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Autore: crimsontriforce    09/08/2010    2 recensioni
I gatti sono sensibili a tre C: cibo, coccole e costrutti di pyreflies.
Un primo indizio, giunto troppo presto per poterlo cogliere.
Genere: Fluff, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Auron, Braska, Jecht
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Dieci anni fa, la stessa strada'
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Nata per due prompt: “gatti; panchina” (contest Neko Lovers su EFP) e “Jecht, empatia animale” (Fanon Fest di Fanworld/True Colors). Poi le mie fanfic su FFX hanno la tendenza ad allungarsi nelle premesse, fino ad arrivare regolarmente a qualcosa come “In principio erano le grandi civiltà machina di Zanarkand e Bevelle...”, e m'è un po' scappata la mano con le prime, uhm, 1400 parole XD
Questa fanfic partecipa anche al contest Six Months [Multifandom & Original contest] indetto da Shippy_19 con le parole Piazza e Sole.











Pescare un gatto, mancare l'ovvio (e altri esercizi da evocatore)







C'è una terrazza segreta a Bevelle, lontana dalla confusione del ponte grande con i suoi quartieri affollati. Una di tante. Si apre a picco su uno specchio d'acqua appena interno alle grandi mura, una pozza dove si riuniscono gli scarichi dei canali e delle cascatelle del quartiere est. L'arco che la congiungeva alla strada è crollato da decenni, durante il penultimo attacco di Sin; nessuno si è mai occupato di ricostruirlo, così la si raggiunge solo seguendo la calle che si snoda dal tempio fino a un certo albero e, da lì, svoltando a destra e addentrandosi brevemente, attraverso una grata scardinata, in un sistema di gallerie in disuso. Quando Braska era un novizio, i suoi compagni erano soliti usare la terrazza come covo e campo di battaglia, per far pratica di magia al riparo dagli sguardi severi dei loro insegnanti e risparmiando così alla popolazione eventuali tiri maldestri di quei duelli poco regolamentari.
Braska si sorprese di ricordare ancora con chiarezza la strada, dopo tanti anni – alle sue spalle, il giovane Auron fissava stranito il suo Lord, che, nell'immagine che si era costruito negli anni, si dimostrava al di sopra di ogni dimostrazione adolescenziale di goliardia passata, presente e futura.
“Spero che i giovani d'oggi abbiano cambiato nascondiglio”, commentò Braska, rasserenato dall'aver sfiorato con la punta dell'asta una ragnatela ragguardevole. Non pareva una via trafficata. A dispetto delle aspettative del suo guardiano, si destreggiava in quel cunicolo come se non avesse fatto altro dai tempi dell'apprendistato. “Non vorrei disturbarli con questa mia sciocca preoccupazione, ma neanche vorrei avventurarmi fuori dalle mura per del semplice esercizio.”
Dietro di lui, il ragazzo annuì vigorosamente: in quei giorni Sin era inquieto e Auron stesso non sarebbe stato da meno, se si fossero dovuti avventurare fuori dallo spazio protetto della capitale per quello che gli sembrava poco più che un capriccio. Per loro fortuna, comunque, quando sbucarono di nuovo all'aria aperta il cielo era limpido e la piazzetta deserta. La vecchia statua di Sir Dijahn era erosa ma ancora in piedi, con sorpresa di Braska, e così avevano resistito le panchine che davano le spalle alle mura e alla balconata sotto cui si stendeva l'acqua. Dei grossi vasi, invece, si erano uniti allo strato di macerie che da anni nessuno aveva ripulito.
“Eccellente!” Braska si voltò verso Auron con un sorriso e l'accenno di un inchino. “Ora potremo accertarci che non ci ucciderò per errore appena metteremo piede sulla via.”
“Mi pare corretto.” Auron non riuscì a frenare la lingua. “Limitiamo le perdite al tempo e al luogo previsti.”
Braska tacque. Lo precedette su una panchina, invitandolo con un gesto a sedersi al suo fianco.
“Non devi seguirmi, sai”, gli ricordò.
“D'altra parte, non posso non farlo”, ribatté Auron, seduto con la schiena curva e i gomiti poggiati sulle ginocchia. “Ergo.”
Braska al contrario restava dritto come un fuso, la testa rivolta verso l'alto e i capelli castani che ricadevano oltre lo schienale. Sospirò. Teneva l'asta puntata per terra a un lato della panchina; con l'altra mano gesticolò brevemente e Auron sentì l'aria intorno al suo corpo farsi d'improvviso più densa.
“Siamo già passati alla prima prova?”, chiese, sentendosi ignorato.
“Sì.”
“E come faccio a sapere se ha funzionato?”
“Così.”
Senza distogliere lo sguardo fisso al cielo, Braska gli allungò un sonoro pizzicotto sulla spalla nuda.
“Fa male?”
Auron spalancò gli occhi. Prima di tutto per semplice sorpresa. Secondo perché, in effetti, “No, l'ho sentito a malapena.”
“Allora ha funzionato”, annuì. “E perdonami, ma era l'unica risposta che ti meritavi”, aggiunse giocoso.
“Mio Lord, io non...”

