tiene compagnia per tutta quella lunga notte – la paura che la sua moglie vampira uccidesse la sua bambina e ne facesse un vampiro eternamente dodicenne – la paura e molto probabilmente anche un paletto di legno e una bottiglia di acqua santa nascosti sotto la sedia.

- Adesso che cosa farai? – mi chiede mio padre – Tra poco sarà qui il reverendo Bliss.

- Ho trovato un passaggio per Los Angeles, papà: non ti preoccupare. Quello che mi hai detto non cambia niente.

- Già, è vero. Che cosa dovrebbe cambiare? – dice mio padre guardandosi attorno per vedere se ha dimenticato qualcosa.

Mio padre ha già messo le assi alle finestre del pianterreno e ora sta controllando che siano ben assicurate così quando se ne sarà andato mi chiuderò dentro ad aspettare Sassassa come in un fortino. È strano che non mi venga neppure il mente il sospetto che il mio amico Sfreyano potrebbe non arrivare mai; tanto più strano perché se si trattasse di un altro essere umano invece che di un grosso demone coperto di pelo bianco sarei già qui a mordermi le mani per l’ansia e a chiedermi se ho fatto bene a fidarmi.

- Papà?

- Che c’è?

- Tu lo sai dove abita esattamente la mamma a Detroit?

Mio padre fa una breve e aspra risata e scuote la testa in un diniego: - I vampiri non abitano, Taylor. Credevo che lo sapessi. Comunque, no, non so il suo indirizzo e non so nemmeno se ne abbia uno. È sempre lei a telefonare o a scrivere.





- Questa sarebbe la macchina?

- Beh, che cosa ti aspettavi, una limousine?

- No, però non mi aspettavo una macchina della polizia.

- È un problema?

Il parco macchine della polizia di Sunnydale non è mai stato un granché e questa che ho davanti - una Chevrolet vecchia di quasi dieci anni bisognosa di una buona riverniciatura - non costituisce certo uno dei suoi esemplari migliori. Il profondo segno circolare sulla portiera del guidatore potrebbe essere dovuto o all’estremità di grosso tubo di cemento o al pugno di una creatura gigantesca, anche se è difficile dire quale sia l’ipotesi più ragionevole visto che ci troviamo dove ci troviamo.

- Dove sono le chiavi? Perché se ti aspetti che io riesca a fare quel giochino con i cavi…

Con un sorriso che va da una parte all’altra del suo faccione peloso Sassassa esibisce orgogliosamente un mazzo di chiavi che tira fuori dal borsello con cui si è presentato alla mia porta di casa venti minuti fa.

Ammetto che nonostante la situazione non proprio comica, l’ora tarda e un’aria da imminente tragedia così fitta che si poteva tagliare con il coltello, vedermelo davanti con il borsello a tracolla sulla spalla destra, un innaffiatoio verde da venti litri nella mano sinistra e uno zaino arancio fosforescente sulla schiena – tale e quale il personaggio di un cartone animato per bambini deficienti – mi ha provocato un irrefrenabile attacco di ilarità. Sassassa si è offeso al punto che mi sono dovuta trascinare da sola la mia borsa da viaggio per quasi un intero isolato prima che me la portasse via dalle mani brontolando che se avessimo continuato a camminare così piano non saremmo arrivati mai.

- Oh. Dove hai preso quelle chiavi? No, aspetta, non lo voglio sapere.

- Non penserai che le abbia rubate? – mi chiede indignato.

In effetti non penso certo che un demone bianco alto due metri vada in giro borseggiando poliziotti né che si introduca furtivamente nell’autorimessa della Polizia di Sunnydale, tantomeno con quell’enorme zaino sulle spalle che brilla nella notte come un giubbotto ad alta visibilità; d’altra parte non sarei eccessivamente meravigliata se scoprissi invece che queste chiavi sono un’altra delle molte cose che il mio amico si è ritrovato misteriosamente addosso dopo un episodio di mannarismo.

- Ma certo che no, Sassassa – rispondo girando attorno alla macchina per vedere se ci sono altri danni – Sai perché l’abbiano lasciata qui? Sei sicuro che vada?

- Ti dico che funziona perfettamente – risponde Sassassa che nel frattempo ha aperto il bagagliaio e ci sta buttando frettolosamente dentro i nostri bagagli – Li ho visti quando l’hanno portata qui.

Le chiavi non servono per aprire la portiera dal momento che la serratura non funziona, probabilmente in seguito al medesimo colpo che ha lasciato quelle vistose tracce sulla carrozzeria, e ce ne vuole del bello e del buono per sbloccare il meccanismo di avanzamento del sedile e spingere quest’ultimo in avanti finché non riesco a raggiungere i pedali con i piedi: l’ultima persona che ha guidato questa macchina doveva essere molto alta. Aveva anche rovesciato qualcosa di appiccicaticcio sul volante e con questo buio posso solo sperare senza esserne certa che di tratti di aranciata uscita da una lattina piuttosto di qualcosa di più sinistro e magari collegato al medesimo incidente che ha provocato quei segni sulla portiera.

Dopo essermi sistemata infilo la chiave d’accensione e sono così abituata agli imprevisti negativi che il dolce ronzio con cui il motore si mette immediatamente in moto mi lascia genuinamente sorpresa.

- Visto? – mi dice trionfante Sassassa piegandosi praticamente in due per potermi parlare attraverso il finestrino – Cosa faccio della benzina?

La spia sul cruscotto indica che il serbatoio è pieno per un quarto e quindi non c’è urgenza di riempirlo; d’altra parte non vedo nemmeno motivo di partire portandoci dietro del liquido altamente infiammabile in un contenitore di fortuna, perciò spengo il motore e scendo dalla macchina per fare il pieno.

Per il momento non ho ancora fatto niente di illecito, sto solo rifornendo un’auto della polizia che non è neanche chiusa a chiave: in pratica, si potrebbe quasi dire che sto beneficando le autorità di Sunnydale.

Tra quello che ha portato Sassassa nell’innaffiatoio e l’avanzo della latta che c’era in fondo al mio garage, testimone di un’epoca in cui la famiglia era ancora motorizzata, ce n’è abbastanza per arrivare a più della metà della capacità; ora mi resta solo da sperare che il puzzolente liquido che Sassassa ha trovato nel capanno degli attrezzi oltre ad avere l’aspetto e l’odore della benzina ne abbia anche le note proprietà combustibili e non sia invece qualcosa che ci farà restare a piedi o peggio ancora ci farà saltare per aria sul più bello.

- Erano due, sono arrivati e sono scesi. Io ero su quella panchina là, ma loro non mi hanno notato – mi confida il demone Sfreyano indicando il giardino pubblico di fronte.

- OK, ecco fatto – dico girando il tappo del serbatoio nella sua sede – Erano poliziotti?

- Non erano in divisa, a dir la verità – riflette Sassassa girando intorno alla macchina per sedersi al posto del passeggero – Ma che cos’altro avrebbero dovuto essere? Scendevano da una macchina della polizia e uno aveva le chiavi in mano.

Apre la portiera e guarda dentro: - Io non credo di starci, Tula.

- Ma sì, basta tirare indietro il sedile – dichiaro io ottimisticamente – E poi che cosa hanno fatto?

- Sono andati via parlando tra di loro. E passando di fianco al cestino della spazzatura quello che aveva le chiavi ha fatto un movimento come se stesse buttando via qualcosa.

- Le chiavi? Io tengo la leva tirata, tu spingi il sedile indietro.

