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Autore: Haemoglobin    07/08/2010    0 recensioni

Frank Millon si esibì di nuovo nel sorriso da agente e mi informò del compenso, al che cominciai davvero a riflettere su quel posto.
Aveva tutti i vantaggi, tutti: avrei potuto lavorare a casa, sarei stato pagato in modo non esattamente principesco, ma decisamente accettabile. Non credevo che sarei mai riuscito a campare della mia passione, ma sembrava proprio che Frank Millon me ne stesse dando l’opportunità.
L’unica pecca era data dal fatto che nessun lettore, anche se gli fosse piaciuto il libro, avrebbe mai saputo della mia esistenza.
Potevo sopportarlo?
Me lo domandai mentre guardavo il fascio di fogli con le indicazioni sulla trama, il contratto, la penna biro che Frank Millon mi stava porgendo.
Pensai al mio piccolo appartamento a Shephard’s Bush, ai muri che avevano un disperato bisogno di essere ritinteggiati e alle lampadine dei bagni, che pendevano spoglie e tristi dal soffitto. Pensai a Kenichi, che pagava sempre il conto per tutti e due quando andavamo al ristorante, al pub, al cinema. Pensai a Prudence, la mia gatta, che si era rassegnato a mangiare gli avanzi che mi passava il macellaio, perché le crocchette per gatti, anche quelle più economiche, a fine mese facevano un bel po’ di soldi. Pensai a tutte queste cose e presi in mano la penna che mi porgeva Frank Millon.
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ho deciso di cominciare questa fanfic nonostante ne abbia già una in corso nella sezione di D.Gray-Man.
I miei precedenti lettori (se ce ne sono) potranno notare diverse rassomiglianze tra il personaggio di Jack e quello di Julien, che è stato creato dalla mia mente insieme al primo capitolo solo ieri sera, in un colpo. Julien, tuttavia, mi sembra una versione più matura di Jack, sia per quanto riguarda il carattere che per quanto riguarda le relazioni sentimentali. Il fatto che siano entrambi omosessuali è, ovviamente, da imputare solo alla forza dell’abitudine: tra Quees as Folk, che seguo da diversi anni, Priscilla, che ho visto per la prima volta a 7 anni, Milk, che ho insistito per vedere al cinema appena era uscito, e aggiungendoci anche amici, due zii e tre cugini omosessuali non poteva che venir fuori questo.
Il titolo, Plasticine , è una canzone dei Placebo.





Capitolo 1





Non so bene come introdurre la faccenda.
Le introduzioni dei libri sono, a mio modesto parere, le tipiche cose noiose a prescindere; lo so bene, perché di libri ne leggo molti, e ne scrivo pure.
Mi chiamo Julien Makris, ma nessuno dei miei lettori mi conosce con questo nome… Anzi, a dire il vero, nessuno dei miei lettori mi conosce, e basta.
Ho iniziato a lavorare per la GloryMark, una casa editrice misconosciuta con sede a Londra, perché un agente mi aveva contattato dopo aver letto un racconto che la rivista Frisk mi aveva pubblicato. Gli era molto piaciuto, mi spiegò l’agente, gli piaceva il linguaggio chiaro e lo stile molto “parlato”-così disse-, e aveva dei progetti su di me… Sempre che, ovviamente, accettassi il loro invito a pranzo.
Venne fuori che volevano farmi scrivere una serie sotto falso nome.
- Prego?
Avevo domandato sbattendo le palpebre, con una forchettata di calamari bloccata a mezz’aria. L’agente, Frank Millon, un uomo di colore sulla quarantina, alto un metro e ottanta e con le spalle larghe il doppio delle mie, si era espresso in un’educata e contenuta risata, e mi aveva messo davanti una cartellina; io avevo messo da parte i calamari, che per quando deliziosi non avevano purtroppo nessun potere che influenzasse le mie entrate economiche mensili, avevo aperto la cartelletta ed avevo letto.
