Autore: Meli_mao
Personaggi principali: James
Potter,
Vernon Dursley.
Pairing: /
Genere: Introspettivo, sentimentale, drammatico.
Rating: Verde
Avvertimenti: One-shot, What… If?, forse Missing
Moment.
Introduzione: I pensieri di
un James Potter di
fronte all’inevitabile destino di suo figlio. Un momento
diverso, forse mai
vissuto realmente.
“Il mio pianto
era qualcosa di
complesso, di implacabile e non riconducibile ad un’unica
causa.
Era la sconfitta bruciante,
l’angoscia crescente, il rammarico del passato, il terrore
del futuro, o, più
semplicemente, il dolore per una perdita.
Quel pianto poco aveva a che fare
con me, o forse era semplicemente tutto me stesso”.
Buona Lettura.
Note dell'autore: (non obbligatoria)Allora solo una cosa. Dopo molto ripensamento posso affermare che il James che parla è un James
già morto e sepolto. Questo è un ricordo, vissuto e raccontato da lui. Spero vivamente ti possa piacere. Ciao ciao.
Tears of Pain
"Non ero scoppiato in lacrime per sentimentalismo,
ma così, come piange un vetro in una stanza
che viene riscaldata dopo tanto tempo.
(Victor Sklovskij).
Le campane suonarono in lontananza. Mi sembrò insolito il
loro ticchettio nel silenzio impacciato della strada.
Foschia. Era foschia ciò che mi impediva di vedere oltre
pochi metri dal mio naso.
Scrollai le spalle, in un gesto rapido, e mi risistemai il
cappuccio sulla testa, scuotendo appena il mantello nero che sfiorava
il suolo.
Sistemai alcune ciocche di capelli sotto di esso, con un
gesto che sapeva di abitudine, e camminai.
Sapevo esattamente il numero dei passi da fare. Conoscevo
ogni singola piega e buca nell’asfalto, ogni mattonella
scolorita dei muri di
cinta.
Ero andato così spesso in quel luogo negli ultimi
tempi…
L’odore acre della pioggia da poco terminata mi impregnava
quasi le narici, ma non ci badai molto.
Le mani stringevano la stoffa scura a livello del petto,
serrando l’indumento pesante dall’interno,
riparandomi completamente dal
pungente freddo invernale.
Può un luogo portare tanta tristezza nel cuore di una
persona?
Lo sguardo salì inevitabilmente al secondo piano di una di
quella casette costruite in blocco, identica alle vicine, ma
così diversa dal
resto.
Nasconde
molti segreti, quella
piccola casetta di due piani.
Cela l’odio doloroso di una
sorella, il segreto che si impegna a dimenticare, l’invidia
umana provata un
tempo e ancora persistente.
E tante, tante altre
cose.
Appoggiai una mano sul cancellino in ferro, sentendo
dapprima il vento arrivare al mio corpo dalla parte scoperta dal
mantello, poi
il freddo del
metallo sotto le mie dita.
L’occhio mi cadde sul citofono.
Ci
sarà anche il nome di mio
figlio, un giorno, sotto a quel bottone illuminato?
Una
luce si accese all’ingresso, qualcuno borbottava frasi
irritate, qualcun altro urlava isterico.
Infine la porta si aprì, con uno scatto rapido e rumoroso.
Intravidi per qualche secondo il riflesso di un corridoio
stretto e soffocante, poi la visuale fu bloccata da un corpo panciuto e
stretto
in un cappotto pesante.
In una mano teneva un ombrello azzurro, nell’altre un
portafogli marrone.
La porta si richiuse alle sue spalle, mentre lui si stava
allacciando il giaccone, cercando di nascondere il pigiama di lana che
ancora
indossava.
Fece un gradino, dei due che lo separavano dal vialetto,
poi si immobilizzò sul posto, stringendo con vigore la presa
sull’oggetto lungo
e dall’aria minacciosa. Cosa che mi lasciò
impassibile.
“Chi è?”
Burbero, ma la sua voce tremava.
Sorrisi, da sotto il mio mantello caldo, chiedendomi come
ancora quei babbani potessero sopportare il freddo solo con semplici
strati di
stoffa come quelli che indossava lui.
Forse sarebbe stata opportuna una mia parola da subito, ma
la voglia di parlare mi aveva lasciato molto tempo prima.
“Si può sapere che vuole signore?”
Insistette, alzando l’ombrello e puntandolo verso di me.
Le mie labbra si distesero in un altro sorriso ironico, che
lui non poteva vedere.
“Ha le voglie, vero Vernon?” Infine mi decisi,
scrutando
attentamente la sua espressione sorpresa.
Vidi le sue labbra tremare appena, nell’incapacità
di
prendere una decisione.