- Sì, non so proprio che cosa mi abbia spinto ad andare a controllare nel cestino dei rifiuti. Ahia, Tarantula, stai attenta: mi è rimasto il pelo incastrato nel meccanismo.

Secondo me non sono i due metri di statura totale il problema, quanto l’enorme sproporzionato torso e il testone che si incastra sotto il tettuccio della macchina, per non parlare dei due zamponi anteriori – non mi sentirei di chiamarli braccia – e in particolare di quell’ammasso di carne e di muscoli che si trova proprio nel punto in cui la spalla si articola sul busto.

- Sai una cosa Sassassa? Sono sicura che ti avrebbero dato le chiavi se solo tu gliele avessi chieste.

- Davvero? – mi dice il mio amico Sfreyano dando allo schienale del sedile una manata.

Questo si abbassa sì completamente ma produce anche un sinistro scricchiolio.

Sembra proprio che Sassassa abbia riflettuto molto seriamente sull’opportunità di questo prestito forzoso ai danni della polizia di Sunnydale.

- Sai – mi confida infatti cercando di entrare nella macchina di traverso – veramente lo penso anch’io che non avrebbero niente in contrario se prendessimo la macchina in prestito. E sai perché? Perché avevano l’aria di essere persone di buon cuore, ecco perché.





I sobborghi di Sunnydale sono una cosa strana: proprio quando pensi di esserti lasciato alle spalle l’ultima villetta e di essere a un passo dalla superstrada che scende a Sud verso Los Angeles, ecco che ti ritrovi in un altro quartierino di casette a basso costo con davanti i loro portici bianchi e i loro giardinetti ben curati. Se devo giudicare dalla completa assenza di luci alle finestre o gli abitanti sono tutte persone fortunate che si stanno facendo una bella notte di sonno senza essere interrotti da neonati piangenti o da denti doloranti o da coniugi scansafatiche e nottambuli oppure se ne sono andati in massa lasciando di guardia soltanto i nanetti di gesso nei giardini.

- Cribbio, siamo ancora a Sunnydale! – esclamo seccata vedendo i contorni delle case alla luce dei lampioni - Questa città sembra non finire mai.

- Come vorrei non vederla più – sospira Sassassa alzando il testone per occhieggiare dal finestrino.

Quasi che la sua Fata Madrina stesse solo aspettando il momento di esaudire i suoi desideri, non ha ancora finito di parlare che la luce dei lampioni si spegne e l’intero quartiere piomba in un buio fitto e sinistro nel quale restano solo i fari della nostra macchina ad aprire uno squarcio a forma di cono.

- Cribbio – ripeto io in tono significativo.

- Non sono stato io – si difende Sassassa come se io potessi pensare che lui tenga nascosto nel suo borsello un congegno con cui può accendere e spegnere le luci di Sunnydale a suo piacimento.

- Certo che no. Adesso finalmente stai comodo? – gli chiedo girandomi a dargli un’occhiata.

- Abbastanza – dichiara il demone Sfreyano – Ma questo sedile qua dietro è veramente lurido.

- Puoi sempre toglierlo e buttarlo via proprio come hai fatto con quello davanti.

- Spiritosa – brontola Sassassa. - Ehi, Tula – aggiunge come colpito da un’idea improvvisa – Ce l’abbiamo la sirena?

- Pensavo che l’idea fosse quella di non farci notare – osservo temendo che cominci a schiacciare pulsanti a caso con le sue zampone come ha fatto prima con la radio.

Menomale che dalla centrale non ci ha risposto nessuno, sempre naturalmente che la completa latitanza delle forze dell’ordine in tutta Sunnydale si possa considerare un buon segno.

- OK, adesso dovremmo esserci – dico rallentando per non rischiare di perdere lo svincolo per l’autostrada e finire invece in mezzo al deserto.

- Menomale – osserva Sassassa rigirandosi sul sedile per guardare attraverso il lunotto posteriore gli ultimi segni della città che ci stiamo lasciando alle spalle e io istintivamente serro le mani sul volante perché la macchina ha ondeggiato sotto il suo peso come se fossimo su una barca in mezzo all’acqua invece che su un veicolo in mezzo alla strada.

Se non ricordo male, da questo punto in poi non ci sono più case in vista fino al prossimo paese e l’unica cosa che incontreremo è una stazione di servizio che sarà certamente chiusa, poiché mi risulta che non sia stata rifornita da almeno una settimana.

- Vai più forte, Tula.

- Scherzi? Con questo buio non vedo un accidente e rischiamo di…

- Mi spiace dovertelo dire ma abbiamo una macchina dietro – mi interrompe il demone.

- Eh? – esclamo incredula, perché fino a questo momento il nostro viaggio si è svolto attraverso strade completamente deserte.

Cerco di sbirciare nello specchietto retrovisore ma Sassassa è troppo grosso e mi impedisce la visuale.

“Beh” penso ottimisticamente cercando di non perdere di vista la strada nonostante mi sia quasi venuto un colpo “Forse non sono stata proprio l’ultima a lasciare Sunnydale, forse…”

- E una davanti – aggiunge il demone inferendo un colpo pressoché mortale al mio ottimismo.

Veramente quella davanti non è una macchina ma è un furgone; ma non mi sembra il momento di discutere l’accuratezza della definizione con un demone Sfreyano che nel suo mondo si sposta solo per via d’acqua.

È un mondo molto umido, o almeno così mi dicono.

E non è neanche esatto dire che abbiamo un furgone davanti a noi, perché questo farebbe pensare che stia procedendo nella nostra stessa direzione di marcia: invece no, il furgone si sta muovendo attraverso la strada come se ci fosse un incrocio o come se stesse compiendo un’improvvisa inversione a U. Solo che qui non c’è mai stato un incrocio e nel momento stesso in cui sono costretta a una brusca frenata per evitare lo scontro mi rendo conto che anche l’ipotesi dell’inversione di marcia è infondata e che questo è esattamente ciò che temevo, cioè un agguato.

- Cribbio – dice Sassassa.

Il mio primo istinto è quello di chiudermi dentro la macchina e di conseguenza passo qualche prezioso istante a combattere inutilmente con la sicura dello sportello prima di ricordarmi che la serratura è rotta.

Subito dopo l’automobile che ci stava seguendo - un grosso fuoristrada scuro – ci viene addosso con un boato come se avesse rotto i freni o non ci avesse visto o meglio ancora come se fosse proprio quello che il guidatore aveva in mente: io vengo sbattuta bruscamente in avanti mentre la cintura di sicurezza mi impedisce di sbattere contro il parabrezza ma mi toglie il fiato e Sassassa, che non è agganciato perché la sua corporatura non rientra certo nei parametri d’impiego delle cinture di sicurezza, viene catapultato dal sedile posteriore direttamente contro il vetro, lo sfonda e finisce sdraiato a pancia in giù con le gambe dentro la macchina e la parte superiore del corpo allungata sul cofano anteriore.

La prima sensazione che registro è il contatto del ginocchio destro con il fusto del volante; poiché credo di aver preso anche una discreta botta al gomito sinistro ho il tempo di meravigliarmi di non avvertire il lancinante dolore che di solito segue infortuni del genere prima di capire che evidentemente il mio cervello è così bloccato dalla paura che le sensazioni provenienti dalla periferia del mio corpo non riescono ad arrivargli.

Sassassa, che invece non sembra afflitto dallo stesso tipo di problema, sta alternando lamenti inarticolati a parole che non capisco, con ogni probabilità imprecazioni nel suo linguaggio nativo, che almeno a giudicare da ciò che sento deve offrire un ampio ventaglio di opportunità in merito.