La serie che volevano scrivere era tratta da un film che era andato di grandissima moda negli anni ’90, e che aveva creato un numero inimmaginabile di sequel, prequel, gadget, e chi più ne ha più ne metta.
Dovevo firmare con il nome di Grace Madder, che era stata la sceneggiatrice originale, lessi infine. Inarcai un sopracciglio, alzai il viso e fissai i miei occhi – azzurri- su quelli di Frank Millon –deludentemente castani- con uno sguardo di rimprovero.
- Uomini e donne hanno un modo diverso di scrivere e di affrontare le cose.
Gli feci notare, chiudendo la cartelletta e spingendola di nuovo verso di lui con la punta di indice, medio ed anulare.
- Se ne potrebbero accorgere.
Continuai, sapendo che era una stronzata: i lettori, soprattutto i lettori di romanzetti del genere (romanzetti da due soldi, da supermercato) se ne sbattevano altamente dell’autore. Tuttavia, a questa mia replica, Frank Millon aveva fatto un sorrisetto contrito e si era agitato sulla sedia.
-Ovviamente ci avevamo pensato anche noi. Abbiamo analizzato gli scritti di diversi scrittori emergenti, pubblicati dalle riviste più svariate, e alla fine io e i miei colleghi ne abbiamo selezionato una rosa da cui, alla fine, è stato selezionato il suo. Abbiamo guardato il suo CV, signor Makris, e dato che Grace Madder è decisamente femmina, e tutti quanti gli autori selezionati erano maschi, abbiamo deciso per il… per la…
- Per quello gay.
Conclusi.
- Non credevo che si notasse da una foto.
Aggiunsi, impensierito, mentre Frank Millon si agitava sulla sua sedia
- Non volevo assolutamente offenderla, signor Makris, ma…
- Essere gay è un’offesa?
- No, assolutamente!
- Volevo ben vedere.
Frank Millon si esibì di nuovo nel sorriso da agente e mi informò del compenso, al che cominciai davvero a riflettere su quel posto.
Aveva tutti i vantaggi, tutti: avrei potuto lavorare a casa, sarei stato pagato in modo non esattamente principesco, ma decisamente accettabile. Non credevo che sarei mai riuscito a campare della mia passione, ma sembrava proprio che Frank Millon me ne stesse dando l’opportunità.
L’unica pecca era data dal fatto che nessun lettore, anche se gli fosse piaciuto il libro, avrebbe mai saputo della mia esistenza.
Potevo sopportarlo?
Me lo domandai mentre guardavo il fascio di fogli con le indicazioni sulla trama, il contratto, la penna biro che Frank Millon mi stava porgendo.
Pensai al mio piccolo appartamento a Shephard’s Bush, ai muri che avevano un disperato bisogno di essere ritinteggiati e alle lampadine dei bagni, che pendevano spoglie e tristi dal soffitto. Pensai a Kenichi, che pagava sempre il conto per tutti e due quando andavamo al ristorante, al pub, al cinema. Pensai a Prudence, la mia gatta, che si era rassegnato a mangiare gli avanzi che mi passava il macellaio, perché le crocchette per gatti, anche quelle più economiche, a fine mese facevano un bel po’ di soldi. Pensai a tutte queste cose e presi in mano la penna che mi porgeva Frank Millon.
Una volta firmato, fui congedato e mollato davanti a casa, con in mano il fascio di fogli che avevo già adocchiato al ristorante: c’era scritta la trama a grandi linee, inizio, svolgimento e finale, con le indicazioni sugli avvenimenti. Come passare da un punto all’altro della trama, quello era affar mio.



- Se può consolarti.
Mi disse Kenichi quella sera a cena, dopo che gli ebbi raccontato tutta la mia odissea con Frank Millon, bevendo la birra direttamente dalla bottiglietta
- Non credo che abbia capito che sei gay dalla foto. Penso dipenda più che altro dalla casella del coniuge, che tu hai compilato nonostante io ti dicessi di no.