Forse avrebbe voluto insultarmi, o anche prendermi a colpi
in testa con quell’ “arma”, ma temeva che
non ne sarebbe stato in grado. E non
per mancanza di forza o di voglia, ma perché io avrei potuto
bloccarlo con fin
troppa facilità, senza l’uso della forza bruta, ma
con qualcosa che lui
considerava peggiore : la magia.
Forse fu quel pensiero a convincermi, oppure il fatto che
eravamo arrivati ad
un punto morto.
Il mio mantello mi rendeva fin troppo riconoscibile agli
occhi di un uomo che conosceva il suo significato.
Fu la visione del cappuccio sulla testa e del mio corpo
fasciato in quel tessuto a farlo indugiare.
Lui, del resto, sapeva.
Presi un respiro profondo, chiedendomi che cosa stessi
facendo, ed infine mostrai il mio volto.
Una mano salì a sistemare gli occhiali sul naso, e mi
grattai la testa, quasi… imbarazzato.
Era sollevato, lo capii subito. Non ero dopotutto uno
sconosciuto.
Eppure era fortemente a disagio. Non avrebbe dovuto
sentirsi tranquillo davanti a me, no?
“Che diavolo ci fai qui?!” chiese, decidendosi a
procedere
con passo fermo, senza però abbassare o allentare la presa
attorno
all’ombrello.
“Ero nelle vicinanze!” Una frase scontata, per non
dover
spiegare niente. Ma anche così ripetitiva da non essere
nemmeno presa in
considerazione.
“Voglie!” ritentai, stringendo appena la mano,
ancora
immersa sotto il tessuto, attorno alla bacchetta. Era un gesto
spontaneo, senza
pensiero.
“Vattene!” ordinò con irritazione,
abbassando d’istinto la
voce e lanciando occhiate rapide alle finestre dei vicini.
“Non sono qui per te, né per tua
moglie!” Ammisi, nel vago
tentativo di calmarlo, come se la cosa mi importasse.
“E allora via, sparisci tu e la tua combriccola di
matti!”
dichiarò senza un cambiamento significativo nel tono.
Scossi il capo, emettendo un leggero sbuffo contrariato.
“Quando imparerai?” lo provocai, piegando di lato
la
testa.
“Imparare… che…
cosa…” Pronunciò scandendo con rabbia.
“Che non puoi rispondere così
ad un persona come me”. Spiegai rapido,
lasciando che lui intravedesse quella che avrebbe definito
“Il pezzo di
bastone”, ma che istintivamente lo bloccò di nuovo.
“Se non sei qui per noi allora che diavolo vuoi? Avevamo
stabilito che voi sareste stati fuori dalle nostre vite! Siete una
vergogna,
un…”
“Non sono qui per voi!” il mio tono fu
più basso, quasi
rassegnato.
Mi aveva messo tristezza, questo suo modo di appellarci.
Non che non lo conoscessi, ma ora c’era qualcosa in
più.
Provai rancore, per quell’uomo davanti a me che, senza
degnarsi di spiegazioni, dispensava giudizi negativi contro modi di
vivere
diversi dal suo.
Ora ero io a pensare di odiare il suo stile di vita.
E la cosa buffa fu che non lo pensai perché consideravo la
mia esistenza migliore, ma perché ero semplicemente
invidioso.
Forse il dolore si manifesta in modi diversi a seconda di
chi lo prova. Forse sono le donne a dover piangere, e lo fanno anche
molto
bene.
Forse quel leggero nodo alla gola che sentii non era
assolutamente legato ai miei pensieri.
Forse… o forse…
Mi spostai di lato, lasciandogli la strada libera e
sgombra dalla mia presenza così fastidiosa per lui.
La cosa lo ammutolì.
Mi rinfilai il
cappuccio, voltando le spalle a quell’uomo orribile incapace
di provare
sentimenti verso gli altri.
Prima di incamminarmi sentii dei suoi passi e poi di nuovo
il silenzio.
“Allora, che diavolo sei passato a fare?”
Curiosità, la sua, o forse semplice paura che la mini
conversazione avuta potesse avere un qualche significato nascosto.
Tolsi gli occhiali con una mano, prima di rispondere.
Osservai a stento le gocce che avevano bagnato le lenti, e deglutii con
fatica.
Cercai di darmi quel contegno strafottente che con lui dovrei
sempre avere. Ma non quella volta. La mia voce si rifiutò di
uscire alta e
sfrontata.
“Ero solo passato a rivedere… chi lo avrebbe visto
crescere…”
Una frase insensata per lui, ma dilaniante per me.
Non avrei dovuto, perché rimproveravo sempre Lily per il
suo sentimentalismo e i suoi pianti isterici.
Ma come si fa a desistere?