- Sassassa, ti sei fatto male? – gli chiedo a bassa voce mentre cerco di liberarmi dalla cintura di sicurezza.

- Secondo te? – ritorce lui agitando tutte e quattro le zampe nel tentativo di rientrare in macchina – Non capisco che cosa vo…

- Ma guarda un po’ chi si vede – viene da fuori una vocetta stridula e maligna.

La mia portiera viene aperta bruscamente e mi ritrovo con la luce di una torcia sparata in faccia.

- Vieni fuori, brutta strega.

“Oh mio Dio, di nuovo i piccoletti” è il mio primo pensiero.

Il secondo è che evidentemente sono salita nella loro considerazione se sono passata da troia a strega.

Anche se non penso che questo strega sia da intendersi alla Willow Rosenberg quanto in un senso molto più popolare e prosaico.

Il terzo non faccio in tempo a formularlo – il che se vogliamo è anche un bene – perché mi tirano fuori dalla macchina strappandomi letteralmente dal mio posto mentre la cintura di sicurezza cede finalmente con un plop dimostrando che in fondo ci voleva solo un po’ di buona volontà.

Sono tre anche questa volta, così somiglianti al terzetto dell’altra volta che penserei che siano gli stessi se non sapessi quello che è successo dopo il nostro ultimo incontro; quando abbassano la torcia per sbattermi con il mento contro la cornice superiore della portiera mentre mi tengono le mani dietro la schiena riesco a vedere abbastanza per capire che un altro dei loro è rimasto sul furgone, seduto al posto di guida; posso anche sentire che ha acceso l’autoradio e che sta sparando musica country a tutto volume.

Anche se non è la prima volta che penso di stare per morire, potrebbe essere la prima volta che la colonna sonora è perfettamente adatta alla circostanza, e mi vergogno a dire che questa constatazione è sufficiente a farmi inumidire gli occhi di lacrime di autocommiserazione. Pensandoci meglio dover sentire questa roba sarebbe già di per sé un buon motivo per piangere. Un altro potrebbe essere il modo in cui questi disgraziati mi stanno torcendo i polsi.

Visto che sono appoggiata alla carrozzeria della nostra macchina – anche se preferirei non doverlo fare col mento appoggiato sul bordo affilato della cornice sopra la portiera – posso sentire distintamente l’ampio assortimento di scricchiolii e di gemiti che accompagnano l’impresa con cui il mio amico Sfreyano si rialza; penso anche che sia una mossa intelligente da parte sua mettersi in piedi sul cofano anteriore così da troneggiare su questi piccoletti, o per meglio dire lo penso finché la lamiera non comincia a cedere sotto il suo peso, lui perde l’equilibrio e rotola giù dalla parte opposta della macchina come uno di quei grossi pupazzi pubblicitari che si montavano una volta alle fiere agricole. Solo facendo cento volte più baccano.

- Te la facciamo pagare, schifosa bestiaccia – grida un demonietto punzecchiandomi la spalla con uno di quei loro coltellini da Barbie che conosco così bene.

Sebbene sappia per esperienza che la loro capacità di insultare lascia molto a desiderare sia per varietà che per precisione, immagino proprio che dicendo bestiaccia si riferiscano a Sassassa.

- Prendilo, prendilo – incita un altro.

La voce proviene da dietro la nostra macchina, quindi deduco che ne siano scesi degli altri dal fuoristrada che ci ha tamponato; giro cautamente il collo e cerco di capire quanti sono in tutto: tre qui con me, almeno uno sul furgone e altri quattro alle prese con Sassassa. È facile per loro prendere un furgone o un fuoristrada e ammucchiarsi dentro, bassetti come sono e con quelle gambette corte che non portano via spazio: avrei voluto vederli se ci avessero dovuto sistemare uno o due demoni Sfreyani.

Sassassa ringhia ma è inutile sperare che si stia trasformando: evidentemente questa volta la signorina Madison non gli ha rifilato una patacca ma buon antidoto antidemoni mannari Sfreyani testato e certificato e anche se non ho mai capito un acca del complicato sistema Sfreyano per misurare il tempo credo che manchino come minimo delle ore alla prossima coincidenza astrale in cui potrebbe scatenarsi un attacco di mannarismo. E per quanto i nostri assalitori non brillino per sagacia, dovrebbero essere veramente più stupidi di ogni ottimistica previsione per pasticciare con la linea temporale anche questa volta.

Anche se non posso vedere che cosa stanno facendo al mio amico che è rotolato sulla strada dalla parte opposta, i miei guardiani, oltre che a punzecchiarmi qua e là con la punta dei loro coltellini come una torta di cui si voglia saggiare il grado di cottura, sono così gentili da tenermi aggiornata sull’andamento dell’operazione scambiando incoraggiamenti e consigli con i compari che stanno riducendo Sassassa all’impotenza. All’inizio il mio amico demone non sembra molto d’accordo a lasciarsi immobilizzare e cerca di sfruttare a proprio vantaggio l’enorme superiorità fisica; né si dimostra pronto a ridursi a più miti consigli quando uno dei suoi assalitori si arrampica sul tetto della macchina e comincia a picchiarlo sul testone con il cric – del resto so per esperienza che Sassassa ha la testa straordinariamente dura tant’è vero che c’é voluta tutta la forza di un vampiro armato di vanga per metterlo KO durante il nostro primo incontro.

E dal momento che anche ora, nonostante sia molto meno forte così che nella sua versione mannara, Sassassa si sta difendendo validamente e sembra quasi poter prevalere, gli incitamenti dei demonietti si moltiplicano sovrastando quasi la musica country, per non parlare del flusso ininterrotto di insulti con i quali continuano a questionare sulla mia moralità e a promettere che mi dovrò pentire, anche se non ho ben capito di che cosa esattamente, dal momento che non sono certo stata io a programmare questi nostri spiacevoli incontri e mi sembra un po’ ingeneroso che se la prendano con me solo perché ho cercato di salvarmi la pelle.

Poi mi trascinano via dalla macchina e mi fanno inginocchiare per terra in modo che Sassassa veda mentre mi puntano un coltello alla gola e allora mi rendo conto che così come sospettavo il gioco leale non é una delle loro priorità.

- L’hai capito che sgozziamo questa baldracca se non stai buono? – grida a Sassassa quello che forse è il capo della spedizione o forse solo quello che ha la treccia più lunga.

So di parlare contro il mio interesse e soprattutto contro quello della mia gola, ma a questo punto se fosse furbo Sassassa direbbe che per quanto lo riguarda possono anche affettarmi come un salame o punzecchiarmi come un puntaspilli – cosa più probabile visto le armi che hanno a disposizione – perché a lui la mia sorte è del tutto indifferente; invece la sua tipica cavalleria Sfreyana lo frega e non riesce a pensare a niente di meglio che ad afferrare per il collo quello che ha appena parlato e a tenerlo sospeso a un metro da terra mentre squittisce e diventa cianotico.

- Ah sì? E se voi non la lasciate andare io gli spezzo il collo – replica Sassassa e tra il pelo tutto arruffato della sua faccia si può ora distinguere un fiero cipiglio guerresco – Che mi dite adesso?