- Ma tu sei mio marito!
Protestai, alzando la mano sinistra per mostrargli l’anello
- Vedi?
Lui annuì, condiscendente
- Certo che lo sono. Legalmente, però, lo sono solo in Spagna, in Olanda e in Canada. Qui lo sapevi benissimo che ti avrebbe dato problemi!
Strinsi le labbra, rifiutandomi di annuire.
Ero ubriaco fradicio per non so quale motivo, e avevo compilato il mio CV in preda ai vapori dell’alcool. La casella dedicata al coniuge l’avevo compilata di nascosto, quando Kenichi non guardava, e probabilmente l’avevo fatto solo perché lui mi aveva detto di non farlo.
Mi rifiutai di dargliela vinta, e bevvi anch’io un sorso di birra dalla sua bottiglietta
- Comunque non mi sembra che questa faccenda mi abbia dato problemi, infatti hanno scelto me. Quando si accorgeranno che essere gay non vuol dire essere una donna, allora a quel punto sarà un problema loro.
Conclusi. Kenichi fece una smorfia guardando il tavolo, ma non disse nulla.
- Domani mattina per prima cosa vado in libreria e leggo i libri che hanno già scritto, così mi faccio un’idea e posso scrivere per bene quello che vogliono.
Promisi.



Il giorno dopo, quindi, ero lì, nella libreria più grande di Londra, cercando di non fare smorfie mentre leggevo.
Che schifo. Schifo, schifo, schifo, schifo.
Avevano preso altri autori prima di me, e avevano avuto entrambi contratti da due anni, per cui avevo circa sedici libri da leggere. Ne avevo sfogliati cinque, e la mia impressione non era cambiata.
- Cristo santo, è pure peggio di Twilight.
Dissi tra me e me, al che una ragazza al mio fianco mi scoccò un’occhiataccia e se ne andò.
- E’ peggio di Twilight!
Ripetei al mio amico Chazz, sventolando il libro con la punta delle dita.
Lui si strinse nelle spalle e mi si avvicinò; accanto a me doveva fare una gran bella figura: mi superava in altezza di almeno quindici centimentri, come Kenichi, ma a differenza di quest’ultimo, Chazz aveva una muscolatura ben sviluppata, dato che suonava la batteria da quando aveva dieci anni.
- Non devi mica leggere per forza quelli vecchi, devi solo scrivere quelli nuovi.
Mi fece notare intelligentemente ridandomi il libro indietro. Io scossi la testa e lo appoggiai sullo scaffale
- Mi rifiuto di comprarli, mi rifiuto.
- Non te l’ha chiesto nessuno.
- Per fortuna! Senti qua: “Charity schiuse le sue tumide labbra color rosso vermiglio, sapendo che lui avrebbe ceduto al desiderio di avvicinarvisi, e nel mentre lui l’avviluppava in un abbraccio, stringendola con le sue braccia muscolose, seppe che erano fatti per…”
Abbandonai il libro sullo scaffale dopo averlo chiuso violentemente, e incrociai le braccia guardando spaventato la libreria
- Che roba è?
Gemetti.
- Non saprei scrivere cose del genere! Non ho mai avuto le labbra tumide, e nessuno…
- Nessuno ti ha mai abbracciato?
- No! Kenichi non mi ha mai abbracciato con le sue “braccia muscolose”!
Ho avuto solo abbracci da braccia magre, io!
Chazz rimase in silenzio a pensare per una manciata di secondi, poi mi guardò ed aprì le braccia
- Vuoi un abbraccio?
Mi domandò. Io scossi la testa, pallido e preoccupato.
- Non importa.
Dissi, avviandomi fuori dalla libreria, seguito solo dal suo sguardo preoccupato.
Non so come gestire la faccenda, conclusi mentre ero seduto in metropolitana ed aspettavo la mia fermata.
La domanda che la mia mente continuava a pormi era un’altra, però.
