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Autore: Meli_mao    05/08/2010    7 recensioni
Storia classificatasi Terza al Contest: "One day: raccontami di...", indetto da Fabi_Fabi.
I pensieri di un James Potter di fronte all’inevitabile destino di suo figlio. Un momento diverso, forse mai vissuto realmente.
"“Il mio pianto era qualcosa di complesso, di implacabile e non riconducibile ad un’unica causa.
Era la sconfitta bruciante, l’angoscia crescente, il rammarico del passato, il terrore del futuro, o, più semplicemente, il dolore per una perdita.
Quel pianto poco aveva a che fare con me, o forse era semplicemente tutto me stesso”."
Buona Lettura.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Dudley Dursley, James Potter
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Autore: Meli_mao
Personaggi principali: James Potter, Vernon Dursley.
Pairing:
/
Genere:
Introspettivo, sentimentale, drammatico.
Rating:
Verde
Avvertimenti:
One-shot, What… If?, forse Missing Moment.
Introduzione
: I pensieri di un James Potter di fronte all’inevitabile destino di suo figlio. Un momento diverso, forse mai vissuto realmente.
Il mio pianto era qualcosa di complesso, di implacabile e non riconducibile ad un’unica causa.
Era la sconfitta bruciante, l’angoscia crescente, il rammarico del passato, il terrore del futuro, o, più semplicemente, il dolore per una perdita.
Quel pianto poco aveva a che fare con me, o forse era semplicemente tutto me stesso”.

Buona Lettura.          

Note dell'autore: (non obbligatoria)Allora solo una cosa. Dopo molto ripensamento  posso affermare che il James che parla è un James 
già morto e sepolto. Questo è un ricordo, vissuto e raccontato da lui. Spero vivamente ti possa piacere. Ciao ciao.
 
 
Tears of Pain
 
"Non ero scoppiato in lacrime per sentimentalismo, 
ma così, come piange un vetro in una stanza
che viene riscaldata dopo tanto tempo.
(Victor Sklovskij).
 

 

 
Le campane suonarono in lontananza. Mi sembrò insolito il loro ticchettio nel silenzio impacciato della strada.
Foschia. Era foschia ciò che mi impediva di vedere oltre pochi metri dal mio naso.
Scrollai le spalle, in un gesto rapido, e mi risistemai il cappuccio sulla testa, scuotendo appena il mantello nero che sfiorava il suolo.
Sistemai alcune ciocche di capelli sotto di esso, con un gesto che sapeva di abitudine, e camminai.
Sapevo esattamente il numero dei passi da fare. Conoscevo ogni singola piega e buca nell’asfalto, ogni mattonella scolorita dei muri di cinta.
Ero andato così spesso in quel luogo negli ultimi tempi…
L’odore acre della pioggia da poco terminata mi impregnava quasi le narici, ma non ci badai molto.
Le mani stringevano la stoffa scura a livello del petto, serrando l’indumento pesante dall’interno, riparandomi completamente dal pungente freddo invernale.
Può un luogo portare tanta tristezza nel cuore di una persona?
Lo sguardo salì inevitabilmente al secondo piano di una di quella casette costruite in blocco, identica alle vicine, ma così diversa dal resto.

 
Nasconde molti segreti, quella piccola casetta di due piani.
Cela l’odio doloroso di una sorella, il segreto che si impegna a dimenticare, l’invidia umana provata un tempo e ancora persistente.
E tante, tante altre cose.     

 
Appoggiai una mano sul cancellino in ferro, sentendo dapprima il vento arrivare al mio corpo dalla parte scoperta dal mantello, poi il freddo del
metallo sotto le mie dita.
L’occhio mi cadde sul citofono.

