New York, agosto.
Infilò ben bene la cuffietta dell’mp4 nell’orecchio, fece lo stesso con l’altra. Strinse gli occhi, continuando a premere il tasto per aumentare il volume, serrando le mascelle, trattenendosi dal fare rumore. Si premette sempre di più nell’angolino, anche se lo spazio tra la tazza del gabinetto e il muro era troppo piccolo e non gli permetteva di starci bene, con le gambe. Ma così appallottolato si sentiva più al sicuro. La porta era chiusa a chiave, lui era nascosto, nessuno si sarebbe accorto di lui, né lo avrebbe sollevato, sbattuto contro il muro e preso a pugni fino allo svenimento.
Sentì un piatto infrangersi, in lontananza. Questo significava che era ancora troppo basso, quindi continuò, continuò ad alzare il volume. Quando solo poche, cristalline note risuonavano nel suo cervello, rimbombando da una tempia all’altra, infrangendo ogni pensiero come si fa con le dita e le bolle di sapone, si permise di fare scivolare un’unica goccia di vergogna lungo la guancia. Bruciava, carbonizzava la striscia di pelle che stava attraversando, ogni cellula si dissolveva, in una nuvoletta di vapore che svaniva dopo pochi istanti.
O, almeno, era così che lo percepiva Joshua.