Perché lo fai?
Continuai a respingere quella domanda, a pensare ad altro, ma poi dovetti arrendermi e rifletterci.
Le ragioni per cui avevo accettato erano diverse.
Perché volevo scrivere.
Perché avrei avuto delle entrate fisse.
Perché ero stanco di non fare nulla tutto il giorno, salvo lavorare la notte come cameriere in un pub.
Perché avevo paura.
Ma la mia mente ad un certo punto sfornò un’altra risposta, ed il cuore mi suggerì che era quella giusta.
Volevo far vedere che valevo qualcosa; non importava partire dal basso, realizzai: tra lo scrivere i romanzi di Grace Madder ed arrivare a scrivere un romanzo mio c’era un divario molto, molto sottile, e sapevo che, con il tempo, avrei potuto superare quel divario.
Scrivere un libro vero, avere dei lettori, erano cose che mi interessavano solo marginalmente.
Era la libertà ad interessarmi: avere la libertà di vivere della propria passione, del proprio talento.
Ancora più importante, avere la libertà di essere finalmente una persona, e non una parodia di una persona.
Cosa vedeva la gente quando mi vedeva? Un ragazzo di venticinque anni alto un metro e uno sputo (1.65, a dirla tutta), un viso dagli zigomi affilati e dagli occhi grandi, un soldo di cacio pelle e ossa con i capelli lisci e ramati tagliati in un caschetto sfilato che mi sfiorava metà del collo. Un frocio senza tette, a voler ascoltare i simpatici signori che, qualche mese prima, mentre camminavo verso le fermata della metropolitana, mi avevano ricoperto di insulti.
Io, che sarò pure permaloso ma non sono per niente stupido, avevo incassato la testa tra le spalle ed avevo continuato a camminare, fingendo di non badare agli insulti ed alle grida di scherno che mi seguivano.
Da quel giorno avevo deciso di calcarmi una riga di eyeliner sugli occhi ogni giorno, prima di uscire; stupidità? Provocazione? Vendetta? Non lo so.
So solo che, da quando la riga di eyeliner è sui miei occhi, cammino in un certo senso più tranquillo.
Kenichi, che con i trucchi non aveva nulla a che fare, mi aveva regalato un eyeliner glitterato, dicendomi che se volevo fare Priscilla la dovevo fare bene.
Avevo riso, lo avevo baciato dietro l’orecchio, avevo messo via l’eyeliner e non l’avevo mai usato; forse, quando un altro gruppo di omofobi ubriachi mi urlerà dietro o mi aggredirà, mi deciderò a passare a quello, più che all’eyeliner nero.



-Stasera cubano?
Mi domandò Kenichi, aprendo il coperchio della scatola che tenevamo sopra il frigo, dentro la quale erano buttati alla rinfusa i volantini dei ristoranti che facevano consegne a domicilio.
- O cinese?
Continuò lui, frugando tra i volantini. Tirò fuori con aria trionfante quello del ristorante giapponese e me lo sventolò speranzoso sotto al naso. Io annuii con un sorriso fiacco, e lui prese il telefono per ordinare.
- Tu cosa prendi?
Mi domandò, con il telefono incastrato tra il collo e la spalla. Kenichi era delizioso, non saprei in che altro modo descriverlo, almeno nell’aspetto: sua madre era giapponese e suo padre inglese, ma tutti i tratti somatici li aveva ereditati dalla madre; occhi a mandorla dall’espressione dolce, naso piccolo, capelli neri come il petrolio che gli toccavano il collo. Aveva la pelle chiara e un fisico asciutto, ed era alto, come ho già detto, almeno quindici centimetri più di me. Lo avevo conosciuto tre anni prima, ed era stata una storia che ci aveva letteralmente risucchiati entrambi. Non mi era mai capitato nulla del genere, e sì che di storie ne avevo avute… Ma con nessuno avvertivo quel senso di libertà, quella compatibilità sia fisica che emotiva, quel capire che, per la primissima volta, potevo essere veramente me stesso con qualcuno. E che, perlopiù, il vero me stesso gli piaceva.
