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Autore: Shichan    11/08/2010    3 recensioni
[Kubota centric]
Una volta, svegliandosi, Kubota si è ritrovato a guardare il soffitto.
Ha continuato a fissarlo, articolando come unici pensieri “è bianco” e “continua ad essere bianco”.

[Rating giallo per accenni alle tematiche base del manga]
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Una volta, svegliandosi, Kubota si è ritrovato a guardare il soffitto

Disclaimer: i personaggi sono copyright della sensei Minekura.

Note: un giorno capirò perché sono simil Tokito e mi faccio del male con i pov di Kubota (che tra l’altro è troppo complicato per i miei poveri neuroni) XD

Ringraziamenti: a Yoko891 per aver betato.

 

 

 

Una volta, svegliandosi, Kubota si è ritrovato a guardare il soffitto.

Ha continuato a fissarlo, articolando come unici pensieri “è bianco” e “continua ad essere bianco”.

Ad un certo punto si è voltato verso il comodino, ha allungato la mano e ha preso il pacchetto di sigarette lasciato aperto la sera prima. Ha portato una stecca alle labbra, l’ha accesa e ha buttato fuori la prima boccata di fumo. Tenendola tra le dita con presa non troppo forte, si è ritrovato a far caso al fatto che se avesse stretto troppo l’avrebbe spezzata a metà, mentre se avesse allentato troppo la presa, la sigaretta sarebbe scivolata cadendogli addosso.

Poi l’ha portata alle labbra ancora, e ancora, e poi di nuovo; aspirata, sapore del fumo, espirare, nuvola grigia – e un po’ di vita che scivola via, avrebbe detto una persona particolarmente poetica.

Qualcuno poteva stupirsi di quel flusso di pensieri inutili, ma fintanto che Kubota li teneva per sé era tutto sommato ok.

Guardava il soffitto, fumava e si diceva “la spezzo? La lascio cadere? O la tengo ferma?”, come era successo altre volte.

Alla fine, impiegava troppo tempo a pensarci – o a non pensarci – e la spegneva completamente consumata nel posacenere.

Anche quella volta, Kubota ha spento la sigaretta ormai finita ed è tornato a guardare il soffitto; è rimasto in silenzio nella stessa posizione, ripetendo “mh, ora mi alzo” e ad immaginare senza motivo una conversazione sul genere di: «Certo che le sigarette sono fragili, eh?»

«Kubota-san, ma a chi vuoi che interessi?»

Quando finalmente si è alzato, per il resto della città era ora di andare a dormire.

 

Uno, due, tre…

Il soffitto è bianco. Non cambia mai.

Dieci, undici, dodici…

Una sigaretta,

un gatto,

un essere umano;

alla fine sono tutte esistenze poco importanti.

 

Una volta, Kubota si è ritrovato a guardare il soffitto.

Ha sbadigliato, si è messo a sedere sul bordo del letto e si è grattato pigramente la nuca.

Non ha fatto caso a cambiarsi subito, seguendo la sua routine giornaliera – almeno, quella di quando si svegliava con l’intenzione di alzarsi prima di sera.

Si è alzato, è andato in bagno e si è sciacquato il viso; si è spostato in cucina, gli occhiali al loro posto sul naso, e si è fatto un caffè. Mentre aspettava che fosse pronto – il solito caffè solubile di sempre – ha guardato un punto imprecisato fuori dalla finestra.

Gli è parso di intravedere un paio di uccelli, ma non ci ha badato troppo; e forse ad un certo punto ha pensato “ah, oggi pioverà”, ma è stata una distrazione di pochi attimi.

Poi ha versato il caffè pronto nella tazza, ha soffiato e bevuto mentre andava in soggiorno.

Quella mattina Kubota non ha acceso la tv, ma seduto sul divano ha continuato a guardare senza un vero motivo lo schermo rimasto spento e nero.

Forse c’era qualche notizia – un suicidio sotto la metropolitana, un traffico di droga della yakuza, un bambino prodigio in qualche parte del mondo – ma Kubota aveva continuato a guardare uno schermo vuoto dove l’unica immagine era il suo riflesso.

Quando si è stancato si è alzato, è andato in bagno ed ha aperto il rubinetto del doccia, lasciando scorrere l’acqua; si è tolto i vestiti – in realtà solo i pantaloni che aveva addosso – e poi si è sistemato sotto il getto della dell’acqua.

Non se lo ricorda quanto ci è rimasto, perché s’è perso un po’ per strada, per i soliti pensieri che definirli “profondi” o “sconclusionati” dovrebbe essere il compito di qualcuno che li condivide.

Ma Kubota è solo.

Non c’è nessuno dentro casa a parte lui, non c’è chi condivide a parte lui un qualsiasi pensiero e se anche lo esprime ad alta voce – si è accorto di farlo ogni tanto, ha sentito che è naturale e accade di frequente quando si va a vivere da soli il primo periodo – in risposta non arriva nulla.

Il silenzio ingloba le parole, ghiotto di qualsiasi cosa lo spezzi per il semplice e naturale ripristino che poi si attua.