Certo, se anche in questa versione eroica non continuasse a sembrare un pupazzo per bambini giganteschi l’effetto sarebbe migliore; ma il tizio che pende dalla sua manona, e che si sta afflosciando a vista d’occhio a partire da quella specie di proboscide che ha sulla fronte, non mi sembra molto attento a certi dettagli e agita le sue braccine corte per far capire ai compagni che vedrebbe di buon occhio una trattativa.

- Che cosa proponi? – chiede rialzandosi da terra uno che finora non ha ancora parlato forse perché era troppo occupato a rotolare sull’asfalto mentre Sassassa lo prendeva a calci.

Io vorrei suggerire a Sassassa di chiedere che ci lascino andare via tutti e due offrendo in cambio del denaro – sto pensando ai miei ottocento dollari che mi ha restituito poco fa e che sono nascosti in un calzino dentro alla mia borsa da viaggio – ma ho appena cominciato a dire “Sass…” che un manrovescio mi chiude la bocca.

- Lasciala stare – protesta subito Sassassa tutto preso dal suo ruolo di paladino e per meglio sottolineare le sue parole scrolla il suo ostaggio da una parte all’altra come un barman che stesse preparando un cocktail. Sbaglierò, ma mi sembra che vada persino a ritmo con la musica.

Poiché sembra che il mio intervento nella trattativa non sia gradito sto zitta; ma non credo proprio che tutto questo finirà molto bene per nessuna delle parti implicate.

Forse i demonietti sono stanchi di farsi picchiare da Sassassa o forse hanno solo fretta di andarsene e di portarlo Dio solo sa dove. Può anche essere che non abbiano dei progetti precisi sul mio conto o che la noia di insultarmi sempre allo stesso modo cominci a farsi sentire: fatto sta che così rapidamente come tutto questo è cominciato altrettanto rapidamente finisce. L’ostaggio viene rimesso a terra, Sassassa costretto a salire sul fuoristrada che ci ha tamponato e che ha riportato nello scontro solo danni modesti; i demonietti cercano di aprire il baule della nostra macchina ma è così accartocciato che riescono a sollevarlo solo in parte e devono accontentarsi di estrarre solo lo zaino arancione fosforescente, che riscuote imprevedibilmente il loro entusiasmo.

Io resto lì come un’idiota in mezzo alla strada e guardo allontanarsi sia i rapitori che il rapito in direzione opposta, di nuovo verso Sunnydale, mentre la musica country li segue implacabile come il destino.

Povero Sassassa, non mi hanno dato nemmeno il tempo di ringraziarlo o di scusarmi per essere stata l’involontaria causa delle sue disgrazie.

L’ultima immagine che ho del mio amico è di lui dentro il fuoristrada, l’enorme testone che riempie il lunotto posteriore lasciando ai suoi rapitori, che lo affiancano uno per parte, uno spazio così risicato che si prenderanno certamente un tremendo torcicollo; mentre il furgone sta facendo manovra i suoi fanali illuminano per un attimo la sua sagoma e vedo che si è girato a guardarmi. Forse sono pazza ma giurerei che mi stia strizzando l’occhio.

Non credo che l’automobile della polizia camminerà ancora, certo non prima che siano stati raddrizzati i parafanghi penzoloni, sostituiti i due copertoni posteriori e riallineati i mozzi delle ruote; a quel punto rimarrebbe solo da rimettere tre vetri su sei e rifare completamente la carrozzeria posteriore, scocca compresa. In altre parole, ormai non ha davanti a sé che lo sfasciacarrozze ed è questo il motivo per cui forzare quello che resta del cofano con il cric non mi fa né caldo né freddo. Anzi, quando riesco a riprendere la mia borsa da viaggio e a rimettermela in spalla provo quasi una fuggevole sensazione di sollievo, nonostante adesso il mio cervello mi stia regolarmente notificando che mi fanno male il ginocchio destro, il gomito sinistro, il labbro e anche un punto sopra il fegato in cui sono stata contusa dalla cintura di sicurezza.

Nonostante tutto posso ancora camminare. Il problema è decidere che direzione prendere.

Se fossi più lontana dalla superstrada, forse tenterei di tornare indietro verso l’abitato e di cercare rifugio almeno fino a domattina in una delle prime case. Immagino che dopo essermi impossessata di una macchina della polizia rompere il vetro della finestra di una casa non costituisca più un problema per me.

Ma l’istinto di lasciare Sunnydale è troppo forte e mi trascina, un passo dopo l’altro, verso la salvezza e prima di poterlo decidere razionalmente sto già camminando lungo il ciglio della strada che porta verso Los Angeles.

All’inizio non va molto male: anche se sono completamente sola gli avvenimenti della serata mi hanno insegnato ad apprezzare un po’ di solitudine.

Ma la solitudine significa anche che ho molto, moltissimo tempo per pensare alla mia situazione; e la prima cosa che mi viene in mente è che procedendo a piedi ci vorrà molto, moltissimo tempo anche solo per lasciare veramente Sunnydale.





Adesso sono veramente spaventata. Non che prima non fossi spaventata, ma non era niente rispetto a come sono spaventata adesso.

Continuo a dirmi di pensare chiaramente ma non riesco a pensare più chiaramente di qualcuno che stia affogando: tutto quello che mi viene in mente è solo che sto per fare un’orribile morte prematura.

Anzi, se stessi affogando sarei forse meno terrorizzata: mio padre da bambino rischiò di annegare e assicura che in quell’occasione vide tutto bianco e perse conoscenza senza provare né dolore né paura finché qualcuno non lo tirò fuori dall’acqua e cominciò a fargli sputare acqua dai polmoni.

Io invece dubito fortemente che morirò senza provare né dolore né paura; in quanto al vedere tutto bianco non se ne parla neppure perché al contrario sono circondata da quell’oscurità assoluta che si verifica solo durante un black-out .

Quando sento il rombo del motore e vedo le luci dei fanali mi immobilizzo come un coniglio spaventato, riuscendo solo a pensare che non so decidere se devo nascondermi o farmi vedere. Che se devo nascondermi non c’è un posto in cui possa nascondermi. E che se non riesco a farmi vedere perderò l’ultima occasione di lasciare Sunnydale.

Quando la macchina si ferma, comincio a pregare.

Dio mio, aiutami. Forse è un po’ tardi per prometterTi che in cambio sarò buona e mi comporterò sempre bene ma io ci provo lo stesso.

Sento aprirsi la portiera dal lato del guidatore. E poi la sento richiudersi con un tonfo.

Se non vuoi salvarmi la vita, Signore Iddio, fammi almeno morire in fretta.

I passi scricchiolano sulla ghiaia della banchina mentre resto immobile con la testa china e la maniglia della borsa da viaggio che s’infradicia di sudore.

Non voglio guardare, Signore, non voglio guardare chi sta venendo a prendermi: non credo proprio che sia un Tuo emissario con le ali e una spada fiammeggiante.

- Ti serve un passaggio?

Sono così spaventata che i miei occhi fanno fatica a mettere a fuoco la figura che mi si para davanti e che alla luce dei fari mi sembra solo un’enorme ombra scura.

Lo sconosciuto si china verso di me e mi chiede gentilmente: - Che cosa è successo?

Alzo lentamente la testa come una scolaretta timida che venga interrogata dalla maestra e intravedo una camicia scura sotto una giacca nera poi un collo largo due palmi e la faccia squadrata eppure piacente di un grosso giovanotto con fitti capelli neri e onesti, dolci occhi scuri che in questo momento mi stanno scrutando come se fosse veramente ansioso di aiutarmi.

- Eh?