Dire che lo amavo perché era dolce, gentile, divertente o altri aggettivi non servirebbe, dato che lo amavo perché era lui. Il carattere di una persona non si può descrivere nella sua completezza, dato che gli esseri umani sono come diamanti dalla mille sfaccettature.
Dopo un anno che stavamo insieme era venuto a vivere a casa mia, e l’anno dopo, durante una vacanza estiva in Spagna, ci eravamo sposati con rito civile.
Non era una cosa che avevamo organizzato, ma, almeno per me, era stata una buona cosa: anche il semplice e sottile anello d’argento che portavo all’anulare della mano destra aveva contribuito a mantenermi calmo durante la jam session di insulti.
- Jul.
Mi chiamò lui. Io sbattei le palpebre, risvegliandomi dal torpore dei miei pensieri
- Julien, Jul, cosa prendi?
Ripetè Kenichi, guardandomi con le sopracciglia aggrottate
- Il solito.
Gli risposi, e mentre lui dettava l’ordine al telefono mi compiacei nel vedere che, per l’ennesima volta, anche se ogni volta che mi chiedeva cosa volevo prendere io rispondevo “il solito”, lui me lo chiedeva sempre.
---
Mentre mangiavamo, raccontai a Kenichi un sunto della mia giornata in libreria; cercavo sempre di tenermi sul vago quando lui mi chiedeva che cosa avevo fatto in giornata, visto che mi vergognavo.
E’ vero, tre notti a settimana le passavo a servire bibite e patatine in un pub di Camden Town, ma era lui che lavorava come uno schiavo dalla mattina alle otto fino alla sera alle sei per una ditta di pulizie.
Una volta gli avevo chiesto di raccontarmi una sua giornata, tanto per cambiare, e lui aveva mandato giù il boccone che aveva in bocca e mi aveva fulminato con lo sguardo
- Se volessi ricordarmi che oggi ho passato le due ore dopo pranzo a scrostare le pareti di un bagno dell’albergo in cui si è tenuto un ballo studentesco, credimi, te l’avrei raccontato appena entrato. Non ti viene in mente che forse non voglio parlare del mio lavoro?
Dopo quella filippica, avevo smesso di chiedergli come aveva passato la giornata, al massimo mi arrischiavo con un “Com’è andata oggi?”. Kenichi era un musicista molto dotato, e non lo dico perché sono io. E’ bravo. Siamo entrambi estimatori del rock, ma il musicista della coppia è lui.
Sfortunatamente, l’arte non ha mai posto nel mondo del lavoro, per cui si è accontentato dell’incarico che gli hanno passato. Il fatto che lo abbia fatto solo perché era venuto a vivere con me e si era reso conto che le nostre entrate erano ridicolmente basse mi fa sentire ancora più in colpa. Tuttavia, da quando lui lavora per la ditta di pulizie (ovvero da quando mi ha proposto di fare un conto in comune) siamo riusciti a mettere via dei risparmi.
Ovvio, noi li chiamiamo risparmi, per la gente normale sarebbe comunque una miseria… Ma che diamine, chi si accontenta gode.
- Dovrai scrivere di labbra tumide e abbracci muscolosi… Non mi pare che tu abbia esperienza in proposito.
Mi fece notare Kenichi, masticando sashimi di tonno e strappandomi dai miei pensieri. Raddrizzai la schiena e gli rubai una bacchettata di riso
- Lo dici tu. Per avere le labbra tumide basta inumidirsele, giusto? Quindi si può fare. Per quanto riguarda gli abbracci muscolosi… Scrosti con più energia quelle scale, signor Reed. Del resto mi occupo io.
- Và a quel paese, mezza calzetta. Tu stai qui a ticchettare sulla tastiera mentre io mi spezzo la schiena sui pavimenti altrui…Vaffanculo.