Quel giorno si ritirarono presto. L'umore non era dei migliori, Braska sentiva di doversi sdebitare per la faccenda del pizzicotto e comunque lamentava di essere stanco: almeno, gli sembrava di vedere con la coda dell'occhio un punto bianco che si muoveva ogni volta che si concentrava su una magia e la stanchezza, si sa, fa di questi scherzi.

L'indomani, quel punto bianco li aspettava seduto sulla panchina centrale, al sole, intento a leccarsi il pelo.
Miagolò un saluto. Braska scoppiò a ridere. Fece qualche passo misurato in avanti, si chinò alla sua altezza e allungò una mano. Il gatto, che era un giovane randagio bianco come il latte, lo guardò sdegnoso. Si alzò senza fretta e andò ad acciambellarsi sotto un'altra panchina, dove il sole obliquo del mattino aveva lasciato una chiazza di luce.
Un tentativo simile da parte di Auron lo fece guizzare dietro al basamento della statua.
Ah beh. Non erano lì per carezzar gatti.
Eppure, quando Braska tornò a concentrarsi sulle magie che non aveva usato da anni, per essere sicuro dei limiti delle proprie capacità e far sì che anche Auron sapesse su cosa avrebbero potuto contare in pellegrinaggio, la macchia bianca riapparve. Corse pazze da un nascondiglio all'altro per avvicinarsi, sfiorando il limite di un qualche perimetro di sicurezza attorno a quegli strani umani e poi fuga all'infuori.
Ora che Braska sapeva cosa cercare, che Yevon lo perdonasse (o almeno aggiungesse una riga alla lista di cose da perdonargli prima o poi), lo seguiva con lo sguardo anche a discapito della concentrazione richiesta dall'atto magico. Quando un'energia curativa iniziò a spandersi ovunque fuorché dove richiesto, però, Auron decise che era tempo di intervenire: staccò un pezzo di carne dal suo pranzo al sacco e la gettò per terra davanti a loro. Il gatto considerò le sue opzioni, trotterellò fino alla carne, la prese in bocca e si allontanò a coda alta verso la protezione di un vaso spezzato, senza concedere un briciolo di confidenza ai due.
Braska era pensieroso.
“Solo quando inizio una magia, sì?”, ragionò a voce alta.
“Mio Lord?”
“Proviamo così.”

Si sedette in punta della panchina, imbracciando l'asta e abbassandola di punta come a infornare il pane. Si concentrò su una vecchia pratica di meditazione, fissando la gemma alla sua estremità, immergendosi fra i legami fondanti di questo mondo, scindendoli al livello più elementare fino a trovare una singola luce fatua e spingendola dalle sue mani per tutta la lunghezza del manico fino a liberarla nell'aria sopra le decorazioni dorate. Prima che veleggiasse trasportata dalla brezza, il gatto ci si era avventato, saltando per intero il puntale a ventaglio.
Qualche tentativo dopo, si era tranquillizzato abbastanza da restare, fra una lucina e l'altra, a dare zampate curiose alle nappe rosse del puntale. Una mano alla volta, come un pescatore paziente, Braska ritirava l'asta, fino al momento in cui poté allungare una mano infusa di energia e coronare i suoi sforzi con una grattatina fra le orecchie.
“Saremo i pescatori di gatti migliori di tutta Spira”, sospirò Auron mentre lo svergognato si dava a rumorose fusa. “Sin ne sarà colpito.”
“In verità è un ottimo esercizio di concentrazione”, rispose Braska, sorpreso, scoprendosi esausto da quel lavoro di fino. “Potrebbero introdurli a San Bevelle per motivare gli studenti recalcitranti.”
“E la proposta non ha nulla a che fare col fatto che un miagolio incessante coprirebbe la voce di certi sacerdoti?”
“Può darsi, mio buon Auron, può darsi”, rise.