Lo so, non è un granché come risposta. Potrei fare certamente di meglio se solo scoprissi dove è andata a finire tutta la saliva che di solito circola per la mia bocca.

- Che cosa ci fa in mezzo alla strada una… persona tutta sola in una notte come questa?

Non so che cosa sia a tranquillizzarmi, se il fatto che abbia detto persona invece di ragazza o il taglio perfetto della sua giacca o qualche particolare altrettanto insignificante della sua voce o della sua persona.

- Stavo andando via. – rispondo finalmente con una vocina che sembra la metà della mia voce abituale. Una risposta vaga ma sincera.

- Anch’io – mi sorride in modo impercettibile - Vado a Los Angeles: vuoi un passaggio?

Lo so: una ragazza sola non dovrebbe accettare un passaggio da uno sconosciuto. Si tratta di una buona regola, largamente nota e convalidata da un’infinità di storie raccapriccianti su quello che capita alle imprudenti fanciulle che non la seguono.

Ma una ragazza sola non dovrebbe nemmeno restare a Sunnydale in questa notte di maggio: e qualcosa mi dice che se infrangessi questa regola un domani potrebbero esserci in giro storie raccapriccianti su di me.

- Mio Dio, certamente. – rispondo con un sospiro di sollievo.





Il mio compagno di viaggio non è un tipo loquace. Non gli piace ascoltare la musica mentre guida perché tiene l’autoradio a volume bassissimo e sintonizzata sui notiziari. Se prevede che al giornale radio parlino di quello che sta accadendo a Sunnydale si sbaglia, ma forse non è quello che si aspetta. Mi ha preso la borsa da viaggio dalle mani, l’ha messa sul sedile posteriore, mi ha cortesemente tenuto aperta la portiera e io sono salita.

Non so ancora se dovrei temere la sua compagnia ma capisco subito che non devo temere la sua guida perché è il miglior autista che abbia mai incontrato, dotato di una grazia fluida e di un occhio sicuro come non ne ho mai visto l’eguale; l’automobile è una gloriosa vecchia Plymouth GTX ben tenuta, nera con gli interni di pelle chiara e la capotte abbassata e fila veloce sulla strada monotona che porta a Los Angeles senza incontrare praticamente traffico mentre grandi nuvole sfilacciate si spostano pigramente nel cielo notturno.

Si sta veramente bene qui, così bene che forse potrei cedere alla stanchezza e farmi un pisolino in questo sedile ampio e comodo, rivestito di lussuosa pelle color crema, mentre dall’autoradio il ronzio dei notiziari ha ceduto il passo al suono rilassante di pezzi di musica classica: sembra quasi di essere dal dentista.

Chiudo gli occhi e penso a mio padre, che a quest’ora sarà ormai in Texas insieme ai coniugi Bliss; ad Andrew accampato a casa Summers; a Sassassa e ai suoi rapitori e a chi di loro sia messo peggio. Penso a Sunnydale, intatta e vuota come una città colpita dalla bomba ai neutroni; e a Thomas, che sta dormendo il sonno del giusto dopo una giornata di duro lavoro in chissà quale remota cittadina agricola, magari con una bella bionda a fianco a fargli compagnia. Penso a Detroit e a come non ci farà poi tanto caldo anche se ormai è maggio inoltrato.

Credo anche di aver dormito per un po’ di tempo perché mi sveglio di soprassalto con le braccia gelate; la piacevole frescura si è trasformata ormai in una fastidiosa sensazione di freddo; apro gli occhi, vedo le stelle in cielo e come sempre succede quando si guardano quelle gelide fonti di luce mi viene ancora più freddo.

Sbircio il mio compagno di viaggio e vedo il suo profilo regolare e gradevole. Sembra perfettamente immobile e tiene la mano - liscia come quella di chi non ha mai fatto un giorno di lavoro manuale in vita sua – morbidamente appoggiata sul volante; non ho fatto nessun rumore, eppure si gira impercettibilmente verso di me e mi chiede: - Hai freddo? Devo alzare la capote?

Vorrei rispondere di sì, poi penso che se quest’aria gli avesse dato fastidio ci avrebbe già pensato per conto suo ad alzare la capote: magari è originario di qualche stato del Nord dove nevica sei mesi all’anno e questo clima californiano è un supplizio per lui. Finora ha parlato così poco che non sono ancora riuscita a capire che cosa sia quella lieve inflessione che di tanto in tanto affiora sotto la sua parlata standard.

- No, prendo io una giacca – replico e mi giro per cercare qualcosa di adatto nel mio bagaglio.

Ma proprio perché i sedili sono così ampi e d’altra parte le mie braccia sono abbastanza doloranti, dopo aver annaspato inutilmente con la mano allungando la spalla all’indietro più che posso per tentare di raggiungere la mia borsa mi rendo conto che non ci riuscirò mai a meno di mettermi in ginocchio sul sedile volgendomi in direzione opposta a quella di marcia.

Ed è mentre mi sposto verso di lui mentre cambio posizione che me ne accorgo.

Non lo vedo nello specchietto retrovisore.

Il mio cuore smette di battere per un istante. Ottimo, penso, così adesso siamo in due a non avere un battito in questa macchina.

- Che cosa c’è?

Accidenti, si deve essere accorto con il suo super udito che ho saltato un battito: vampiri, ideali come infermieri nel vostro reparto di cardiologia. A parte il piccolo inconveniente che si mangeranno i vostri pazienti, naturalmente.

Potrei buttarmi giù dalla macchina in corsa e sperare di non venir travolta da un altro veicolo o di non lasciare metà della mia pelle sull’asfalto; potrei usare la croce che porto al collo per cercare di bruciargli gli occhi; potrei tentare di dargli fuoco usando l’accendisigari della macchina. Sono tante le cose che potrei fare ma la realtà è che non farò un bel niente perché sono troppo stanca.

Sono stanca di sotterfugi, stanca di scappare e stanca di affrontare pericoli a cui sono destinata prima o poi a soccombere: in breve, sono l’immagine speculare di Sunnydale e ho dentro di me lo stesso vuoto che ormai la contraddistingue.

Sto zitta, immobile e tremante, sperando ancora che possa attribuire il mio tremito al freddo e non alla paura ma allo stesso tempo non ci faccio gran conto, dato che dicono che i vampiri siano in grado di avvertire l’odore della paura.

Forse è proprio il suo olfatto a fargli capire che ho capito, o forse più prosaicamente si rende conto che dalla posizione in cui mi trovo dovrei poter vedere la sua immagine riflessa nello specchietto retrovisore.

- Sì, sono un vampiro – dice riportando lo sguardo sulla strada.

Ecco, ci siamo.

- Ma non devi aver paura di me.

No? Magari la mia fama è arrivata fino a lui e da me non vuole sangue quanto un buon taglio.

- Io sono diverso – chiarisce il vampiro - Io ho un’anima.

Questa volta resto veramente di stucco. Due vampiri con l’anima in tutto il mondo e mi hanno salvato la pelle tutti e due: se non è fortuna questa, ditemi voi che cosa lo è.

- Ah, ho capito – esclamo sollevata – Allora tu sei l’altro vampiro con l’anima!

Ricordate quello che vi avevo detto sulla sua guida dolce e senza scosse? Dimenticate tutto perché ha dato un tale colpo sul freno che la macchina si è messa di traverso sulla strada.

- Io non sono l’altro vampiro con l’anima! – mi grida nelle orecchie non appena lo stridio dei freni sull’asfalto ha smesso di assordarmi.