Mi rimbeccò con tono affabile, stiracchiandosi e sbadigliando.
- Dì un po’, a cos’è che pensi da tutta la sera? Sei in un altro pianeta, e spero vivamente che non sia il pianeta di quella con le labbra tumide, Charity…
- Charity Meadows.
Conclusi per lui, poi scossi la testa
- No, non pensavo a quello. Pensavo alla Spagna. Ti ricordi come si sono arrabbiati i nostri genitori?
- Almeno tua madre e tuo padre si sono arrabbiati per la ragione giusta.
Mi disse lui
- Mio padre si è arrabbiato perché mi ero sposato con un frocio del cazzo. I tuoi si erano arrabbiati perché non avevano potuto partecipare.
- Anche tua madre.
Gli ricordai, al che un sorriso gli increspò le labbra. Sua madre mi aveva adorato dal primo istante in cui mi aveva visto, e sin dalla prima visita a casa dei genitori di Kenichi non aveva smesso un attimo di vezzeggiarmi e di accarezzarmii capelli. Il colore la affascinava, mi aveva spiegato ridendo quando le avevo proposto di tagliermene una ciocca, così da potersela tenere in caso di nostalgia.
Con suo padre la faccenda era stata decisamente diversa: quando ero arrivato si era limitato a chiudersi nel suo studio, e aveva lavorato tutto il giorno, da quando eravamo arrivati a quando ce n’eravamo andati. Meglio così; per quei pochi minuti in cui era rimasto con noi, avevo sentito un gelo dilagare e penetrarmi fino alle ossa.
Dirgli che una volta io e Kenichi avevamo fatto sesso nel suo studio non era neanche da prendere in considerazione.
I miei genitori non avevano dato problemi, esattamente come mi aspettavo: mio padre è sempre stato un po’ sostenuto, ma suppongo che un uomo che si rifiuta di mettersi una supposta anche con 40 di febbre non possa capire le dinamiche della relazione omosessuale.
Kenichi mi poggiò una mano sulla spalla mentre mi passava accanto per andare in camera, al che guardai l’orologio: le undici e mezzo.
- Forza, Julien.
Mi chiamò Kenichi dal corridoio, togliendosi la t-shirt che usava di solito per dormire
- Let’s spend the night together!
Io annuii, mi alzai e gli saltai in groppa.
- Confusion is sex.
Cantai, passandogli le braccia attorno al collo per reggermi.
Lanciai un’ultima occhiata al mobile dell’ingresso, sopra al quale avevo mollato la cartelletta con la trama del libro.
Il giorno dopo, a colazione, ci sarebbe stata Charity Maedows ad aspettarmi, e secondo quanto avevo letto oggi in libreria, non sarebbe stata una compagnia gradita.






Note
Let’s spend the night together: canzone dei Rolling Stones, ultrafamosa.
Confusion is Sex: canzone dei Sonic Youth, non così ultrafamosa.



Volevo che il titolo parlasse del personaggio. Plasticines (plastilina), nella mia mente esprime in modo abbastanza verosimile quello che è Julien al momento: una persona in un certo senso vera, che deve modellarsi attorno alle pretese altrui. Perché ha dei doveri verso la persona che ama, perché se si vuole arrivare alla vetta bisogna fare dei sacrifici e dei compromessi, e si sa.
Per lui la vetta non è il successo, credo si sia capito; Julien mi è venuto in mente come antitesi dei personaggi che devono sempre avere ragione, che sono incapaci di fare compromessi, e che alla fine devono (e riescono) sempre averla vinta. Alla Anita Blake, per intenderci.
Spero che questo capitolo vi piaccia, e spero che mi diciate cosa devo migliorare nel mio modo di scrivere, a vostro parere.
Spero che perderete quei due minuti che servono per scrivere una recensione, belli miei :D perché a me piace molto leggerle, anche se non sono fondamentali.
  
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