Un paio di volte, una delle quali proprio quella sotto la doccia, Kubota forse se l’è chiesto, come mai il silenzio alla fine torna sempre.

Di sicuro c’era una teoria. Ma se l’è dimenticata.

Dopo quella doccia, Kubota ha letto il giornale tanto per informarsi di un mondo di cui tutto sommato non gli interessa granché, e alla fine ha deciso di mangiare qualcosa di solido e poi di vestirsi in maniera decente perché fare la spesa richiede di uscire vestito, e a fare la spesa è obbligato.

Perché, nonostante la cosa potrebbe non andargli particolarmente a genio forse, è ancora umano abbastanza da aver bisogno di nutrimento.

Alla fine ha messo la giacca, ha messo in tasca l’orologio da taschino senza guardare l’ora, si è acceso una sigaretta ed è uscito; sul pianerottolo Kubota ha incrociato i vicini – o meglio, la signora e suo figlio – e ha detto “buongiorno” in risposta al cenno col capo di lei.

Si è mosso, ha sceso le scale, si è messo in strada; è andato e tornato dal conbini, e poi si è ritrovato a guardare per aria e a spiegarsi il perché dell’espressione stranita di lei.

Forse dire “buongiorno” alle sei del pomeriggio non era sensato, effettivamente, anche se era stato involontario.

E dire che stavolta era davvero convinto di essere uscito di mattina.

 

Ventidue, ventitre, ventiquattro…

Alla fin fine,

riconosce il giorno dalla notte solo guardando il cielo.

Trentasei, trentasette, trentotto…

L’orologio da taschino,

ogni tanto,

scandisce il suo tempo in quella casa.

Ma Kubota non ci fa mai caso.

 

Kubota non è mai stato un tipo particolarmente superstizioso.

Dal momento che non crede in Dio, in Buddha o in qualsiasi dottrina filosofica potrebbe scovare leggendo un libro in proposito, alla fine ha fatto suo un solo: quello secondo cui non c’è nessuno “lassù” ha decidere della sua vita al posto suo.

Ad un certo punto, giocando ai videogame, ha pensato che decisamente dubita che ci sia qualcuno che lo controlla con un joystick.

E questo è stato fondamentalmente il motivo per cui alla fine molte cose hanno perso di importanza.

Non c’è nulla di particolarmente importante, o di giusto o sbagliato: alla fine, per quello che lo riguarda, la maggior parte delle cose dipendono dal suo giudizio personale, e tutte quelle che non vi rientrano è semplicemente perché non lo sfiorano nemmeno.

Che la società vada in malora, che i giovani si uccidano d’overdose, oppure che qualcuno in un vicolo uccida qualcun altro non è comunque qualcosa che lui potrebbe cambiare.

Allora ha deciso che se non è influente per la città come la città non è influente per lui, preoccuparsene troppo sarebbe davvero poco utile; e così anche il futuro.

Chissà se domani respirerò.

Chissà se domani correrò perché sono in ritardo.

Chissà se domani Komiya entrerà di nuovo dicendo che “dovresti decisamente rispettare gli orari e non andare e venire come ti va, Kubota-san”.

Quando gli chiedono se non abbia preoccupazioni al mondo, Kubota spesso non risponde – non lo fa quasi mai davvero a prescindere dalla domanda, in realtà – e le poche volte che dice qualcosa cose come: «Sono troppo pigro.» e ne sorride, o con la sigaretta tra le labbra continua a giocare ai videogames.

Però, nonostante non sia superstizioso, Kubota quella volta ha capito che qualcosa forse sarebbe andato diversamente.

Bah, più che capito forse se l’è solo chiesto per i primi dieci secondi, durante i quali è passato dal mondo dei sogni a quello reale.

Eppure non ha potuto farne a meno.

Una volta a Kubota è capitato di svegliarsi.

Non guardava il soffitto.

Era girato di lato, ed era mattina.

Il primo suono che ha sentito non è stato il silenzio; era l’orologio che scoccava le otto e un minuto.

 

Quarantadue.

Quel giorno Kubota, chissà perché, ci ha pensato.

Quarantatre.

A quel gatto morto che ha visto.

Quarantaquattro.

Era un po’ che non ci pensava.

Quarantacinque.

Si è detto: “Ah”, niente di più.

Poi ne ha seppellito uno visto con Komiya.

Quarantasei.

Mentre tornava a casa, Kubota ha visto un altro gatto.

Uno che somigliava più ad un essere umano, e siccome lui non è particolarmente affine a quella razza, ha esitato.

Lo ha guardato chiedendosi se non dovesse tirare dritto, e basta.

Per un attimo, ha quasi mosso un passo in avanti: poi ha sospirato, si è chinato, si è fatto passare un braccio di quel qualcuno intorno alle spalle, ed è tornato a casa dicendosi che avrebbe dovuto smetterla di raccogliere randagi per i vicoli.

Cinquanta.

Il rumore delle lancette era insolitamente fastidioso.

 

 

Kubota ha preso ormai l’abitudine di alzarsi la mattina, e non ad orari improponibili – il suo massimo è attardarsi a ridosso di mezzogiorno, ma accade raramente e solo quando un lavoro di Kou-san lo ha tenuto particolarmente occupato fino a tardi.