Il dolore che sentii, l’incessante insoddisfazione che mi
prese e l’incapacità di poter fare qualcosa.
Io sapevo che era un’eventualità, che forse
nemmeno sarebbe
accaduta, che li stavo dopotutto proteggendo.
Io speravo che avremmo potuto farcela.
Io lo speravo… soprattutto in quel momento.
“Vi piace farvi riconoscere, no?”
Continuò con frasi insensate, e io avrei solo voluto farlo
tacere.
“Se ve ne andate in giro in quel modo tutto il mondo
saprà
delle vostre stramberie! Fatelo lontano da casa mia, io qui non vi
voglio!”
Sta zitto.
“Tu e quella pazza non rovinerete di nuovo la vita di mia
moglie! Petunia è sana e normale, lasciatela in
pace!”
Sta zitto.
“Spero solo possiate congelare dal freddo sotto quel pezzo
di stoffa scura… già immagino quale grande
potenza possiate avere se ve ne
andate in
giro ancora con… mantelli!”
Il disprezzo che ci mise a pronunciare quella parola fu
ciò che mi mancava.
Mi voltai di nuovo a fronteggiare quel suo sguardo
fintamente forte e imponente, ma così spaventato da nemmeno
rendersene conto.
La mia bacchetta era come guidata da una mano a me
estranea, puntata verso il suo petto rigonfio.
Il cappuccio abbandonato all’indietro, e i mie occhi colmi
di quel disprezzo che tanto la mia Lily aveva odiato.
Non saprei dire se la sua sorpresa maggiore fu l’arma a
lui puntata o semplicemente la mia visione turbata.
O forse l’intera faccenda l’aveva sorpreso.
“Tu dovresti essere colui che lo vedrà
crescere?”
dissi sotto voce,
maledicendo il tono troppo tranquillo.
“Preferirei che morisse con me…”, ma lo
pensai solamente.
“Di chi parli?” chiese a singhiozzi, interrotto dal
tremolio
di cui tutto il suo corpo era pervaso.
Il mio braccio si abbassò d’istinto, lentamente.
“Cosa credevo di fare?”, ancora non lo so.
Lui indietreggiò appena, portandosi di nuovo vicino al
cancellino basso e cigolante.
Trattenendo la fretta si lanciò in giardino e
risalì
all’indietro i gradini dell’entrata.
Qualche attimo e mi ritrovai di nuovo una porta scura
chiusa a distanza e una luce spenta in quel corridoio soffocante.
Qualche urlo isterico, un rimprovero e poi il silenzio.
Non seppi mai cosa mi prese davvero in quel momento.
Non lo so nemmeno ora, a distanza di così tanto tempo.
Non ero scoppiato in lacrime per sentimentalismo, ne sono
convinto, ma
così, come piange un vetro
in una stanza che viene riscaldata dopo tanto tempo.
Qualcosa, dentro di me, ribolliva.
Si surriscaldava ed infine esplodeva in quei momenti di
irriducibile ansia.
Il mio pianto era qualcosa di complesso, di implacabile e
non riconducibile ad un’unica causa.
Era la sconfitta bruciante, l’angoscia crescente, il
rammarico del passato, il terrore del futuro, o, più
semplicemente, il dolore
per una perdita.
Quel pianto poco aveva a che fare con me, o forse era
semplicemente tutto me stesso.
Uno sfogo, un finale piacevole per uno spettatore davanti
ad un vecchio film.
Il pensiero che anche il peggiore può cambiare,
l’espressione che tuttavia alla fine verrà punito
lo stesso, in un modo così
inumano da non poter essere mostrato.
Ero così forte, ma non abbastanza.
E quel Vernon, quella Petunia, e quel loro bambino… loro
avrebbero avuto dopotutto una vita più rosea della nostra.
L’innata idea che di aver sempre sbagliato a giudicarli si
fece l’argo in me.
Loro avrebbero vissuto… semplicemente vissuto.
In un modo o nell’altro, l’uno vicino
all’altra.
Forse piansi per questo.
Invidia.
E chiedo scusa, perché anche se lo pensai non fui capace
nemmeno quella volta di dirlo ad alta voce.
Lo portai con me, fino alla tomba, lo portai con me e
basta, sicuro che ammettere la mia debolezza sarebbe stato peggio di
ricacciarla infondo all’anima.
Del resto, mi sono sempre illuso di averla avuta sempre e
solo per me…
Note:
Ci tenevo a
ringraziare la giudice
del contest, Fabi_Fabi, per il risultato ottenuto e
il commento da lei
scritto.
Un terzo posto è comunque Podio!
Grazie infinite anche a chi
commenterà la storia perché per una scrittrice
è sempre un piacere leggere i
pareri altrui, di qualunque tipo siano!