Ci sarà anche il nome di mio figlio, un giorno, sotto a quel bottone illuminato?
Una luce si accese all’ingresso, qualcuno borbottava frasi irritate, qualcun altro urlava isterico.
Infine la porta si aprì, con uno scatto rapido e rumoroso.
Intravidi per qualche secondo il riflesso di un corridoio stretto e soffocante, poi la visuale fu bloccata da un corpo panciuto e stretto in un cappotto pesante.
In una mano teneva un ombrello azzurro, nell’altre un portafogli marrone.
La porta si richiuse alle sue spalle, mentre lui si stava allacciando il giaccone, cercando di nascondere il pigiama di lana che ancora indossava.
Fece un gradino, dei due che lo separavano dal vialetto, poi si immobilizzò sul posto, stringendo con vigore la presa sull’oggetto lungo e dall’aria minacciosa. Cosa che mi lasciò impassibile.
“Chi è?”
Burbero, ma la sua voce tremava.
Sorrisi, da sotto il mio mantello caldo, chiedendomi come ancora quei babbani potessero sopportare il freddo solo con semplici strati di stoffa come quelli che indossava lui.
Forse sarebbe stata opportuna una mia parola da subito, ma la voglia di parlare mi aveva lasciato molto tempo prima.
“Si può sapere che vuole signore?”
Insistette, alzando l’ombrello e puntandolo verso di me.
Le mie labbra si distesero in un altro sorriso ironico, che lui non poteva vedere.
“Ha le voglie, vero Vernon?” Infine mi decisi, scrutando attentamente la sua espressione sorpresa.
Vidi le sue labbra tremare appena, nell’incapacità di prendere una decisione.
Forse avrebbe voluto insultarmi, o anche prendermi a colpi in testa con quell’ “arma”, ma temeva che non ne sarebbe stato in grado. E non per mancanza di forza o di voglia, ma perché io avrei potuto bloccarlo con fin troppa facilità, senza l’uso della forza bruta, ma con qualcosa che lui considerava peggiore : la magia.
Forse fu quel pensiero a convincermi, oppure il fatto che eravamo  arrivati ad un punto morto.
Il mio mantello mi rendeva fin troppo riconoscibile agli occhi di un uomo che conosceva il suo significato.
Fu la visione del cappuccio sulla testa e del mio corpo fasciato in quel tessuto a farlo indugiare.
Lui, del resto, sapeva.
Presi un respiro profondo, chiedendomi che cosa stessi facendo, ed infine mostrai il mio volto.
Una mano salì a sistemare gli occhiali sul naso, e mi grattai la testa, quasi… imbarazzato.
Era sollevato, lo capii subito. Non ero dopotutto uno sconosciuto.
Eppure era fortemente a disagio. Non avrebbe dovuto sentirsi tranquillo davanti a me, no?
“Che diavolo ci fai qui?!” chiese, decidendosi a procedere con passo fermo, senza però abbassare o allentare la presa attorno all’ombrello.
“Ero nelle vicinanze!” Una frase scontata, per non dover spiegare niente. Ma anche così ripetitiva da non essere nemmeno presa in considerazione.
“Voglie!” ritentai, stringendo appena la mano, ancora immersa sotto il tessuto, attorno alla bacchetta. Era un gesto spontaneo, senza pensiero.
“Vattene!” ordinò con irritazione, abbassando d’istinto la voce e lanciando occhiate rapide alle finestre dei vicini.
“Non sono qui per te, né per tua moglie!” Ammisi, nel vago tentativo di calmarlo, come se la cosa mi importasse.
“E allora via, sparisci tu e la tua combriccola di matti!” dichiarò senza un cambiamento significativo nel tono.
Scossi il capo, emettendo un leggero sbuffo contrariato.
“Quando imparerai?” lo provocai, piegando di lato la testa.
“Imparare… che… cosa…” Pronunciò scandendo con rabbia.
“Che non puoi rispondere così  ad un persona come me”. Spiegai rapido, lasciando che lui intravedesse quella che avrebbe definito “Il pezzo di bastone”, ma che istintivamente lo bloccò di nuovo.
“Se non sei qui per noi allora che diavolo vuoi? Avevamo stabilito che voi sareste stati fuori dalle nostre vite! Siete una vergogna, un…”
“Non sono qui per voi!” il mio tono fu più basso, quasi rassegnato.
Mi aveva messo tristezza, questo suo modo di appellarci.
Non che non lo conoscessi, ma ora c’era qualcosa in più.
Provai rancore, per quell’uomo davanti a me che, senza degnarsi di spiegazioni, dispensava giudizi negativi contro modi di vivere diversi dal suo.
Ora ero io a pensare di odiare il suo stile di vita.
E la cosa buffa fu che non lo pensai perché consideravo la mia esistenza migliore, ma perché ero semplicemente invidioso.
Forse il dolore si manifesta in modi diversi a seconda di chi lo prova. Forse sono le donne a dover piangere, e lo fanno anche molto bene.
Forse quel leggero nodo alla gola che sentii non era assolutamente legato ai miei pensieri.
Forse… o forse…
Mi spostai di lato, lasciandogli la strada libera e sgombra dalla mia presenza così fastidiosa per lui.
La cosa lo ammutolì.
Mi rinfilai  il cappuccio, voltando le spalle a quell’uomo orribile incapace di provare sentimenti verso gli altri.
Prima di incamminarmi sentii dei suoi passi e poi di nuovo il silenzio.