Poiché questa vecchia macchina non ha le cinture di sicurezza è una vera fortuna che mi fossi girata per raggiungere la mia borsa, altrimenti a quest’ora mi sarei spiaccicata con la faccia contro il parabrezza.

Così invece quando il vampiro ha frenato all’improvviso sono solo rotolata giù dal sedile e sono finita sul tappetino in una scomoda e imbarazzante posizione a V dalla quale riesco a districarmi a fatica e solo grazie al suo aiuto.

- È lui l’altro vampiro con l’anima – precisa imbronciato mentre mi tira su di peso e mi risistema sul sedile come se fossi un manichino.

È una fortuna anche che non avessimo un altro veicolo subito dietro di noi, altrimenti un bel tamponamento non ce lo avrebbe levato nessuno. Sarebbe stata una specie di record, due tamponamenti nella stessa serata. Come si fa, a proposito, se si ha un incidente stradale mentre si viaggia con un vampiro? Mettiamo che sbatta la testa sul cruscotto e svenga: cosa fai, se sei ferita ma cosciente? Chiami un’ambulanza, così quando gli sentono il polso lo mettono dentro un sacco nero e te lo portano via sotto il naso? Oppure te ne stai lì ad aspettare che rinvenga e intanto continui a dissanguarti così quando quello putacaso si sveglia con l’amnesia sei già pronta a fargli da colazione?

Io non dico niente ma evidentemente la mia espressione parla per me perché lui mi spolvera un po’ i vestiti con le mani e dice: - Ti prego di scusarmi. Ehm, non ti sei fatta niente, vero?

- No. Non volevo essere… scortese.

Rimette in moto scuotendo la testa: - No, non è colpa tua; è solo che Spike… certe volte penso che esista solo per farmi diventare matto.

- Non sei il solo a pensarlo – ridacchio io – Spike può essere piuttosto irritante. Con o senza anima.

- Lo conosci bene.

- Lui ma soprattutto i suoi capelli – chiarisco io – Faccio la parrucchiera. E visto che non ci siamo ancora presentati: mi chiamo Tarantula. Veramente, mi chiamerei anche Taylor Peters.

- Io sono Angel. E ho avuto altri nomi, ma ormai non contano più.

- Vita nuova, nome nuovo – concordo gravemente – Capisco perfettamente.

- Non mi sei sembrata particolarmente sorpresa quando ho detto di essere un vampiro – dice Angel dopo un po’ che ha ripreso a guidare in silenzio.

Io nel frattempo ho preso la giacca dalla borsa e mi sono coperta; adesso che non ho più freddo, comincio ad accorgermi che ho fame.

- Forse perché anche mia madre è un vampiro – mi esce detto prima ancora che mi renda conto dell’effetto che può avere questa frase.

La sua reazione è inaspettata: - Davvero? E come ha fatto a…

- Ovviamente è diventata un vampiro dopo la mia nascita. – gli spiego un po’ incerta.

Come può venirgli in mente che io intenda dire di essere nata dal grembo di una vampira? Devo dire che l’altro vampiro con l’anima che conosco mi sembra più acuto.

- In effetti avevo nove anni. I vampiri non possono avere figli, giusto? Dato che sono, sì, insomma, morti.

- Sì, certo, naturalmente non possono – conferma.

Silenzio. Comincio a rendermi conto che una conversazione con quest’uomo è come una partita di ping-pong in cui si facciano spesso lunghe pause durante le quali si va alla ricerca della pallina.

- Hai continuato a vedere tua madre dopo che è diventata un vampiro?

- Di tanto in tanto. Mi telefona. Mi manda soldi per il mio compleanno. Cose così. Tu hai continuato a vedere la tua famiglia dopo essere diventato un vampiro?

- Io ho mangiato i miei genitori e mia sorella – mi dice.

Immagino che la mia solidarietà dovrebbe andare a questi poveri disgraziati dei suoi consanguinei, eppure c’è qualcosa nelle sue parole che mi fa sentire in dovere di confortarlo.

- Magari, se tu avessi avuto un bambino… - gli dico intendendo che l’amore paterno avrebbe potuto essere più forte dell’istinto di uccidere.

Dopotutto io sono la testimonianza vivente che l’amore materno può esserlo; ma lui non accetta la scappatoia che gli ho appena offerto.

- Per fortuna non lo avevo – replica asciutto dopo averci pensato su un mucchio di tempo.

Non c’è molto che io possa dire a questo punto perciò sto di nuovo zitta; ma ormai ho troppa fame per riuscire a dormire di nuovo.

- Dove siamo? – chiedo dopo un po’.

- Circa a metà strada da Los Angeles, direi. C’è un locale più avanti che è aperto tutta la notte: vuoi che ci fermiamo?

- Sarebbe splendido, grazie. Vorrei proprio mettere qualcosa sotto i denti.

La tavola calda davanti a cui ci fermiamo è uno di quei posti aperti tutta la notte dove puoi incontrare sia camionisti che agenti della polizia stradale seduti fianco a fianco e attenti a non incrociare mai lo sguardo: in pratica una sorta di santuario in cui vige una precaria tregua dedita al consumo di ciambelline e di caffè. Gli officianti nel momento in cui entriamo consistono in un paio di cameriere avanti con gli anni, mentre sugli sgabelli davanti al bancone poggiano sederi variamente fasciati in diverse gradazioni di tessuto jeans e una coppia sovrappeso mastica metodicamente a uno dei tavoli davanti a un assortimento di portate caloriche ed indigeste da cui ricavo la confortante nozione che qui si può mangiare sul serio anche a quest’ora della notte.

Angel si guarda attorno e mi guida a un tavolo che a prima vista non ha niente di speciale che lo distingua dagli altri; quando si siede a un’estremità della sua panca mi accorgo però che quella è probabilmente l’unica posizione da cui si possano vedere sia l’ingresso, che la porta che dà sul retro, che quella che porta in cucina. Per la prima volta da quando questo pomeriggio ho promesso ad Andrew che avrei tentato di lasciare Sunnydale al più presto, mi sento veramente al sicuro: bella cosa i vampiri con l’anima, se non esistessero bisognerebbe inventarli.

- Non so se troverai qualcosa che ti va – mi dice porgendomi la lista – Temo che qui una dieta sana non sappiano nemmeno che cosa voglia dire.

- Magnifico, perché non lo so nemmeno io – rispondo scorrendo il menù in cerca di quello che mi consentirà di ingurgitare il maggior numero di calorie possibile nel tempo più breve possibile - Sei già stato qui altre volte?

- Nell’ottobre di due anni fa – mi risponde e come al solito non aggiunge dettagli.

Dal momento che mi ha salvato da una morte orribile non voglio rompergli le scatole con le mie chiacchiere e perciò tengo la bocca chiusa mentre studio la lista dei piatti a giudicare dalla quale si direbbe che qui o non sappiano che cosa sia il colesterolo o confidino in un rapido ricambio della clientela.

Nel frattempo Angel rimane immobile a guardare il vuoto davanti a sé con quella fissità che denota una lunga pratica; dopo un po’ si riscuote e mi fa la domanda che mi aspettavo che prima o poi sarebbe venuta.

- Che ci facevi ancora a Sunnydale, Tarantula, dopo che tutti gli abitanti più o meno senzienti se ne sono andati da un pezzo?

- Sfortuna. E tu che ci fai fuori da Sunnydale, adesso che solo gli eroi sono rimasti?

Si rabbuia; e visto che già normalmente è discretamente tenebroso rabbuiarsi nel suo caso significa diventare cupo come una notte senza luna.