Di solito a svegliarsi è sempre il primo – salvo forse quando tocca a Tokito cucinare – e legge con calma il giornale che ormai ha preso a controllare quotidianamente o almeno in maniera più regolare di prima; ogni tanto, in attesa che Tokito si svegli, guarda il notiziario in tv, giusto per avere una panoramica migliore dei fatti che smuovono la società.

Non fa mai colazione da solo, ma spesso beve il caffè solubile quando l’altro ancora dorme, un po’ per abitudine e un po’ per passare il tempo.

Spesso però capita che si metta ad ascoltare il silenzio, che regna ormai solo quando Tokito non è sveglio o in giro per casa.

La stanza che ora è vuota e tranquilla, e che era sempre stata così in passato, ora si riempie di suoni che se anche c’erano prima, non attiravano la sua attenzione – quelli artificiali dei videogames con musichette annesse, ad esempio.

E ad essi se ne aggiungono altri che prima erano sconosciuti; il telefono che squilla per un lavoro, Kasai-san che ogni tanto passa a trovarli, il modo in cui chiama Tokito con quel fare scherzoso da vecchio zietto – ehi, Toki-bo! – e… la voce di Tokito.

Parla, ride, impreca, si annoia, si arrabbia, e poi ride di nuovo, e si lamenta e continua a ripetere: “Kubo-chan”.

Lo ripete in continuazione, forse anche più di quanto servirebbe, quel nome con cui nessuno l’ha mai chiamato.

La voce di Tokito ha preso il vizio – ma si può poi chiamare vizio? – di riempire la stanza, il silenzio e il tempo; Kubota ha messo via l’orologio da taschino, ma quando Tokito dorme gli sembra di sentire il ticchettio leggero dell’oggetto, anche se si trova in un’altra stanza.

Quando ci ripensa sorride, e torna a leggere il giornale.

Quell’orologio si sarà sicuramente fermato, durante la pausa impercettibile fra il sessantesimo secondo e lo  scoccare il nuovo minuto.

«’giorno…» è il borbottio che gli arriva all’orecchio, e poco dopo la fronte di Tokito è contro la sua spalla; probabilmente mentre lui sbadiglia, ancora troppo in coma per dire o fare qualcosa di diverso prima dei prossimi cinque minuti.

«Buongiorno.» è la replica che gli rivolge Kubota, tornando con lo sguardo sul giornale; dopo qualche minuto lo sente alzare la fronte: «Kubo-chan, caffè…» chiede implicitamente di averne uno anche lui, mentre posa le braccia sulle spalle del coinquilino con fare casuale – di questo Kubota ne è praticamente certo.

«Va bene.» gli concede, alzandosi e rivolgendogli un sorrisetto, abbandonando il giornale ripiegato sul divano: «E’ il mio turno in cucina per colazione, giusto?» fa retoricamente, l’altro che pronuncia qualcosa con fare entusiasta che fa incurvare le labbra di Makoto con naturalezza, anche se Tokito non se ne accorge.

 

Kubota ha preso l’abitudine di osservare Tokito mentre fa colazione.

Lo dissimula con facilità, ma lo fa sempre.

Lo osserva ogni volta che può, spesso anche per lunghi periodi di tempo e principalmente quando Tokito è troppo preso dai videogame a cui sta giocando per accorgersene.

Kubota gli siede alle spalle, sul divano, e lo osserva.

Osserva la causa quello che lo ha scombussolato la mattina in cui si è svegliato alle otto e un minuto; pensa di aver trovato la risposta a quella sensazione di qualcosa di diverso dal solito.

Kubota ha sempre avuto un debole per gli animali, perché probabilmente preferiva considerarsi tale anche lui: senza lasciarsi influenzare dalle questioni degli esseri umani, uomini o donne che fossero, non era importante che si svegliasse la mattina, vivesse nel pomeriggio e andasse a dormire la notte.

Non era importante quando mangiava, o se il suo fuso orario era completamente opposto al resto della città.

Poi ha trovato un gatto che aveva bisogno di cure, che doveva essere nutrito e ha dovuto aggiustare i propri ritmi di vita perché fra i due – che gli piacesse o meno – era lui quello più umano.

O meno animale.

O più autosufficiente, forse.

Kubota ora vive con un coinquilino da un anno ormai.

E qualcuno gli ha detto sottilmente che c’è qualcosa di malato, quasi, in come si comporta verso di lui – in ogni caso… se dovessi di nuovo affezionarmi a qualcuno, starò attenta a non diventare come te! – qualcosa che somiglia alla dipendenza.

Ironico, parlare di dipendenza dalla droga, o no?

 

Kubota ogni tanto tende l’orecchio.

Quando Tokito si sveglia, prima che la sua voce riempia la stanza, è quasi certo di sentire la lancetta di un orologio diverso da quello da taschino.

È quasi certo che, se lo guardasse, segnerebbe le otto e un minuto.

 

Cinquantanove, sessanta.

Pausa.

«Kubo-chan!»

Forse la vita non è così male.

Uno…

   
 
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