Il gatto divenne così un compagno costante di quei giorni. Saltava, chiamava, seguiva i flussi di luci fatue che scorrevano da e attorno ai due. Sembrò sapere in anticipo quando fu giunto il momento di richiamare il sogno di Lord Bahamut: seduto impettito sulla solita panchina, quasi fosse a teatro, dimenava la coda pieno di aspettativa.
Braska salutò il suo pubblico. Per qualunque altro evocatore, un simile evento si sarebbe svolto in pubblico, di fronte al tempio, con i massimi onori. Lui dovette accontentarsi di una piazza in rovina con un gatto – e Auron, che reggeva in braccio la piccola Yuna. Non si lamentava.

L'atto dell'evocazione richiese la sua completa attenzione, fisica e spirituale: doveva trovare l'equilibrio fra se stesso e l'anima millenaria che lo guidava, ascoltare la sua voce, i suoi passi, offrirle il suo sogno e riceverne in cambio uno che andava oltre l'immaginazione più ardita, farlo suo e dargli forma dall'aria fina. Crederci, fino in fondo, con ogni fibra del suo essere.
Riprese i sensi in ginocchio, spossato, sorretto da sua figlia e dal suo guardiano. Fu solo felice di farsi aiutare a rialzarsi. Davanti a loro, l'Eone riluceva sotto il sole di mezzogiorno, dispiegando le sue spesse ali variopinte mentre la ruota sacra sulla sua schiena girava solenne. Attendeva paziente il suo evocatore.
Su un suo artiglio, una palla bianca di pelo e fusa.
“Ruffiano”, commentò Auron sottovoce. Yuna gli pestò un piede.

Quando Braska ebbe ringraziato e congedato Bahamut, il gatto non si allontanò dallo spazio che era stato occupato da quel prodigio, studiando e giocando con tracce residue note solo a lui. Era ancora lì quando se ne andarono.

*


Tempo di partenza, tempo di addii.
Jecht aveva seguito i due in un lungo e tortuoso giro per le strade della capitale senza troppo preoccuparsi di chi o cosa stessero andando a salutare di volta in volta. Buona occasione per fare del turismo, per come la vedeva lui, e per sgranchirsi le gambe. Ma non poté fare a meno di chiedersi dove li stesse portando Braska, giù per quel cunicolo. Aveva stretto amicizia anche con un topo di fogna?
Anche una volta usciti, non c'era anima viva in vista. L'evocatore si sedette sulla panchina e per l'ultima volta sospinse le luci fatue disperse nella pietra e nell'atmosfera fino alla punta delle sue dita, sperando di richiamare il suo amico. I guardiani restarono in piedi alle sue spalle, appoggiati al parapetto.
“Cosa...?”, chiese Jecht.
“Gatto.”
“Mi prendi in giro?”
“Mai bene quanto lui con noi.”
E il gatto arrivò. Di corsa, in linea retta, senza traccia della timidezza dei primi tempi. Saltò in braccio a Braska e da lì, senza fermarsi, sulla sua testa, sullo schienale della panchina e con uno slancio atterrò sulla spalla di Jecht, dove si accomodò guardandosi intorno soddisfatto, con un fremito ai baffi.
“È così che vi prende in giro, lui?”, chiese Jecht. “Sciò, sciò!”
“Non proprio”, rispose Auron.
Fusa, rispose il gatto, giocando con la mano con cui il blitzer tentava di scacciarlo e con i lacci della sua bandana. Aveva trovato la sua postazione e non ci sarebbe stato modo di farlo scendere.

Jecht si sentiva studiato. Non solo dai due, prevedibilmente incuriositi dalla piega degli eventi. Era quell'altro, il batuffolo che continuava imperterrito a strusciarsi sul suo orecchio. Aveva un piglio inquisitore, cercava qualcosa in lui, ma Jecht era sicuro di non avere cibo con sé.
“Ah, gatti. Non c'era un gatto in tutta Zanarkand che sapesse resistermi!”, improvvisò flettendo i muscoli, così, per rompere il silenzio.
“Già, Zanarkand”, annuì Braska sovrappensiero. Tornò a concentrarsi su Jecht e si aprì in un sorriso. “Chissà cosa gli stai raccontando. Chissà cosa sente in te, impossibile uomo di Zanarkand... chissà.”











   
 
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