- Lei mi ha chiesto di tornare a Los Angeles per preparare il secondo fronte. Casomai le cose andassero male.

Non c’è bisogno di chiedere chi sia lei.

– Prenderò solo un toast, allora. Immagino infatti che non avrai tempo da perdere a nutrire parrucchiere vagabonde e disoccupate.

- Non ti preoccupare. A me piace nutrire la gente – mi risponde distrattamente, perché evidentemente la sua mente è altrove, poi mi guarda sorpreso da ciò che mi ha detto e aggiunge: - È vero che mi piace.

- Sarà perché in altri tempi te ne nutrivi – dico io d’impulso prima di fare goffamente marcia indietro: - Scusami: non ho saputo resistere.

Lui non ride alla mia battuta come avrebbe fatto Spike ma nemmeno si offende; mi guarda tristemente e mi dice senza prendersela: - Tu mi ricordi un po’ una persona: anche lei non può fare a meno di dire quello che le viene in mente.

- È una brava ragazza?

- La migliore – dichiara in un tono che mi fa pensare che ci sia del tenero e, se non avesse usato il presente, mi porterebbe anche a credere che la poveretta non sia più tra noi.

- Che cosa le è successo?

- Che cosa non le è successo… Lavorava per me. Le persone che lavorano per me tendono a fare una brutta fine.

- Lo terrò presente, casomai tu aprissi un salone e mi offrissi un posto. Forse però in questo caso dovresti lavorare da solo.

- Ci ho provato, ma sembro attrarre collaboratori come una calamita.

- Sarà perché hai le qualità naturali del leader - azzardo io perché ho l’impressione che gli faccia piacere sentirselo dire: dopotutto mi ha portato lontano dalla Bocca dell’Inferno, un po’ di adulazione è il minimo che possa fare per ricambiare. In alternativa potrei anche offrirgli un taglio decente, ma francamente non mi sembra né il momento né il luogo opportuno.





La cameriera, una donna grassoccia di mezza età, viene a dirmi che la torta di mele è finita e mi chiede se può portarmi al suo posto delle fragole con la panna montata.

Io vorrei solo che non perdesse tempo e si sbrigasse ad arrivare con la mia bistecca prima che io svenga dalla fame e acconsento. Nel frattempo ci ha portato due tazze di caffè e un pacchetto di patatine fritte che le strappo letteralmente di mano prima ancora che lo metta sul tavolo.

- Venite da Sunnydale? – ci chiede invece di andarsene ad occuparsi della mia bistecca.

- No – rispondo io con la bocca piena di patatine.

- Sì – dice Angel lanciandomi un’occhiata di rimprovero.

Si vede che non ha mai avuto molto a che fare con cameriere da tavola calda, cosa che del resto non sorprende dal momento che non ha bisogno di mangiare.

- Si può sapere che cosa sta succedendo laggiù? Sono passati di qua a migliaia come se stesse per crollare la diga o che so io, e non c’è stato verso di farsi dire da che cosa esattamente stessero scappando.

- Tornado – rispondo io tra un colpo di tosse e l’altro.

Mi si deve essere incastrato un frammento di patatina in gola, ma che importa? Non ho mai mangiato delle patatine così buone in vita mia, tanto che mi riprometto di prendere nota della marca per poterle ricomprare.

- Bradisismo – dice Angel contemporaneamente a me.

La cameriera ci guarda con compatimento, scuote la testa e va via.

- È quando il terreno si muove – mi spiega il vampiro – Non dovresti ingozzarti così. Almeno non credo che dovresti farlo.

Il caffè è fin troppo caldo e mi sembra buono quasi quanto quello di Willy, o forse sono solo io che troverei di mio gusto qualsiasi liquido anche vagamente commestibile. In effetti Angel fa una faccia strana mentre lo beve: suppongo però che lui non abbia pranzato con una scatola di crauti e saltato la cena, ma che abbia invece regolarmente consumato le sua razioni di sangue di maiale. Mi chiedo anche se quando viaggia si prepari i thermos e li metta nella borsa refrigerata come si fa con i biberon quando ci sono dei bambini piccoli.





- Così non sei americano, vero?

- Irlandese – replica – Ma credevo che l’accento non si sentisse più.

- Non si sente – lo tranquillizzo io – però si capisce che non sei nato da queste parti.

- Perché ti sto raccontando tutte queste cose? – mi chiede.

Tutte queste cose francamente mi sembra un’espressione un po’ esagerata: conosco gente, con o senza battito e con o senza anima, che nello stesso tempo mi avrebbe raccontato morte e non-morte di sé e di mezza Sunnydale.

- È colpa del mio mestiere – gli spiego comunque – la gente tende a confidarsi con il suo parrucchiere.

- Non col mio: con l’età é diventato piuttosto sordo.

Che il collega oltre che diventare un po’ sordo sia diventato anche un po’ cieco spiegherebbe effettivamente molte cose sul modo in cui Angel tiene i capelli. Qualcuno dovrebbe o fargli una fotografia o dirgli qualcosa.

“Un buon parrucchiere” diceva sempre Monsieur Alexandre “è come Robin Hood: toglie dove c’è troppo per dare dove manca.” In altre parole: è tutta questione di volumi.

- Beh, del resto non sono molti i saloni in cui servono persone che non si riflettono nello specchio – osservo.

- E di solito per lo più le servono in retrobottega male illuminati.

- Sono pochi i posti fuori di Sunnydale attrezzati a soddisfare una clientela così particolare.

- A proposito: hai già deciso cosa fare una volta arrivata a Los Angeles? Dove ti devo accompagnare?

- Ho una specie di invito da parte di amici – rispondo pensando ai parenti della mia amica Dolores – Ho l’indirizzo in macchina.

- Il tipo di amici che si butterebbe nel fuoco per te oppure…

- L’altro.

- Posso trovarti io un posto sicuro in città.

- Perché?

- Perché cosa?

- Perché faresti questo per me.

- Perché é quello che faccio: aiutare la gente che non ha nessun altro che la aiuta.

- Suona bene: hai mai pensato di farne uno slogan?





- Scusa se te lo chiedo, ma hai per caso conti in sospeso con la giustizia? – mi chiede Angel improvvisamente.

- Perché?

Mi giro leggermente seguendo la direzione del suo sguardo e mi accorgo che è appena entrato nel locale un paio di poliziotti – il tipico abbinamento nero attempato e bianco giovane dei telefilm – e che il primo dei due non mi toglie gli occhi di dosso mentre beve il suo caffè con il gomito appoggiato al banco.

Riporto lo sguardo su Angel che sta ancora aspettando una risposta.

Non so se prendere in prestito una macchina della polizia abbandonata costituisca una qualche forma di reato; smontarne i sedili e buttarli fuori probabilmente è vandalismo anche se non ne sono sicura; in ogni caso non penso che farei una buona impressione se chiedessi delucidazioni, e nemmeno se dicessi che è stato un demone Sfreyano ad avere l’idea e che comunque agivamo entrambi in quello che credo si chiami stato di necessità.

- Non lo so – dico – non credo.

E veramente non credo che nessuno dei tutori della legge di Sunnydale abbia assistito al mio breve e sfortunato viaggio a bordo di una delle loro automobili; e in quanto all’introdursi in proprietà altrui, partecipare a risse e spacciare sostanze magiche illegali – tutte cose che ho fatto ultimamente - o non c’erano testimoni oppure ero stata gravemente provocata.