“Allora, che diavolo sei passato a fare?”
Curiosità, la sua, o forse semplice paura che la mini conversazione avuta potesse avere un qualche significato nascosto.
Tolsi gli occhiali con una mano, prima di rispondere. Osservai a stento le gocce che avevano bagnato le lenti, e deglutii con fatica.
Cercai di darmi quel contegno strafottente che con lui dovrei sempre avere. Ma non quella volta. La mia voce si rifiutò di uscire alta e sfrontata.
“Ero solo passato a rivedere… chi lo avrebbe visto crescere…”
Una frase insensata per lui, ma dilaniante per me.
Non avrei dovuto, perché rimproveravo sempre Lily per il suo sentimentalismo e i suoi pianti isterici.
Ma come si fa a desistere?
Il dolore che sentii, l’incessante insoddisfazione che mi prese e l’incapacità di poter fare qualcosa.
Io sapevo che era un’eventualità, che forse nemmeno sarebbe accaduta, che li stavo dopotutto proteggendo.
Io speravo che avremmo potuto farcela.
Io lo speravo… soprattutto in quel momento.
“Vi piace farvi riconoscere, no?”
Continuò con frasi insensate, e io avrei solo voluto farlo tacere.
“Se ve ne andate in giro in quel modo tutto il mondo saprà delle vostre stramberie! Fatelo lontano da casa mia, io qui non vi voglio!”
Sta zitto.
“Tu e quella pazza non rovinerete di nuovo la vita di mia moglie! Petunia è sana e normale, lasciatela in pace!”
Sta zitto.
“Spero solo possiate congelare dal freddo sotto quel pezzo di stoffa scura… già immagino quale grande potenza possiate avere se ve ne andate in
giro ancora con… mantelli!”
Il disprezzo che ci mise a pronunciare quella parola fu ciò che mi mancava.
Mi voltai di nuovo a fronteggiare quel suo sguardo fintamente forte e imponente, ma così spaventato da nemmeno rendersene conto.
La mia bacchetta era come guidata da una mano a me estranea, puntata verso il suo petto rigonfio.
Il cappuccio abbandonato all’indietro, e i mie occhi colmi di quel disprezzo che tanto la mia Lily aveva odiato.
Non saprei dire se la sua sorpresa maggiore fu l’arma a lui puntata o semplicemente la mia visione turbata.
O forse l’intera faccenda l’aveva sorpreso.
“Tu dovresti essere colui che lo vedrà crescere?”
 dissi sotto voce, maledicendo il tono troppo tranquillo.
“Preferirei che morisse con me…”, ma lo pensai solamente.
“Di chi parli?” chiese a singhiozzi, interrotto dal tremolio di cui tutto il suo corpo era pervaso.
Il mio braccio si abbassò d’istinto, lentamente.
“Cosa credevo di fare?”, ancora non lo so.
Lui indietreggiò appena, portandosi di nuovo vicino al cancellino basso e cigolante.
Trattenendo la fretta si lanciò in giardino e risalì all’indietro i gradini dell’entrata.
Qualche attimo e mi ritrovai di nuovo una porta scura chiusa a distanza e una luce spenta in quel corridoio soffocante.
Qualche urlo isterico, un rimprovero e poi il silenzio.
Non seppi mai cosa mi prese davvero in quel momento.
Non lo so nemmeno ora, a distanza di così tanto tempo.
Non ero scoppiato in lacrime per sentimentalismo, ne sono convinto,  ma così, come piange un vetro in una stanza che viene riscaldata dopo tanto tempo.
Qualcosa, dentro di me, ribolliva.
Si surriscaldava ed infine esplodeva in quei momenti di irriducibile ansia.
Il mio pianto era qualcosa di complesso, di implacabile e non riconducibile ad un’unica causa.
Era la sconfitta bruciante, l’angoscia crescente, il rammarico del passato, il terrore del futuro, o, più semplicemente, il dolore per una perdita.
Quel pianto poco aveva a che fare con me, o forse era semplicemente tutto me stesso.
Uno sfogo, un finale piacevole per uno spettatore davanti ad un vecchio film.
Il pensiero che anche il peggiore può cambiare, l’espressione che tuttavia alla fine verrà punito lo stesso, in un modo così inumano da non poter essere mostrato.
Ero così forte, ma non abbastanza.
E quel Vernon, quella Petunia, e quel loro bambino… loro avrebbero avuto dopotutto una vita più rosea della nostra.
L’innata idea che di aver sempre sbagliato a giudicarli si fece l’argo in me.
Loro avrebbero vissuto… semplicemente vissuto.
In un modo o nell’altro, l’uno vicino all’altra.
Forse piansi per questo.
Invidia.
E chiedo scusa, perché anche se lo pensai non fui capace nemmeno quella volta di dirlo ad alta voce.
Lo portai con me, fino alla tomba, lo portai con me e basta, sicuro che ammettere la mia debolezza sarebbe stato peggio di ricacciarla infondo all’anima.
Del resto, mi sono sempre illuso di averla avuta sempre e solo per me…

 

 

 

 
Note:
Ci tenevo a ringraziare la giudice del contest, Fabi_Fabi,  per il risultato ottenuto e il commento da lei scritto.
Un terzo posto è comunque Podio!
Grazie infinite anche a chi commenterà la storia perché per una scrittrice è sempre un piacere leggere i pareri altrui, di qualunque tipo siano!

 

   
 
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