Per quanto riguarda un passato più lontano, se anche qualche volta ho trasgredito la legge non si trattava di niente di importante; e cosa più rilevante ai fini di una risposta onesta alla domanda di Angel non mi hanno mai preso. A Houston poi mi sono comportata come una cittadina modello e a meno che la signora Gomez non mi abbia denunciato per averle fatto i capelli viola – che comunque le stavano benissimo – sono assolutamente sicura di non avere niente da temere dalla sbrigativa macchina giudiziaria texana.

Non so se il vampiro mi abbia creduto: il suo sguardo è impenetrabile come sempre.

- Forse quel poliziotto mi guarda perché gli piaccio? – ipotizzo mentre l’effetto cumulativo di troppi film incentrati su agghiaccianti e talvolta fatali errori giudiziari si fa sentire aumentando istantaneamente la mia sudorazione.

Angel non risponde ma mi guarda di nuovo in silenzio in modo che definirei veramente molto poco lusinghiero, se non fosse verissimo che il mio tipo non incontra molto tra gli afro americani di mezza età.

- OK, non sembro il suo tipo. Sei almeno sicuro che non stia guardando te?

- Nemmeno io credo di essere il suo tipo – replica il vampiro – Andiamo?

- Sì, certo. Ecco, sono pronta – rispondo dopo aver ingoiato in un solo boccone tutto quello che resta della mia coppa di fragole e che non era poco.

Angel si è già alzato e mi copre completamente la visuale verso l’agente – il che data l’imparzialità delle leggi dell’ottica significa che allo stesso tempo impedisce al poliziotto di vedere me; pensando che questo pover’uomo ha solo bevuto un caffè che non gli è nemmeno piaciuto mentre io sono riuscita a spazzolarmi un intero pasto lascio sul tavolo i soldi per pagare il conto prima di alzarmi. O che il vampiro condivida la mia valutazione o che sia un taccagno o che stia semplicemente pensando ad altro, non perde tempo a fare complimenti ma mi prende per il gomito e mi spinge verso l’uscita così ce ne possiamo andare passando davanti ai poliziotti ciarlando come se non avessimo una preoccupazione al mondo. Anche se la parte in cui si ciarla tocca tutta a me, mentre lui si limita a stare zitto con quell’aria vagamente stolida che la maggior parte degli uomini prende davanti a una donna che parla a ruota libera e che ci fa gioco come e anche meglio che se partecipasse alla conversazione.

Siamo già fuori quando l’altro poliziotto – quello bianco e giovane di cui volendo potrei anche essere il tipo, sempre che a me fossero mai piaciuti i piccoletti grassottelli con la pelle butterata e un’incipiente calvizie – mi mette una mano sulla spalla. Angel si gira di scatto, apre la bocca per dire qualcosa, la richiude istantaneamente come vede la divisa e sorride: è un’imitazione così perfetta del bravo ragazzo pronto a difendere la sua compagna da eventuali molestie e sollevato dal trovarsi invece di fronte a un tutore della legge che quasi quasi ci cascherei anch’io. Ha ancora una mano sul mio braccio e posso sentire che si è irrigidito, pronto ad intervenire se fosse necessario, e non posso negare che questo mi faccia sentire molto meglio di come mi sento di solito quando la polizia si interessa ai miei andirivieni. Ma bisognerebbe conoscere la polizia di Sunnydale per potermi capire veramente.

- Mi scusi, signorina – mi dice l’agente – Viene da Sunnydale?

Ahia. Non ho niente in contrario a mentire ai poliziotti – non potrebbe essere diversamente dopo aver frequentato George per tanto tempo – ma non so da dove diavolo potrei dire invece di venire: il più delle volte dire la verità è solo segno di scarsa fantasia.

- Sì, perché?

- È vero che la città è praticamente deserta?

- Sì.

- Posso chiederle come si chiama?

- Perché? – chiede Angel prima che io possa parlare.

Il poliziotto di colore, che fino a questo momento è rimasto a guardarci in silenzio fermo davanti alla porta del locale, si avvicina.

- Perché no? – chiede a sua volta.

- Perché per combinazione io sono il direttore di un grande studio legale di W&H che tiene molto alla tutela della privacy?

- Un avvocato – dice il poliziotto e non so proprio come sia riuscito a mettere tanti significati dentro una singola parola di quattro sillabe, nessuno dei quali lusinghiero verso gli esponenti della professione forense.

- Non ho mai detto di essere un avvocato – chiarisce Angel – Avvocati sono quelli che lavorano per me.

- Facciamola finita – intervengo io – Che importa se gli diciamo come mi chiamo? Non viaggio mica in incognito. Taylor Peters. Volete vedere la mia patente di guida?

- Secondo me non le assomiglia per niente – dice il poliziotto bianco rivolto al collega.

- La descrizione combaciava – obietta questi.

- Bianca, capelli e occhi scuri, altezza media, si veste di scuro? La descrizione combacia con metà delle ragazze che ci sono in giro – protesta il piccoletto – Vada pure, signorina e ci scusi tanto.

Mentre ci allontaniamo sento ancora il poliziotto di colore discutere con il suo collega: - Come fai a dire che non è lei?

- Ma ti sembra un accento di Boston, quello?

Angel sta ascoltando attentamente e io rallento istintivamente per poter sentire, dimenticandomi delle sue eccezionali facoltà sensoriali.

- Un accento si cambia – protesta il più anziano.

- Sì, certo. Ma stammi a sentire: tu quella lì l’avresti mai definita un vero schianto?

Ehi.

Ma si è visto lui?

Mentre mi guida verso la macchina Angel mi lancia un’occhiata e la mia espressione dev’essere eloquente; noto che gli brillano gli occhi e che gli angoli delle sue labbra si alzano in un sorriso divertito: evviva, sono riuscita a farlo ridere, forse ho vinto un animale di pezza.

Da vero gentiluomo, non commenta; ma per la seconda volta questa notte mi tiene aperto lo sportello della macchina mentre mi accomodo.

- Davvero hai uno studio legale alle tue dipendenze?

- Temo di sì. Hai per caso ammazzato qualcuno?

- No. No – ripeto ridendo nervosamente quando mi accorgo che questo rientra per lui nel novero delle possibilità – Però gli avvocati servono anche a cercare le persone, non è vero?

- Certo.

- Come quando cercano gli eredi scomparsi, no?

- Sei tu l’ereditiera?

Meglio non soffermarsi troppo a riflettere sul suo tono di incredulità: le conclusioni potrebbero non essere lusinghiere per il mio amor proprio.

- No. Ma se mi vuoi veramente aiutare, potresti trovare una persona per me.

Annuisce: - Questo é facile.

- Anche se quella persona fosse a Detroit?

- Sì.

Mi appoggio allo schienale e chiudo gli occhi.

Per il momento sono comodamente seduta con la pancia piena di bistecca, patatine e fragole ma presto saremo a Los Angeles; il mio compagno di viaggio non solo non mi assorda con le sue chiacchiere ma può anche difendermi da qualsiasi minaccia potrebbe presentarsi o quasi; mi ritrovo con ottocento dollari in tasca senza contare che potrò guadagnarmi da vivere con il lavoro delle mie mani praticamente dovunque tranne che in un paese di calvi.

La vita non sembra poi così male.

Che Sunnydale vada pure all’inferno.

Io invece andrò a Detroit.

C’è là qualcuno a cui voglio proprio dire di persona che undici anni di menzogne mi sembrano veramente troppi anche per chi nel frattempo non é invecchiato.



FINE

  
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